Nella mostra La Grande Madre allestita al Palazzo Reale di Milano, l’iconografia della maternità dal 1900 ad oggi ha offerto un panorama complesso e multiforme di una tematica che interroga da sempre il genere umano e che resterà sempre aperta alla formulazione di pensieri, alla possibilità di trasformazioni, a generare turbamenti proprio per l’intrinseco carattere di misteriosità che la connota.
Il titolo della mostra trae spunto da un trattato di Eric Neumann, allievo di Jung, che affronta l’archetipo della Grande Madre, sorta di immagine primigenia del materno, dedicandosi all’argomento per ben 18 anni. Questo concetto affascinante e pauroso rappresenta la madre come una potenza creatrice e, allo stesso tempo, distruttiva, una forza della natura incomparabile, immagine primordiale che abita l’inconscio collettivo attraversando contesti culturali e storici assolutamente differenti.
Il Serpente Cosmico, l’Uroboros è uno dei simboli più antichi e rappresenta un serpente che si morde la coda. In questo continuo divorarsi e rigenerarsi simbolizza il ciclo di nascita, morte e rinascita che costituisce la vita. È uno dei simboli di quella unità perduta con il tutto che è la memoria implicita dell’utero materno, è l’archetipo primordiale che inevitabilmente prefigura La Grande Madre.
Perché io sono colei che è prima e l’ultima /Io sono colei che è venerata e disprezzata / Io sono colei che è prostituta e santa / Io sono sposa e vergine / Io sono madre e figlia / …Io sono sposa e sposo / E il mio uomo nutrì la mia fertilità / Io sono madre di mio padre / Io sono sorella di mio marito, Ed egli è il figlio che ho respinto. / Rispettatemi sempre, / poiché sono colei che dà Scandalo e colei che Santifica.
(Inno a Iside, III – IV sec a. C.)
La mostra espone pochissime opere di fine '800 che rappresentano la madre come figura dolce, serena, rassicurante, quella assoluta base sicura a cui ci si può affidare totalmente e che è entrata nell’immaginario collettivo tanto da essere accostata alle Madonne dell’iconografia cristiana o rappresentata come fata nelle fiabe e cantata da poeti come immagine idealizzata del bene assoluto (ne sono un esempio il filmato di Alice Guy-Blanché La fata dei cavoli e l’incantevole La mangiatoia di Gertrude Käsebier).
Con la spudoratezza dello “Sbatti il mostro in prima pagina”, l’esposizione toglie ben presto l’alone di perfezione e santità alla maternità per vedere la donna nella sua umanità, riconoscendola come persona alle prese con la difficoltà del vivere, attanagliata da forze interne ed esterne che la turbano, da desideri di emancipazione e libertà da mentalità stereotipate, donna che riconosce i suoi desideri e vive drammaticamente la conflittualità col suo mondo interno, col maschile e col sociale. È pur vero che la colloca nientemeno che al Palazzo Reale e forse anche la scelta di questo contenitore regale ha un suo significato.
All’ingresso siamo investiti da un’enorme massa rossa dal diametro di quasi tre metri, fatta di fibre naturali, sfiorandola si percepisce molle e ruvida, è attraversata al centro da un taglio irregolare, si intravedono pieghe e lanugini, è comunque apparentemente informe, penzola in maniera inquietante e imponente dal soffitto, sembra sfidare esibendosi sfrontata agli occhi e al tatto, si rischia di cozzarle contro o di esserne investiti: si tratta di Abakan Red I di Magdalena Abakanowicz. Troneggia con sicumera nell’ambiente, è lei che lo connota e condiziona. Lascia un po’ intimoriti e perplessi. Quest'oggetto misterioso e apparentemente senza significato, adombra l’allusione ai genitali femminili con tutta la portata di immanenza, forza, paura, turbamento che suscitano sensorialmente e si riverberano poi nell’immaginario ed è evidente anche la molteplicità, la varietà, la indefinibilità, la misteriosità di cui la femminilità è fatta. L’opera dell’Abakanowicz introduce quasi con violenza in quello che Freud aveva definito “il continente nero” predisponendo i visitatori a uno sguardo curioso, attento, cauto e un po’ timoroso su quella sorta di psico-storia che le 26 sale della mostra metteranno in scena. Oggetti, quadri, video, film, libri, musiche, 400 opere in tutto concorreranno a cercare di dare senso e significato a quell’immenso personaggio che abita il mondo da sempre in tutte le culture, che ci abita tutti e che è la Grande Madre.
Jung al proposito scrive: “La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ...ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile”.
In Lapsus freudiano David Hammons appende per le spalline una velata sottoveste che, per il rigonfio che presenta, pare rappresentare una gravidanza, il tutto in maniera assolutamente rarefatta, non c’è corpo, ma si intravede qualcosa di corposo sotto il tessuto, è davvero un feto? O può essere un pene? Cos’altro? Senz’altro suscita molte differenti libere associazioni in chi guarda. In realtà l’oggetto misterioso è una maschera africana di legno scuro: il citato “continente nero”? Nel titolo la parola lapsus è molto evocativa, quale desiderio, quale moto dell’anima si celerà nella pancia di quella futura madre senza identità se non quella di avere un corpo gravido? Le maschera ha lo scopo di nascondere il volto, ha una funzione mistificatrice o protettiva, anche il bimbo che sta crescendo nelle viscere della madre è volto sconosciuto, può essere immaginato, sognato, desiderato, la maschera allora potrebbe essere il pensiero segreto e forse inconscio della madre desiderante il suo bambino, maschera anche riparante il bimbo da sguardi che potrebbero essere invidiosi, lesivi. La maschera dà spunto a libere associazioni, a pensieri visionari, come è noto Freud aveva arredato il suo studio di opere d’arte che usava come un’enciclopedia visiva per stimolare immagini mentali nei suoi pazienti. Allora, rispettando lo spirito freudiano, lasciamo che la sottoveste gonfia di Hammons rimanga lì, insatura, a ingravidare altre menti di nuove fantasie, di personalissime visioni.
Un acquerello dai toni delicati e forti, linee appuntite, tratti quasi infantili, con uno stile da fumetto dà vita all’Angelo strangolatore di Meret Oppenheim, storia di un infanticidio dove una donna dalle sembianze di maga tiene appoggiato al suo braccio un neonato esangue dal cui collo sgorga un fiume di sangue. Lo sguardo è obliquo e fisso, il mento appuntito sforma l’ovale del viso, le labbra quasi nere sembrano mosse in un ghigno. Le dita affusolate e contorte, le unghie uncinate laccate di rosso danno un movimento secco e malefico alla figura che si staglia contro due bianche montagne, abitate da abeti verdi, quasi due seni che contengono latte cattivo, velenoso, acuminato, ma le colline bianche sono anche le ali dell’angelo che si diparte dalla testa della donna: quali pensieri terrifici l’avranno abitata per creare questa confusione tra l’angelo custode, protettivo e Lucifero, l’Angelo sterminatore dell’Apocalisse che determina la fine del mondo? Quale impossibilità ad essere una madre avrà deformato il suo viso, la sua mente tanto da trasformarsi paurosamente e da uscire di sé? Questo quadro terribilmente vero non può non richiamare alla mente gli infanticidi che sporcano le pagine dei giornali e che ci raccapricciano, come quando si ha a che fare con dolori impensabili. C’è un bellissimo e terribile film Maternity blues che racconta dello sconquasso che deturpa le menti delle donne che scoprono di aver ucciso i loro figli, si avvicina al loro sconcerto, al sentirsi mostri quando la realtà bussa alla porta e prendono contatto col loro terrificante gesto e non si sentono più degne di vivere. Forse riguardando lo sguardo dell’Angelo Strangolatore possiamo vederci qualcos’altro oltre alla maleficità, forse c’è paura, forse il terrore della solitudine, forse c’è l’angoscia di non farcela, forse c’è il non trovare le parole, forse il perdersi nel frastuono, forse …
L’impossibilità di tollerare la separazione è resa tangibile dall’opera di Louise Bourgeois Do not abandon me dove “un due in uno” non possono separarsi, un cordone ombelicale paralizza in una unione disperatamente statica una madre e un neonato, l’immagine è di un fantoccio di tessuto rosa sdraiato sul pavimento che non ha possibilità di movimento ma che è fissato in un’eternità senza vita. La madre è inerme, raggelata e immobilizzata fisicamente dal terrore della separazione, non può decidersi di recidere quel filo che la lega indissolubilmente in un tutt’uno al figlio che è uscito da lei, quasi nonostante le loro volontà, ma che è rimasto incastrato dentro di lei con i due piedini, quasi a simbolizzare che non ci sarà cammino, non percorso di sviluppo, ma un atrofico immobilismo che li lascia in un eternità di unione, che li rende disumani, bambolotti di pezza, senza identità, senza desideri, senza pensieri, in quell’asfissia dell’anima che non tollera la differenziazione col suo respiro vitale.
Käte Kollwitz nell’incisione Donna col bambino morto racconta del dolore straziante della madre che non molla alla Morte il suo bambino, lo contorna con le braccia in modo avvolgente, come se ci fosse un desiderio onnipotente di reinfetazione, l’intollerabilità della morte del figlio rende impensabile la comprensione della realtà e la madre sembra fondersi con lui in un abbraccio per sempre, rifiutandosi di arrendersi a una verità impossibile.
Le ultime sale osano mostrare opere che raffigurano la genetica “post-umana” dove tecnologie e biologia si intersecano disegnando inaspettate geometrie di identità e di relazione, inquietanti labilità nei confini di genere, impensate modalità di rapporto. Non si esce a cuor leggero dalla mostra dopo aver attraversato immagini così pesanti e allora ci soccorrono e ci sollevano alcune fotografie (Rineke Dijkstra, Nuove madri) di una realtà che sembra lì da toccare, persone che paiono essere nella costellazione familiare di ognuno di noi e che ci permettono di ricontattare il lato meno oscuro della maternità, quello fatto delle piccole grandi cose di tutti i giorni. Una madre umana.