Il ritorno di una stagione di terrore sul territorio europeo, ha portato inevitabilmente con sé il ritorno dell’idea dello scontro di civiltà. E’ in effetti un idea antica, quella che i popoli dell’Occidente hanno cominciato a coltivare, a partire proprio dal pensarsi come Occidente. Che in fondo cos’altro è se non definirsi in funzione di un altro da sé, geograficamente definito? E che poi, essendo la terra una sfera, chiunque potrebbe pensarsi come l’Occidente di qualcun’altro...
C’è un’opera fondamentale nel pensiero e nella cultura europea, che è poi il grumo originario della cultura occidentale, un’opera che è per l’appunto fondativa: l’Iliade. E cos’altro è, il poema omerico, se non la narrazione di un evento epocale, il primo scontro Oriente/Occidente? E, per inciso, cosa ci riferisce quella narrazione, cosa ci dice quel poema, per quanto composto dai vincitori occidentali? Ci dice che ad attaccare Ilio sono i Greci, e che Priamo e la sua gente non hanno la stessa brama di guerra e di vittoria che anima Agamennone e i suoi...
La bella Elena è la religione di oggi. Ovviamente nessuno crede, né ha mai creduto, che la guerra di Troia si dovesse al ratto (peraltro consensuale) della moglie di Menelao. Le ragioni erano chiaramente economiche, il controllo delle rotte commerciali, il saccheggio della ricca città... Ma stendere su queste il velo della nobile causa serviva - per l’appunto - a sviare l’attenzione dalla meno nobile sostanza. Ugualmente, il fondamentalismo religioso serve a decorare un conflitto che ha ben altre motivazioni, per quanto sia utilissimo anche a mobilitare combattenti.
Dai giorni di Omero ad oggi, però, qualcosa è profondamente cambiato. E non soltanto perché dalle armi in bronzo siamo arrivati a quelle batteriologiche. Da allora ad oggi siamo stati protagonisti di un processo, che negli ultimi decenni ha però assunto una velocità esponenziale grazie alle conquiste tecnologiche, e che abbiamo definito globalizzazione. Fondamentalmente questo processo ha prodotto una ibridazione asimmetrica tra le culture. La cultura occidentale - o meglio, quel suo epifenomeno che potremmo definire way of life - si è proiettata in ogni dove, con una penetrazione di massa senza precedenti. Non c’è praticamente luogo del pianeta che non sia stato raggiunto. Chiunque e ovunque conosce il nostro stile di vita. Ed è importante sottolineare come la globalizzazione sia stata e sia un fenomeno prevalentemente unidirezionale, in cui il flusso culturale si è propalato dai paesi occidentali al resto del mondo. Non si è prodotto uno scambio, se non in misura irrilevante. Una unidirezionalità che ha radici culturali, non dovuta a ragioni di predominio tecnologico e/o economico. Basti pensare alla stagione in cui - ad esempio - il Giappone era all’avanguardia sotto il profilo tecnologico, ma tutto ciò che ci arrivava da lì erano i suoi prodotti elettronici. O, per altri versi, a quella in cui i paesi petroliferi del Medio Oriente si sono comprati interi pezzi di America e d’Europa, ma senza che arrivasse altro che i loro petroldollari.
Da Achille a George Bush, l’Occidente si è sempre proiettato fuori dai suoi confini. Ovviamente anche altri popoli e altre culture hanno attraversato fasi espansionistiche. Ma nessun altro in modo così continuativo. Questo andare oltre è stato il tratto distintivo più profondo e più duraturo della cultura occidentale. Il che naturalmente ha avuto e ha anche valenze positive, perché quelli geografici non sono gli unici confini che ha voluto varcare. Il problema fondamentale, oggi, è che la Terra è uno spazio finito. Ed essendo la conquista dello spazio ancora al suo paleolitico, ciò pone una serie enorme di problemi. Anche perché, a furia di proiettare sul megaschermo planetario il nostro modello di benessere, questo è diventato l’obiettivo da perseguire per tutti. Solo che quel modello sarebbe insostenibile, anche solo per la metà della popolazione mondiale attuale. Per una questione proprio di limiti fisici. Per assicurare a tutto il pianeta uno stile di vita come quello nordamericano, ad esempio, servirebbero 10 volte le risorse disponibili sul pianeta.
Questo modello occidentale, verrebbe da dire per raggiunti limiti d’età, sta oggi collassando. Per un verso, per mantenerlo e difenderlo, si rende necessario quantomeno mantenere il dominio sulle zone strategiche del pianeta, che siano quelle relative alle fonti energetiche, ai minerali rari necessari per le nuove tecnologie, o - domani - all’acqua potabile. Ma l’effetto combinato di questo dominio, della globalizzazione e della pressione demografica, produce un altro evento epocale: una migrazione di massa da Oriente a Occidente. Per altro verso, gli effetti che sta producendo si riverberano in modo sempre più pregnante all’interno del mondo occidentale stesso. E non si tratta semplicemente di una emergenza terroristica, ma di qualcosa di ben più ampio e complesso. Ferma restando ovviamente la necessità di contrastare efficacemente le minacce militari, e di ridurre per quanto possibile i flussi migratori, rimane il fatto che affrontare alla radice queste problematiche significa rimettere in discussione quanto meno le forme di quel dominio. Il che, allo stato, non appare essere incluso nell’orizzonte politico delle leadership occidentali.
Se, dunque, a dividerci - a distinguerci, preferirei dire - sono i modi di vita, e se questi sono anche conseguenza del nostro modello di relazione col mondo, dobbiamo cominciare a porci la questione anche in termini culturali - e non solo politici e/o militari. Oggi abbiamo di fronte l’urgenza di ripensare i modelli con cui abbiamo gestito l’immigrazione. Anche a partire dalla considerazione che sinora (in termini storici) è stata contraddistinta dalla diluizione nel tempo, da un lato, e da un minimo di compatibilità, dall’altro (provenendo prevalentemente dalle ex-colonie). Mentre oggi il fenomeno migratorio è più variegato per provenienza e per destinazione, e soprattutto per quantità nel tempo. Ovviamente tralascio dal prendere in considerazione il modello respingitorio, che pure oggi sembra prevalere in molti paesi, per la semplice ragione che è, con ogni evidenza, impraticabile. E’ a malapena possibile chiudere un varco qui, solo nella misura in cui se ne aprono altri altrove. Non ne faccio nemmeno una questione di giusto/ingiusto. E’ semplicemente stupido.
Il modello basato sull’idea di integrazione mostra a sua volta tutti i suoi limiti. Non solo perché potrebbe funzionare solo in presenza di flussi molto limitati, e geograficamente non concentrati, ma perché in realtà questo modello non è mai stato nemmeno applicato sino in fondo. L’idea alla base dell’integrazione è quella dell’assimilamento. Il soggetto viene integrato attraverso una serie di fattori (economici, educativi, sociali... ), che hanno come esito auspicato che l’allogeno diventi indistinguibile dall’indigeno - se non, magari, per l’aspetto somatico. Ma questo è un processo che, ovviamente, non solo richiede molto tempo, ma necessita anche di alcune precondizioni, quali l’assenza di comunità etno-culturali cui fare riferimento, e l’assoluta apertura della società che deve integrare. Tutte condizioni che, non solo sono state assenti - o comunque insufficienti - in passato, ma che non sono riproponibili rispetto ai nuovi flussi migratori.
In parte legato alla constatazione del fallimento del modello precedente, abbiamo avuto il modello del multiculturalismo. Ovvero l’idea della convivenza parallela tra più culture diverse, sulla base di un comune rispetto delle norme. Ma, a parte l’ovvia constatazione che anche queste norme sono il frutto di una cultura, l’enorme limite di questo modello è quello di rinunciare aprioristicamente a una società coesa, ripiegando su una società frammentata non solo per classi, ma anche per appartenenza culturale. Una frammentazione insostenibile soprattutto in una fase di crisi e di trasformazione profonda come quella attuale, perché rischierebbe di produrre delle linee di faglia interne alla società, che potrebbero portare a pericolose fratture, in presenza di un livello di conflittualità elevato - sia esso verticale, interno alla società, o peggio orizzontale, tra la società occidentale e quelle di origine.
Per fare un passo in avanti, che possa scongiurare l’esplosione delle società europee, è dunque necessario partire da un profondo ripensamento di se stessi. L’Occidente percepisce se stesso come un insieme valoriale, ma cosa poi si intenda realmente con ciò si è visto nei giorni dall’attacco jihadista a Parigi: tutti i capi di stato e di governo hanno fatto riferimento al nostro stile di vita, come oggetto dell’attacco e come ragione dell’attacco. Ma cos’è questo stile di vita, in termini essenziali e scevro dalle sovrastrutture che vi poggiamo sopra? Fondamentalmente, esso è caratterizzato dal binomio produzione / consumo, e dal modo in cui vi interagiamo.
Parlare quindi di scontro di civiltà, o peggio, di scontro tra Occidente e Islam, è un’insensatezza. Non solo perché gli integralisti islamici in armi sono alcune decine di migliaia, mentre i credenti oltre un miliardo e mezzo. Né tantomeno perché noi siamo i buoni: tutti ricordano il massacro del Ruanda, ma pochi rammentano che fu opera dei cristiani Hutu, e che i molti sacerdoti implicati nei massacri si sono rifugiati in Vaticano... Così come viene sottaciuto che, adesso, nella Repubblica Centroafricana le bande armate cristiane hanno distrutto 417 delle 436 moschee del paese...
A meno di non volerci incamminare sulla strada della Terza guerra mondiale, che veda l’Occidente contro il resto dell’umanità, è necessario mutare paradigma. E proprio a partire dall’approccio culturale. Non più integrazione, né multiculturalismo. Occorre ripartire dall’idea di costruire insieme una nuova società, e quindi produrre una nuova cultura, nuove norme comuni. Quella che abbiamo davanti è una straordinaria opportunità, se la sapremo cogliere. E in fondo, proprio il nostro paese, che si è costruito sulla mescolanza delle genti e delle culture sin dall’inizio della Storia, è la prova provata di come da questa possa germogliare una cultura straordinariamente ricca. Il presupposto di ogni società umana è la reciprocità, lo scambio. Che si tratti di una famiglia, una comunità o una nazione, alla base c’è la volontà di mettere in comune se stessi, sacrificando parte della propria specificità in cambio di una nuova identità comune, collettiva. Proprio come adesso di fronte alla nostra idea di Europa, si tratta di rinunciare a un po’ del nostro particulare, per averne in cambio qualcosa di più, che lo superi.
Ancora una volta, ci troviamo dinanzi a un crinale della storia, e le scelte che faremo cambieranno il destino delle generazioni a venire. Proprio come quando gli Achei si radunarono sotto le mura di Troia. Sta a noi decidere se tendere la mano o impugnare la spada.