La forza di immagini in movimento, di azioni e gesti che partono dal cuore e che al cuore puntano dritto, emerge dalla vibrante tensione che informa l’equilibrio tra ordine e caos, tra dialogo e conflitto in cui convivono e si concretizzano l’autenticità, la verità e la bellezza del corpo amplificato della ricerca artistica di Francesca Fini (mixed media, video e performance). Esplorare, suggestionare, riflettere, evocare, incorporare, ritualizzare, trasformare, gestire, com-prendere, espandere: nell’arte, <>. Essere sensibili e attribuire a questa sensibilità i requisiti della responsabilità è una delle forze – e dei significati – più potenti del lavoro di Francesca.
Francesca chi sei?
Sono un'artigiana del digitale, una performer dadaista, una donna con l'ossessione-compulsione del videomaking.
Come sei approdata all’arte, e in che modo l’arte ti si è presentata?
Ho sempre sentito il bisogno di materializzare le immagini che avevo in testa, fin da piccolissima. Ho cominciato con la scrittura, paradossalmente: un paesaggio più vasto e flessibile del foglio di carta o della tela. Poesie, romanzi, racconti finiti chissà dove. Quando sono tornata dal mio anno sabbatico negli Usa, nel 1996, ho pubblicato un romanzo surrealista con la collana De-Generazioni della Casa editrice Ediesse. Contemporaneamente ho iniziato a fare video. Ho cominciato a collaborare con musicisti indipendenti, realizzando lunghi film onirici che facevano da scenografia virtuale alle loro performance live. Ho fatto i primi esperimenti di streaming on-line in tempi non sospetti, fondando la webtv "Unica", che si è occupata per un po' di musica underground. Ho continuato a scrivere, ho fatto esperimenti nel campo delle arti digitali, del 3d e della net art. Nel 2000, ho incontrato l’artista americana Kristin Jones e ho collaborato al progetto “Tevereterno”, creando grandi installazioni urbane qui a Roma; tra queste "Solstizio d'Estate", con la lunga processione di immagini gigantesche ispirate all'iconografia della Lupa Capitolina sui muraglioni del Tevere. Sempre con Kristin Jones, Kiki Smith e altri artisti ho partecipato nel 2008 al River to River Festival a New York, proiettando la mia animazione Moon Loop sugli alberi dell’Hudson River. Poi ho frequentato l'ambiente dei performer romani e ho iniziato a fare performance. Insomma ho passato molto tempo esplorando e ricercando, e la ricerca non è ancora finita.
Perché l’arte è importante per te?
Queste sono cose che non si possono spiegare. L'Arte è una cosa che fa parte di me. Vado a dormire pensando al mio lavoro, mi sveglio e mi metto all'opera. Ogni cosa che vivo e osservo nel mondo viene inconsciamente e ossessivamente elaborata in funzione del progetto a cui sto lavorando in quel momento. Non posso neanche immaginare una vita diversa da questa. È come essere posseduti da un demone, ma un demone buono.
Cosa, in questo momento della tua vita, attrae la tua attenzione e cosa riesce ad avere un effetto tale da influenzare te e la tua ricerca artistica?
In questo momento sto lavorando moltissimo sulla componente letteraria del lavoro che produco, sia nella performance sia nel video. La ricerca sui testi è sempre stata presente nel mio lavoro che inizia sempre, materialmente, con la scrittura, anche nel caso delle opere più astratte e simboliche. In questo momento particolare, però, sto cercando una modalità innovativa per integrare nei miei progetti la ricerca sulla parola: è un processo di continua ibridazione e contaminazione, credo sia il cuore di quello che faccio.
Il tuo lavoro nasce dall’impulso che segue a un’idea o a una necessità? Qual è il filo conduttore che ti porta a tessere la trama delle tue opere?
Il lavoro nasce sempre da un'idea, da un'immagine che letteralmente esplode nella mia testa come un palloncino. Chiaramente quell'immagine non viene dal nulla, è sempre il frutto di un lavorio inconscio iniziato chissà come e chissà quando. Un lavorio che poi emerge improvvisamente con la forza fulminea dell'illuminazione. Ma, dietro tutto questo, c'è sempre un percorso lunghissimo e sotterraneo, antico, che passa anche attraverso i sogni. I sogni sono spesso la mia principale fonte di ispirazione. C'è naturalmente un filo conduttore, e trattandosi di materia elaborata nell'inconscio il filo conduttore scende giù in profondità e si impiglia nelle mie paure, nei miei conflitti irrisolti. Il mio lavoro è riconoscibile proprio in virtù di queste tematiche ricorrenti, oniriche, viscerali, legate al lavoro sull'interiorità e sui simbolismi atavici.
Prima che una tua opera “accada”, che immagini e che sensazioni hai e che tipo di emozioni e sentimenti sperimenti quando, poi, l’opera “accade”?
Eccitazione. Diciamo che sono in un perenne stato di eccitazione. Con l'arte ho un rapporto di erotismo puro.
Nella resa finale di un tuo progetto artistico quanto peso hanno la pianificazione e la ricerca e quanto è imputabile, invece, all’imprevedibilità?
La ricerca e la pianificazione sono importantissimi e costituiscono la parte predominante del mio lavoro. Si parte da un'immagine, che come ho detto potrebbe essere di natura onirica, che porta poi a un processo minuzioso di scrittura: l'immagine deve diventare concetto e il concetto storia (e per storia non intendo una sequenza narrativa e lineare di eventi, ma una complessa struttura satellitare di immagini che si dipartono da quella originaria mettendosi in moto intorno a essa; una struttura dinamica e non lineare in cui l'energia simbolica di ogni immagine diventa espressione del suo peso all'interno del sistema). Alla fine di questo processo la "storia", il "racconto", c'è sempre, ma non ha mai un senso logico e razionale; il suo significato prende vita in una dimensione puramente emotiva e intuitiva. Chiaramente quando si innesca un processo di questo tipo, che chiamerei frattalico, l'elemento dell'imprevedibilità è inevitabile. Simboli richiamano altri simboli, prendono vita e interagiscono tra loro, in un caleidoscopio di effetti inaspettati.
Intimità, Presenza, Consapevolezza, Memoria, Tempo, Luogo... che accezione hanno per te e per la tua ricerca artistica?
Il tempo e la memoria sono elementi fondamentali nel mio lavoro. Chiaramente vengono sempre istintivamente riportati al vissuto personale ma cerco di non farmi trascinare in esperienze eccessivamente intimiste. Parto da me stessa ed esco fuori senza indugio, da dentro a fuori, dal piccolo al grande. Evito gli intimismi, i minimalismi depotenziati. Io credo che l'arte debba davvero, classicamente, assurgere a valori universali e parlare proprio a tutti.
Attraverso quale dei cinque sensi entri in relazione con il mondo, e quale utilizzi più frequentemente, più volentieri e con più familiarità quando lavori?
Io lavoro con tutti i sensi, persino quando il progetto è di natura digitale e mi tiene inchiodata al computer per mesi. Non è possibile fare una distinzione, anche perché da sinestetica quale sono, le mie scelte cromatiche, visuali, concettuali, sono determinate da una moltitudine di intuizioni sollecitate da tutti i sensi. Il colore per me è sempre suono, le forme sono sempre colore, odore, sensazione fisica.
Come e da cosa sai di avere raggiunto l’obiettivo nel tuo processo di creazione dell’opera? Quali sensazioni prova il tuo corpo quando hai la consapevolezza di aver raggiunto questa meta?
Questa è una questione molto difficile e non sono mai completamente soddisfatta del risultato. Però, so quando devo smettere di lavorare, quando si è compiuta in qualche modo l'esperienza che mi ha spinto a imbarcarmi in un progetto.
Quali sono le motivazioni, le spinte, i condizionamenti, i limiti e le conseguenze di essere un’artista oggi?
Ogni artista ha le sue motivazioni personali che lo spingono a fare arte e spesso non è neanche tanto semplice risalire alle origini di queste motivazioni. I condizionamenti e i limiti sono invece gli stessi: il tempo, il denaro, gli impegni della vita di tutti i giorni.
A che cosa può aprirsi il mondo attraverso l’arte?
L'arte è la chiave di lettura ultima del mondo. Non c'è filosofia, ideologia, storiografia, teologia che possa spiegare il mondo e la grande avventura umana come fa l'arte da sempre. Il mondo si apre, attraverso l'arte, alla comprensione di quello che siamo e che siamo stati.
Quanto può essere utile oggi a un artista esporre in un determinato contesto? E quanto può essere utile il loro passaggio al contesto che li accoglie?
Gli artisti devono esporre nelle gallerie d'arte, nei festival specifici, nei musei quando questi propongono programmi di livello, oppure al limite per strada. Sono abbastanza scettica sui contesti alternativi e modaioli. L'arte non può diventare tappezzeria collaterale di situazioni ambigue o ambivalenti. L'artista deve essere inserito in contenti pensati per valorizzare l'opera, non l'evento.
Quali delle tue opere ci proporresti come fondamentali punti di snodo nel tuo percorso?
Sicuramente il progetto interdisciplinare Mother-Rythm, che è un percorso molto lungo e ancora aperto che indaga il rapporto particolarissimo tra madre e figlia; la mia ricerca video sulla rielaborazione nello spazio digitale 3d di fonti bidimensionali, che comincia con White Sugar e prosegue con il mio ultimo video Dadaloop; le mie videoperformance legate al tema dell'identità nazionale, come Fair&Lost.
Che cosa desideri che le persone sentano quando entrano in contatto con le tue opere?
Tutto l'amore che c'è dietro.
In seguito alla tua esperienza di vita, alla tua esperienza dell’esistenza umana in senso ampio, qual è la tua concezione della vita?
Un'esperienza che deve essere affrontata con sincerità, coraggio e una buona dose di autoironia.
C’è un momento o un’esperienza alla quale colleghi quella sensazione intensa che fa dire “Io sono viva!”?
Sempre, soprattutto quando lavoro a un progetto mi sento viva. Ma, soprattutto, sento la vita in sé, la sua essenza, mi sento "connessa". In un certo senso, l'arte ha spalancato qualcosa dentro di me, una porta prima socchiusa. Oserei dire che mi ha reso spirituale, nel senso più vasto e arcaico del termine.
Come sai che sei un’artista?
Io non lo so, il mio è un sospetto, sto ancora cercando le prove del delitto.
Che progetti hai in cantiere?
Sto lavorando a un lungometraggio di videoarte in collaborazione con L'Istituto Luce. Il progetto si chiama "Ofelia non annega", è un film di 90 minuti che crea un surreale dialogo visivo tra videoperformance originali e il materiale d'archivio del Luce.
Francesca, dubiti mai di te stessa?
Costantemente.
Qual è il desiderio del tuo cuore?
Poter continuare a fare quello che faccio, poter continuare a essere quella che sono e vivere coltivando questa sana follia.