Il suo segno distintivo è un filo di colore acrilico blu, giallo e rosso. Ciascun colore corrisponde alla lunghezza delle sue braccia aperte. Con questa sua particolare pratica ha invaso luoghi pubblici contaminando gli spazi solitamente destinati alle affissioni pubblicitarie, coinvolto gruppi di studenti o persone nella realizzazione di installazioni, performance, workshop. Ha tentato di modificare la relazione tra artista e pubblico e artista e collezionista donando il Filo. Il Filo che connettendo due punti (cioè i suoi estremi) rimanda a un infinito immaginario di legami o relazioni, di supporto e di stima poiché la radice greca del suo nome racchiude il significato di amore/amicizia. Un insieme quindi di significati e rimandi che ci conduce direttamente nel mondo di Lorenzo Pezzatini, artista fiorentino che ha modificato la concezione tradizionale di pittura in un momento storico fortemente influenzato dal concettualismo separando il colore dalla tela e conferendo ad esso una valenza oggettuale e tridimensionale, autonoma rispetto al tradizionale supporto della tela. Ho approfittato di una piacevole giornata in compagnia di Pezzatini e della sua famiglia per conoscere meglio la sua pratica e il suo mondo e di seguito riporto l’interessante chiacchierata.
Data la centralità del Filo nella tua poetica possiamo partire proprio da questo elemento? Cos’è il Filo?
Non riesco a darti una definizione. Posso dirti come è nato, quello che rappresenta per me e ciò che mi ha condotto nella vita a fare questo tipo di scelta… ma cosa veramente sia non lo so e sinceramente forse non lo voglio nemmeno sapere. Il Filo nasce negli anni ’70 come distacco del colore dalla tela/superficie. Dopo anni di pittura nel ’76 arrivai alla conclusione che la pittura era per mio conto arrivata alla fine. Cominciai a dipingere con gli acrilici e facendo una ricerca di tipo riduttivistica sul colore, sulla superficie, mi trovai a utilizzare solo i colori primari fino ad arrivare alla realizzazione programmata del cosiddetto ultimo quadro. Fu quello un unico e catartico evento. Volevo dare un addio alla storia che mi portavo dietro venendo da Firenze e vivendo negli Stati Uniti.
Come hai sviluppato questo distacco del colore dalla tela?
Negli anni ’70 si vedeva molta Arte Concettuale e le gallerie erano vuote e si viveva un clima generale che portava alla cosiddetta dematerializzazione dell’arte. Scoprendo gli acrilici venne naturale capirne la plasticità e sperimentare lo stacco del colore dalla tela. Come ho fatto? Ho proceduto a una separazione: non utilizzando più il colore sulla superficie per rappresentare più o meno qualcosa ma per sfruttarne le sue proprietà come materia/colore. L’acrilico lo permette perché è fatto di un polimero, una sostanza plastica che ha un suo corpo e una sua specificità materica. La linearità del Filo viene da un tubetto strizzato. Una volta essiccato il colore cominciai a fare dei piccoli segni, colore su colore, pittura su pittura, materia su materia fino a che non mi resi conto che questi vermetti plastici avevano bisogno di avere un'anima tridimensionale. Trovai il modo di poter depositare il colore su un filo di cotone. Solo in seguito capii cosa era successo: era come se la tela si fosse sfilacciata nel suo elemento costitutivo minimo, essenziale (il filo) e fosse andata a ricevere quel colore che io avevo separato dalla tela. Quando creai il Filo per me fu un’epifania, una voglia di farne in continuazione e per 6 mesi non ho fatto altro: più di 1000 metri di Filo. L’occasione fu la mostra nel dicembre ’77 per la fine del mio corso di laurea B.F.A. presso l’University of Massachusetts ad Amherst. Produssi ossessivamente Filo tutti i giorni. L’idea era dipingere lo spazio, occupandolo con la pittura/Filo. Titolo della mostra A Bridging Statement. Successivamente costruii una grande Filo-bobina che potesse raccogliere il Filo, la sua casa madre che me lo potesse restituire ogni qualvolta ne avevo bisogno. In sintesi il mio lavoro mi permette questo: di raccogliere/accumulare e di restituire/ricevere. Questa è la mia “cellula generativa”. È la causa che mi permette di agire essendo allo stesso tempo una parte di me, un tutt'uno con me.
Come sei stato aiutato da tutta questa libertà?
Mi sentivo libero e avevo una mia dignità di linguaggio a cui il pubblico rispondeva con interesse, un linguaggio innovativo perché io mi presentavo come l'“artista del Filo”. Fu così che cominciai a sviluppare la forma dell'"Artist in Presence", io come artista, in presenza, con il mio Filo.
Il Filo, collegando due estremi, può essere inteso come mezzo di comunicazione, uno strumento che lega due parti e diventa anche uno strumento di relazione e di comunicazione. Sbaglio?
Il Filo in questo senso è fantastico.Il Filo è il mio medium. Ha un'essenza materica, sensuale, artistica e originale e che per esistere deve essere necessariamente fatto. Può essere tagliato e riannodato, può essere donato, e si colloca fuori dalla dimensione economica per rientrare in quella simbolica dello scambio, della comunicazione che trascende la sua pura essenza fisica e materiale. Il suo farsi e rifarsi diventa parte dello snodo della mia vita, delle vicende della mia vita. Perché quella ritualità che io metto in moto con me stesso mi da l'energia necessaria per la comunicazione. Volete sapere chi sono e cosa faccio? Bene, non ho problemi, vi faccio anche provare a farlo, non ci sono copyright o brevetti. Forse alla fine degli anni ’70 con l'inizio del post moderno l'artista aveva esaurito la forza del demiurgo e creatore. Questo tipo di artista non aveva per me alcun senso e volevo ristabilire un vero contatto con il pubblico.
La fine degli anni ’70/inizio ’80 erano anni decisamente poco favorevoli alla pittura. Come li hai vissuti?
Venendo dagli Stati Uniti non ero molto vicino alle esperienze della Transavanguardia ma ero più familiare con il concettuale, la performance, la body art. Ma io avevo trovato la mia strada (il mio Filo). Ero consapevole di non trovare mercato per quelle opere, ma anche che le mie risorse economiche avrebbero potuto scaturire dai progetti Artist in Presence e dalla produzione di gioielli che nei primi anni ’80 mi hanno dato da vivere a N.Y.
Qui in che anni siamo?
Siamo nei primi anni ’80 quando abitavo fra N.Y. e Roma, e dopo il conseguimento di un M.F.A. presso l’University of Massachusets a Roma, feci una mostra importante alla Galleria Lascala insieme agli esponenti del gruppo di Piombino, anche loro interessati a interventi di tipo socio-interattivo. Il mio intervento occupava gli spazi bianchi dei cartelloni pubblicitari lasciati così tra una pubblicità e l’altra. Ne feci un centinaio sia a Roma che a Firenze. Uno degli ultimi interventi nel 1995 si sovrapponeva letteralmente alla pubblicità di Oliviero Toscani per la Benetton. Dopo averlo strappato lo usai come fondale in occasione di una performance vestito da soldato militante del Filo alla Biennale di Venezia di quell’anno.
Torniamo ai nostri giorni. Dopo l’istallazione permanente presso la SENSUS Foundation di Firenze dove ci siamo conosciuti hai da poco concluso un progetto in Sardegna, vero? Di cosa si tratta?
Una gallerista di Firenze, Rosanna Tempestini, mi ha invitato a Bari Sardo,in Sardegna, per un festival di arte. Lì ho scelto di fare un intervento urbano facendo uso dello scotch Filotape che, posato a terra, forma complesse geometrie reminiscenti delle Cosmatesche medievali. Con l'aiuto di quattro ragazzi delle scuole medie ho realizzato ballofilotondo in onore e celebrazione del ballo tondo sardo con figure di uomini e donne che si tengono per mano e formano una stella.
Nella tua carriera hai fatto azioni abbastanza “strane”, quali ricordi con più affetto?
Tre performance realizzate ai Giardini in occasione della Biennale di Venezia. Non ero un artista invitato ma uno di quelli che usano lo spazio esterno dei giardini nei giorni della vernice per la stampa e per gli addetti ai lavori. Nel 1993 ero una scultura vivente, nel 1995 ero un soldato a difesa del campo dell’arte e nel 1997 ero un meccanico dell’arte e facevo materialmente il Filo in pubblico.
Quanti chilometri di Filo hai realizzato?
Quella della quantità è una domanda ricorrente. Pochissimi però si interessano alla qualità cioè quella data dal tocco individuale che pur ripetuto all’infinito è sempre diverso dando vita al principio della differenza nella ripetizione. È come pensare un campo d'erba dove ogni filo d'erba è diverso dall'altro. Posso leggerti un testo scritto per Artext?
“Il Filo non viene dipinto ma semplicemente fatto, creato nell’infinito succedersi di momenti morfologicamente unici e che danno origine ad uno sviluppo qualitativo e quantitativo che tende all’infinito. La forma filo nasce dalla decostruzione della tela e dall'estrusione del colore-materia dall'orifizio del tubetto. Da questo binomio inscindibile parte un nuovo episodio dell'eterno dialogo soggetto-oggetto, una sorta di epifania laica che da allora si dipana nello spazio e nel tempo. Il Filo diventata quindi il medium con cui il colore, trasformandosi in oggetto del mondo, mi consente di conoscere il mondo stesso e il mio personale rapporto con la realtà che via via si affaccia al gioco eterno della vita. Tutto ciò attraverso il piacere della scoperta continua della forma, della comunicazione e della possibilità di creare un ponte 'amorevole' con gli altri. In definitiva il Filo tenta di creare un grado 0 di relazione fra artista e fruitore allo scopo di dar vita ad un clima di partenogenesi magica e ludica di tipo 'verginale' e quindi avulso da ogni dimensione appartenente alla sfera economica. Se l’incontro sarà buono se ne potrà trarre linfa vitale dalle radici della memoria e far germogliare energia creativa allo stato puro e profondo”.