Il difficile non è raggiungere qualcosa, è liberarsi dalla condizione in cui si è.
(Marguerite Duras)
Espressione di libertà e libertà di espressione: questo sono stati i muri della rivoluzione libica, del Febbraio 2011. Negli ultimi anni, Tripoli è apparsa colorata dai graffiti più incredibili. Oggi che i risultati della libertà stentano ancora a decollare, eccoci ad affrontare un breve e curioso viaggio attraverso questi tratti decisi, prima che scoloriscano definitivamente e facciano dimenticare tante domande. Perché il disegno, come la scrittura, necessita di poco materiale, non costoso, facilmente accessibile a tutti: bastano la fantasia, le idee e i sogni, una grande voglia di volare, pennelli e qualche barattolo di colore.
In generale, i muri sono sempre stati simbolo di chiusura, divieto, isolamento, inquietudine, paura, mancanza di libertà, di proibito-sbarrato-bloccato. Dicono e trasmettono controllo, sospetto, nascondiglio, mistero e attenzione ma ricordano, inesorabilmente, che si può anche fuggire, scavalcare, scappare, volare via lontano. Il muro che separa e divide riporta alla memoria Berlino, il maestoso vallo di Adriano, il duro muro israeliano-palestinese. E poi i tristi e grigi muri della memoria e della vergogna, quelli del pianto di Gerusalemme, di Santiago del Cile, della nebbiosa Belfast o degli invalicabili confini fra Messico e Stati Uniti. I muri sono sempre stati simbolo di ostacolo, di tristezza, di netta, rigida e grigia separazione, di ignoranza, di non rispetto, di incertezza, di pianto e di vergogna.
Nella Tripoli della storia recente, invece, muri e pareti hanno significato libertà di pensiero e di espressione, veicolando il messaggio di una rivoluzione di giovani e di anziani, di uomini attenti che, con colori e pennelli, imbrattavano il passato, esprimevano disappunto e gioia condivisa di momenti sofferti. Una sorpresa degna del più grande, tenero, invitante e dolce uovo di Pasqua del mondo.
Questa spettacolare libertà di espressione, una street art particolare, si manifestava già nel 2011, attraverso la ricca, e ormai leggera, fantasia e i simboli disegnati di pensieri a lungo soffocati. Ora si poteva parlare, non solo sussurrare, dare un colore alle idee, si poteva gridare, leggere, scrivere, colorare, pensare, ragionare, contestare, sognare, sperare, uscire allo scoperto di un cielo senza troppe nuvole, insomma riflettere e finalmente pensare.
A gennaio 2012, quando iniziai i primi viaggi a Tripoli, il timore dell'incertezza e dell'instabilità del paese veniva magicamente addolcito dall'osservare, con immensa meraviglia, quei muri che sembravano ospitare, a braccia aperte, disegni e ombre colorate che inneggiavano alla libertà e alla fine del tiranno. Cercavo in ogni vicolo un'immagine diversa. Incredibilmente la trovavo, sempre. Giravo l'angolo e ali di un un'aquila vittoriosa, pagine di libri da sfogliare e visi di giovani apparivano alla mia vista.
Alcune saracinesche crivellate da antichi colpi di arma da fuoco erano dipinte con colombe e verdi rami di ulivo, noti simboli di pace. Ero stupita da quel controsenso di una colomba dipinta su temibili fori di proiettile, sparati da mano ignota. Forse qualcuno aveva voluto mandare un messaggio a chiunque passasse di lì con animo curioso e desideroso di pace.
Camminavo per le strade della città, grandi e piccole, strette e larghe, lunghe e corte, non osavo prendere foto per il timore di urtare qualche ignota e nascosta suscettibilità. Non sapevo ancora esattamente dove ero capitata. Solo una mattina di una calda e ventosa giornata di Ramadan, alle 6h30, quando tutti dormivano ancora dopo il lauto pasto a valle della prima preghiera della giornata, avrei avuto il coraggio di aggirarmi per le vie silenziose e polverose di Tripoli, carica solo di una leggera macchina fotografica argentina e di tanta profonda, pura e rispettosa curiosità. Davanti a me si apriva un mondo che odorava di magia, un colore rosa pallido e tenue tempestato di brillantini stellati, una voglia di gridare quanto era bello essere liberi, quanto poteva essere incredibile e stupefacente esprimersi a colori e con i colori che odoravano solo unicamente ed esclusivamente di colori.
Pennelli, tubetti e vasetti avevano preso il posto di fucili, granate e mitragliatori. Non più fumo ma solo tutte le tonalità dei colori liberi e leggeri. Solo a essi la parola. La vita prima era in bianco e nero, un film muto e senza sottotitoli. Ora i curiosi registi di pellicole variopinte e vocianti urlavano la loro immensa felicità al sole caldo e accecante, dagli avvolgenti raggi liberi e maestosi che assomigliavano a rami nodosamente aperti e multiformi di una verde, rigogliosa, ricca e fiorita pianta rampicante carica di gemme. I colori dominanti erano, oltre a quelli della nuova bandiera libica - nero, rosso e verde -, l'arancione, il giallo e l'azzurro. Le tonalità del sole, del mare, del cielo, della verità e della ragione.
Molte mani abili e intelligenti avevano lasciato una traccia, un'ombra, un tratto deciso che diceva “ci siamo”, una macchia, una nuvola, un soffio, un alito, un respiro di nuova speranza. Ti immaginavi un giovane seduto a dipingere ma poi parlando con il vicino di ufficio che aveva ricamato la sua saracinesca di barbiere o di elettricista, ti accorgevi che non solo i giovani avevano preso parte a quel colorare la città rinata. Tutti c'erano stati. Tutti avevano voluto il cielo liberamente dipinto. Tutti avevano voluto contribuire a cancellare le nubi. Magicamente, anche un arco vicino a una bianca, candida e merlettata moschea, ospitava una scena dipinta di vita quotidiana. Libya Free, lo leggevi quasi ovunque, incrociavi volti di giovani sorridenti, gente che dalle saracinesche dipinte sventolava bandiere, condizionatori coperti e annegati anch’essi nei colori, occhi speranzosi.
Nessuno voleva più preoccuparsi di nulla e di nessuno. I mesi passavano, le coscienze rinate partorivano nuove idee fiorite. Eccoti allora a scoprire un nuovo lungo muro, interamente dipinto da giovani e forti mani, in un posto tremendamente simbolico, Bāb al-Azīzīyya, la “porta meravigliosa”. Di fronte a una guerra sepolta inneggiano ora suoni, musica, immagini e colori. Un libro aperto dipinto e sfogliato simboleggia la potenza della cultura, la voglia di poter leggere anche tra le righe, di usare la forza di una pagina per aprire porte mai aperte.
Ti soffermi sui petali di un fiore, alcune ragazzine poco meno che ventenni, ma dal capo coperto, sorridono al cielo limpido mentre intingono le loro giovani, spensierate e fresche idee nei colori della libertà. E poi ci sono le bandiere, gli arcobaleni, i muri illuminati, le colombe. Serenità e felicità ritrovate aleggiano e serpeggiano su quei muri.
L'oro del fresco tramonto, ormai sopraggiunto al termine della nostro viaggio durato una giornata, risplende su quei volti, svela tanti pensieri, tutti rigorosamente in fila, pronti a obbedire a un soffio di vento di gioia del tutto inaspettata. Nuove storie d'amore inconsapevoli stanno nascendo con nuovi entusiasti attori e sipari che si aprono sugli arcobaleni. Il muro, i muri qui trasudano libertà, traspirano essi stessi i sacrifici di chi ha permesso a tanti di arrivare a questo miracoloso oggi. Qui molti hanno ritrovato la luce e la felicità, questo paese a tanti ha dato tanto, me compresa. Mentre il Ghibli, sornione e tenero, sorride a Tripoli, così caldo ma così diverso, i capelli, pieni della sabbia da esso trasportata da molto lontano, si scompigliano e guardano in alto, felici di essere sotto quel cielo libero e leggero insieme a tante anime vocianti e serene, di fronte a un muro profumatamente colorato che ora sembra solo voler separare il passato da un luminoso e splendente futuro.
Brezza di speranza per una Libia che si deve riprendere, che deve uscire da ogni buio, tenebra e dubbio, perché terra meravigliosa e fatta di gente meravigliosa.