Tempo di celebrazioni per Ornette Coleman, formidabile iconoclasta del jazz. Coleman è morto la scorsa estate a Manhattan all'età di 85 anni per cause naturali, da uomo in pace e sereno quale sicuramente era, questa era l’impressione che restituiva quando si aveva il privilegio di incontrarlo. E’ notoriamente considerato l’artefice supremo del cosiddetto Free Jazz: probabilmente mai stile musicale si potrà ritenere così strettamente legato a un singolo musicista e a una sua opera in particolare.
Coleman veniva da Fort Worth e aveva cominciato a suonare il sassofono da studente con una banda r&b. Il vero debutto però fu a New Orleans, giusto il tempo di un breve ritorno a casa, e poi la migrazione verso Los Angeles: fu lì che nacque il suo stile particolare, affinato da qualche studio dopo una prima fase completamente autodidatta, Coleman fu capace di emergere in tutta la sua forza dirompente quando si trovò a inaugurare il Five Spot Cafè a New York, sfoderando un sax di lucida plastica bianca che emetteva note stridule. “Alcuni se ne sono andati ancor prima di finire il cocktail, altri sono rimasti ipnotizzati, altri litigavano a scena aperta”, scrisse il critico George Hoefer. “I musicisti be-bop suonavano cambiamenti - ribadì invece perentoriamente lui - e non movimenti. Io cercavo di suonare idee, cambiamenti, movimenti e note non trasposte”.
Era il 1960 quando Coleman registrò quello che sarebbe presto diventato il manifesto per eccellenza della liberazione totale del jazz da una certa qual ortodossia: 36 minuti di improvvisazione collettiva in doppio quartetto, che avrebbero segnato proditoriamente il nuovo corso della libertà. Liberazione che non sarebbe stata soltanto musicale, ma anche e soprattutto, socio-politica. Nella musica di Ornette Coleman, i ruoli complementari di solista e accompagnamento non avevano più ragione di esistere per coagularsi nell’esoterico concetto di Armolodia. Così lui stesso ebbe a definire la sua estetica, lontana dalle rassicuranti convenzioni vigenti, e anche se le parole che utilizzava per teorizzarla non bastavano a rendere concretamente il suo significato, quando suonava il senso arrivava dritto e concreto. Lo stesso termine, fondendo etimologicamente i due concetti di armonia e melodia, annullava quella distanza che separa in teoria la dimensione orizzontale della musica da quella verticale, abbinandole insieme per eliminare qualsiasi tipo di gerarchia formale.
Nel 1959, anno seminale e irripetibile per il genere afro-americano, Ornette usciva sul mercato con l’eloquente The shape of jazz to come, mentre Miles, Coltrane e Bill Evans, solo per citare tre giganti che si trovarono in studio fianco a fianco, pubblicarono rispettivamente Kind of blue, Giant steps e Portrait in jazz. Era dai tempi del be-bop che non spirava un vento così rivoluzionario, ma il paradosso è che non venne capito neanche da alcuni dei suo padri costituenti: Dizzy Gillespie davanti a questa impetuosa New Thing espresse feroci dissensi, lo stesso Davis non si risparmiò, definendo Coleman alla stregua di un ciarlatano che non sapeva suonare. Parecchi anni dopo ne riconobbe il talento straordinario, ma le scuse ufficiali non arrivarono mai.
Per Leonard Bernstein, un tizio notoriamente non facile, Coleman invece era un genio, ma Il nostro eroe dal canto suo, non se ne curava, procedendo imperterrito su un cammino non facile, che lui illuminava a partire dai titoli: Da Somethin’Else a This is our music, tuonava per chi era capace di comprenderlo, come per i più recalcitranti che poi invece lo santificarono. Imbracciando il sax alto come il tenore, spostandosi alla tromba o al violino (spesso elettrificato), Ornette non sacrificò mai lo spartito. Sembrerà un paradosso, ma il padre del free è stato (anche) un compositore assoluto, firmando temi sghembi e ficcanti, adorati oltre che dai suoi partner storici (con Don Cherry, Charlie Haden e Billy Higgins formò un quartetto di sodali imperturbabili), anche da musicisti molto popolari come Pat Metheny e John Zorn.
La struggente Lonely woman e poi The blessing, Turnaround, Rejoicing, Blues connotation, Dancing in your head, Song X rappresentano alcune delle tappe che lo portano anche a vincere un premio Pulitzer nel 2007 per la musica grazie a Sound Grammar, l’ennesimo capitolo emblematico. Ma il suo sassofono libero non tacerà mai e la prima delle iniziative coordinate dal figlio Denardo che ne celebreranno il genio, ha i suoi dettagli in un caleidoscopio di registrazioni inedite avvalorate da un roster di grandi musicisti fra cui Patti Smith, John Zorn, Sonny Rollins, Jack De Johnette, Cecil Taylor, Laurie Anderson, che riconoscono ancora in Coleman la loro principale ispirazione [1].