La tracotanza, quella che i Greci chiamavano hybris, è una parola che racchiude in sé presunzione, violenza, arroganza; la perdita dell’armonia con se stessi e con l’Universo, la rottura dell’equilibrio assicurato dal rispetto della giustizia e delle norme etiche prima ancora che delle leggi sociali.
È una parola pesante, gonfia di superbia, davvero troppo, e sempre più, sottovalutata nelle sue drammatiche e rovinose conseguenze. È l’illimitata sicurezza del proprio ”diritto” ad esigere, a pretendere, a far valere le proprie ragioni, ad esercitare il proprio potere senza deroghe, senza alcun cedimento; è il possesso della verità, che sempre giustifica se stesso, che non ammette dubbi e si nutre delle proprie certezze come di un impercettibile veleno che, “mitridaticamente”, diviene abitudine alla sopraffazione, al linguaggio dominatore che impone il silenzio a chi viene considerato più debole, che si erge con protervia a sfidare ogni limite, a prendersi ogni presunta libertà, straripante di orgoglio e di insipiente spavalderia.
La conseguenza del peccato di tracotanza, perché tale lo consideravano gli antichi, era l’accecamento, quello fisico di Edipo, ma anche la follia accecante che, facendo perdere di vista la misura, apre la via ad ogni eccesso, alle deliranti illusioni di onnipotenza.
Ed è questa follia che oggi ricompare e si ripropone come tracotanza “di genere”, protervia scellerata, o forse sventurata, di un “maschile” che esige di farla brutalmente da padrone su un “femminile” di nuovo punito per il solo fatto di esistere, quasi rispondendo ad una ancestrale memoria di colpa che vuole vendetta e giustifica il castigo.
Eppure oggi siamo venuti a conoscenza di altre verità e sappiamo che la perdita della paradisiaca bellezza del giardino dell’Eden è in realtà la rappresentazione storica del catastrofico cambiamento che, come ha ampiamente dimostrato l’insigne archeologa Marija Gimbutas, vide prevalere i bellicosi pastori delle steppe sulle popolazioni che praticavano pacificamente l’agricoltura e veneravano nelle Grandi Madri il principio femminile che rimanda al ciclo eterno di nascita, morte e rigenerazione. Imponendo i loro Dei guerrieri, eroici e virili, sempre rappresentati in armi, riducendo le Dee e le donne al ruolo di consorti o concubine, dando sempre maggior valore al potere che toglie la vita anziché a quello che la dà, finirono per far passare una visione del mondo bellicosa e violenta che privilegiava la dominazione e il conflitto.
Il seme della sopraffazione ha dunque radici lontane, alligna in un terreno atavico, ma la lunga esperienza e la conoscenza millenaria appoggiate come amuleti sui nostri corpi di donne antiche come la Terra sanno essere antidoto al dolore e farmaco sapienziale.
Riusciamo così a ricordare che la più forte e irresistibile risposta alla cieca violenza, alla follia distruttiva è il ritorno al sapere del cuore che conosce la via della verità, dell’amore, della giustizia, che coltiva la fiducia e la custodisce abbandonandosi alla voce antenata che da sempre dimora dentro di noi.
Abbiamo un filo che ci tiene legate alla Madre originaria, un filo robusto che inanella le preziose perle dell’appartenenza al grande cerchio della condivisione per donare ad ogni donna il magico gioiello della sorellanza.
In questo filo che unisce le nostre esistenze sta la nostra forza, qui sappiamo ritrovare e far crescere la potenza che è in ognuna di noi: è una scintilla che sta dentro al nostro spirito indomito e tiene costantemente acceso il fuoco che alimenta le nostre emozioni, i nostri sentimenti, i nostri sogni, le nostre speranze. È un calore forte e delicato che accarezza con dolcezza le nostre fragilità, che asciuga le nostre lacrime ma ci fa anche piangere di gioia.
È la memoria delle donne di lontani deserti in cammino verso il pozzo profondo dove l’acqua è il bene più prezioso. È il sentire che condivide la fatica e la forza dei loro gesti immutati dai primordi del mondo con una commozione che non ha tempo, non ha spazio, ma è soltanto la percezione della grande Anima Femminile.
È la danza di ringraziamento per il raccolto abbondante, è il canto per invocare la pioggia, sono le mani che schiacciano i semi nel mortaio di pietra e si muovono al suono delle voci intonate da secoli con la medesima cadenza, è l’impasto della farina a formare l’alchimia del pane in cui acqua, fuoco, terra e aria si mescolano come per magia.
È la gioia dell’incontro con altre donne provenienti da mille luoghi, che parlano mille lingue, che cantano e ballano con mille ritmi ma con lo stesso desiderio di armonia, che si abbracciano con lo stesso amore, che si confidano desideri e attese, che si rivolgono con fiducia alla stessa Madre che parla e comprende ogni lingua, che si rallegra e gioisce di ogni gesto che le rende onore.
È la conoscenza dei percorsi che discendono dalle stelle, è il ritrovarsi nell’intuire l’arrivo del vento, il sussurro delle onde, il profumo delle stagioni nell’eterno divenire delle esistenze, è la familiarità con il silenzio; è il sapere trasmesso di madre in figlia durante l’equinozio di primavera, è il legame profondo con la Natura e le Forze primordiali alle quali le donne possono ancora attingere per salvare la qualità della vita.
È la dolorosa empatia che condivide le infinite sofferenze e umiliazioni alle quali le donne sono condannate da una visione del mondo che ancora uccide la differenza e discrimina la diversità, che impone la legge della forza sulla norma della saggezza impressa nella coscienza originaria: il corpo che grida sotto i colpi della violenza è lo stesso corpo che dà nutrimento e vita ad ogni essere, quella che urla è la stessa bocca attraverso la quale passano il respiro che dà voce a tutto ciò che vive e la parola che è alimento dello spirito.
È la tenerezza che senti verso ogni creatura, che sia animale, pianta, uomo, che, come te, vede il Cielo, tocca la Terra con le sue mani o con le sue zampe o con il suo corpo strisciante, che, come te, respira attraverso l’Aria o nelle profondità del Mare, che si scalda ai raggi del Sole o si muove silenziosa e attenta nel buio inondato dalla Luna, che, come te, conosce e ascolta i segni della paura ma sa gioire della libertà e dello scampato pericolo.
È il valore dell’ospitalità, dell’accudire e del nutrire l’ospite, dell’offrirgli l’acqua per lavarsi e dissetarsi con i gesti ancora capaci di esprimere la pietas, il desiderio di incontrarsi nel grande abbraccio della compassione.
È la preghiera che protegge e accompagna il nostro cammino attraverso la foresta che porta alla Caverna dalla quale ogni vita ha inizio e alla quale ogni vita ritorna per intraprendere un nuovo viaggio.
È un fuoco mite che scalda le nostre ossa quando cominciano a ricordarci che stiamo per incontrare la vecchiaia e che dobbiamo imparare a conoscerla, a non averne paura, a considerarla un’amica che sapevamo esistere ma che non avevamo mai conosciuto, un altro “femminile” per il quale nutrire indulgenza e comprensione, un altro legame che ci aiuterà a conoscere il rispetto per chi è più debole, per chi ha più bisogno di ascolto, di bene, di tenerezza.
È la capacità di provare stupore, di guardare le cose con occhi di bambina, è la generosità che si sofferma ad ascoltare, che sa giocare e ridere ma anche condividere i pensieri malinconici e donare un gesto di amorevole cura.
È incanto, innocenza, meraviglia!
Questo “femminile” è divino e violarlo è una colpa, un sacrilegio.