Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio, Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto. Italo Calvino raccontò questa antica storia cinese a conclusione di una delle sue Lezioni americane, quella dedicata alla rapidità.
Mi piace ricordarla per tornare a parlare del tempo, il tempus dei Latini, tempo cronologico ben distinto da quello atmosferico al quale davano il nome di tempestas. L’etimologia incerta rende ancor più misteriosa e indefinibile la vacua consistenza di questo elemento nel quale ogni cosa fluttua come piuma sul fiume, nel continuo, incessante avvicendarsi di un presente che sempre più rapidamente si fa passato e di un futuro che, in modo vorticoso, diviene presente con una bruciante velocità.
La citazione di Calvino va a toccare l’affascinante rapporto tra il tempo della durata e il tempo dell’intensità e potremmo anche dire che apre l’orizzonte a un tema oggi più che mai in fabula ovvero la relazione che esiste tra il risultato e il percorso attraverso il quale quel risultato è stato ottenuto. Viviamo una condizione epocale nella quale tutto si gioca sul raggiungimento, quanto più possibile rapido, dell’obiettivo ed è soltanto su quell’esito finale, su quella “preda catturata”, su quell’oggetto conquistato che si misura la validità dell’agire.
Nella tendenza consumistica al possesso di merce già impacchettata e pronta all’uso vien meno la consapevolezza del processo di gestazione che è itinerario esperienziale, vero cammino di crescita, diverso per ciascuno, unico e irripetibile come è unico e irripetibile l’evento creativo. E’ nelle tappe del viaggio che incontri realmente te stesso, è lì, nello spazio-tempo della materia “sottile” e “invisibile” che si prepara il miracolo della nascita, è lì che tu dai forma alla tua coscienza, è questo groviglio di sentimenti, percezioni e prospettive che rimane tatuato su di te, prezioso contributo alla tua esistenza, solo tuo, solo per te, capace di trasformarti: il tragitto per arrivare alla meta è inerente all’essere, il prodotto finito attiene al fare. Tutti possono accedere al risultato una volta ottenuto, ma soltanto tu puoi conoscere lo stupore dell’andare in una dimensione che è scoperta continua, attenzione e cura, attimo sospeso verso l’ignoto.
Per cogliere il senso profondo di questo andare occorre tempo: tempo per ascoltare i segnali talora impercettibili delle nostre emozioni, tempo per leggere le tracce spesso confuse e fuorvianti impresse nelle cose, tempo per accogliere, tempo per comprendere, tempo per desiderare e per abbandonarsi al sogno. E’ in questo tempo della durata che si preparano le condizioni affinché, quando sarà il momento opportuno, quello che i Greci chiamavano Kairòs, la personificazione dell’opportunità, possa compiersi la creazione che è punto di intensità.
E che cosa fosse il tempo dell’intensità ben lo sapevano i Greci che avevano coniato un nome significante per identificarlo: mi riferisco all’aoristo che sta a indicare la qualità dell’accadere e si colloca in modo del tutto originale fra gli altri tempi verbali quali l’imperfetto o il futuro. E’ un tempo che presuppone il prepararsi dell’azione che si compie, un’estensione del fare che prelude all’evento come fulminea visione che separa il prima dal dopo.
Oggi va scomparendo il tempo dell’attesa, dell’incubazione senza il quale perde di significato anche l’aspettativa che è lo sguardo rivolto verso l’oggetto del desiderio in quel tempo sospeso che è “nessuna cosa” ma infinita potenzialità, percezione molteplice e inebriante dell’accadimento che esplode come intensa luce. Senza il tempo dell’attesa e dell’ascolto la bella Shahrazàd non avrebbe conquistato il crudele Sultano attraverso il racconto di ammalianti storie per mille e una notte. Senza il tempo della pazienza non potremmo osservare il mirabile divenire della Natura né ascoltare la melodia del respiro che ci attraversa andando e ritornando nell’incessante suono della vita.
E c’è anche un tempo dell’incertezza che prelude alla scelta e contiene i dubbi che inducono la mente e il cuore a non lasciare nulla di intentato prima di approdare all’esito finale. Un tempo tempestoso nel quale esterno e interno si scontrano come nei temporali d’estate per scatenare i bagliori che illuminano pensieri e parole, e un tempo che attinge alla sfera del sacro, la sfiora come quello segnato dalle meridiane che hanno il compito di celebrare la luce e far cantare l’ombra, accordare la ragione e il sentimento, secondo natura.
Senza la ricerca del tempo perduto con le sue tracce, i suoi sentori di vite, eventi, stagioni e rimpianti non sapremmo accettare l’illusionistico gioco del nostro apparire e scomparire nella danza eterna dell’Universo. E bisogna concedersi tempo per ritrovare il tempo liberato, smisurato, che è squarcio di immensità.