Forse non ci sono parole di pace quando la guerra invade le menti,
ma il pensiero resiste e il cuore ha bisogno di comunicare
con la forza della sua umanità.
Ecco il senso di questo scritto.
Dice Creonte, signore di Tebe, emblema del potere basato sulle leggi scritte dagli uomini per governare la città: “Il nemico non è mai amico, neppure quando è morto”, ma Antigone risponde: “Io non nacqui per condividere odio ma per condividere amore”. Sono parole delle quali sentiamo la forza, parole che ci coinvolgono e ci spingono là dove albergano le ragioni profonde dei conflitti, della sopraffazione, dell’ostilità che non ammette compassione e, in fine, della guerra che di tutto ciò è manifestazione estrema e ineluttabile.
Se si pensa alla guerra come forma eclatante di crudeltà, come gioco spietato di potere, esplosione incontrollata, inevitabile e necessaria, non è difficile condannarla, non mancano mai le parole che prendono le distanze dagli orrori, che ne denunciano la disumanità. Si può essere spettatori accorati e sentirsi dunque immuni dalla responsabilità, ma non è altrettanto facile accettare di riconoscere le cause remote, sottili ed insinuanti, di questo dirompente effetto; cause che mettono radici nella povertà di amore, nel tumulto della collera, nella gelosia che si alimenta di rancore e di invidia, nella dimenticanza della generosità e della pazienza, che è una potente arma di pace poiché chi sa “patire” sa anche essere compassionevole.
Sono tanti, davvero tanti i piccoli gesti quotidiani, le parole non dette, i pensieri inconfessati che si coagulano a formare un corpo oscuro, pesante, che preme sul cuore e toglie leggerezza al suo respiro e al suo pensiero, ne altera la voce che si fa cupa e arrogante, ne modifica lo sguardo che non sa più aprirsi alla visione (è questo il significato della parola invidia che rimanda al latino in-videre “guardare con sguardo torvo”).
Sono sentimenti incomunicabili che sfuggono abilmente alla coscienza che rifiuta di riconoscerli come propri pur sentendone tutto il peso perché l’invidia è dolorosa, stringe il petto come una morsa che “schiaccia” chi la prova e chi la subisce e il rancore ha un corpo, è fatto di materia che ha un odore come rivela la sua etimologia che rimanda al verbo latino rancere “sapere di rancido”, una parola ancora una volta smaterializzata dai Padri della Chiesa che la ricondussero al valore astratto di “disgusto” privandola di quella giusta immagine di sgradevolezza che dovremmo invece conservare proprio per non continuare a lasciarle spazio nel nostro animo.
Sentimenti che si nascondono nell’ombra, nella nostra “ombra”, quella sorta di sacco, come lo definisce Robert Bly, che ci portiamo appresso laddove anche la parola tace per non svelare, per non riconoscere la responsabilità, per non ammetterne l’esistenza. Sentimenti che si depositano a formare uno strato viscoso nel quale restano impigliate le ragioni della discordia ovvero di quella “dis-sonanza” dei nostri cuori incapaci di vibrare all’unisono.
E’ difficile sentirsi innocenti ovvero “incapaci di nuocere” quando il nostro pensiero, le nostre intenzioni sono competitivi, impazienti di avere ancora e ancora, in preda all’ avidità (l’ havere dei Latini che significa “bramare con impazienza”) e dunque giustificati nel cercare di dominare, di prevalere su chi viene giudicato meno meritevole, legittimati nello sdegno che è intolleranza per ciò che a noi sembra indegno e riprovevole.
E allora le parole di Antigone risuonano come un monito che ci induce ad individuare con coraggio e verità la nostra parte di colpa, a scegliere di non condividere la violenza e la vendetta che traggono alimento dall’odio, a non lasciare che il risentimento che, come una malattia indebolisce il nostro equilibrio, si installi nel nostro animo e vi trovi indisturbato rifugio, a non collaborare, a non accettare la legge che ne giustifica l’esistenza e ne condivide le ragioni.
E qui l’impresa si fa ardua perché l’odio è un sentimento potente, primordiale, capace di dilatarsi, radicato nel profondo, irrazionale e sconvolgente, impastato con la stessa materia di cui è fatto l’amore al punto da essere a lui speculare. L’odio è pieno di sfumature, impossibile a definirsi nella sua ampiezza che contiene la rabbia, il disprezzo, la disperazione, la follia che nella storia ha assunto ed assume i tratti metafisici della missione sacra. L’odio è capace di sconvolgere l’animo come un turbine, di attraversare la mente rapinandola di ogni misura proprio come l’amore che nei versi di Saffo “ … sconquassa il cuore come vento che, sul monte, si abbatte sulle querce”.
L’odio sa essere ingannevole e seducente, sa ammantarsi di eroismo, di audacia, di coraggio, “Il suo viso è contratto in una smorfia d’estasi d’amore” dice nei versi a lui dedicati la poetessa Wisława Szymborska; l’odio sa aspettare, sa insinuarsi e generare “le cause che lo risvegliano”, si serve della giustizia, fa appello al diritto per far valere le proprie ragioni. Alligna nell’inconscio, in quella zona oscura nella quale si nascondono tutte le passioni che la società, la famiglia, le convenzioni ci hanno impedito di confessare, di incontrare e conoscere perché degradanti, disdicevoli e pericolose; ma tenerle rinchiuse, cancellarne l’esistenza privandole della parola non ha impedito loro di alimentarsi, di crescere, anzi l’isolamento le ha rese forti e pronte a farsi valere non appena si apra un varco che permetta loro di emergere potenti e aggressive.
Lì sta il livore ovvero quell’invidia che rende livido, dal latino livere “essere di colore plumbeo, bluastro”, pallido di gelosia. Lì stanno la collera velenosa come la bile, il greco cholè, a cui la parola rimanda e la gelosia che l’etimologia popolare ricollegava ad uno stato di gelo che irrigidiva tutto il corpo fino a togliergli ogni energia, e ancora la furia, l’astio, l’ira.
Tutte parole che ci portano alla concretezza dei sentimenti che non sono astratti ma capaci di toccare i sensi, di avere conseguenze tangibili, di coinvolgere persino il gusto attraverso l’amarezza di cui è intrisa la radice del rammarico quando lo proviamo per la nostra inadeguatezza, di sentire “i capelli rizzarsi sul capo” per la paura e il turbamento contenuti nel raccapriccio che suscitano le immagini e gli orrori della crudeltà che nel “sangue” ha la sua origine. Sono sentimenti che agiscono sul nostro fisico e lo ammalano: una condizione dell’anima che sembra lasciare tracce sul corpo, sottrarlo alla bellezza e all’armonia.
E’ uno stato che ha bisogno di cura, e molta ce ne vuole per liberarsi dai mali provocati dall’odio in tutte le sue espressioni, una cura che richiede attenzione e silenzio. Un’attenzione che è comunicare da cuore a cuore, un silenzio che non è “stare zitti” bensì il latino silere ovvero restare in quella condizione di ascolto che conduce nel territorio del sacro per farci udire la voce della spiritualità, nella sua accezione più vasta, che trascende la parzialità dei diversi linguaggi religiosi, delle singole esistenze per inoltrarsi in quel “grembo di verità largo e accogliente” dove ritrovare parole come perdono, gratitudine, fiducia, comprensione, pietà* anche attraverso quella che Carla Gianotti chiama “pratica di consapevolezza e visione materna”.
E’ un silenzio che non si schiera, che non si indigna, che non stabilisce chi ha torto e chi ha ragione, che non alimenta lo scontro fra opposte ideologie. Non si adegua al meccanismo che si innesca con fredda ripetitività ogni volta che un fronte di guerra si apre con particolare violenza: eccesso di immagini, fiumi di discorsi, dichiarazioni di pacifismo talora urlate con violenza, scontri fra schieramenti partitici, impegni di ricostruzione. E poi, a telecamere spente, più nessuna voce fino alla prossima occasione di notorietà.
Se, come dice Antigone, siamo nati per condividere amore e non odio, allora il compito che a noi tocca in sorte per rispondere alla legge, non quella scritta dagli uomini, ma quella impressa nel nostro cuore e nella nostra coscienza, è quello di togliere alla guerra ogni sostegno, ogni aspetto eroico, affascinante, legittimato dalla presunta necessità di ristabilire equilibri e giustizia, e di esercitare la comprensione, che è “abbraccio” amorevole, unica via possibile per far fronte alle “intenzioni” di guerra.