Il simbolo, symbolon per i Greci, ovvero ‘ciò che viene messo insieme’, era una sorta di contromarca che serviva ad identificarsi: due parti corrispondenti di un oggetto venivano conservate da due diverse persone le quali, ravvicinandole, avevano un segno di identificazione certo.

Nella parola italiana rimane il riferimento a quella originaria funzione: coloro che riconoscono il valore di un’immagine, di un’espressione, di un’opera al di là della semplice apparenza, che sono in grado di coglierne il significato non convenzionale, appartengono allo stesso gruppo e le corde della loro anima vibrano all’unisono. Come se individui separati ritrovassero la propria completezza nel rintracciare il pezzo mancante della propria tessera. E tra chi possiede questo codice si crea una sorta di complicità, di intimità, che genera empatia, che provoca emozioni condivise, che induce conoscenza facendo convergere gli infiniti rivoli di un unico grande sapere che libera lo sguardo e l’ascolto per avere accesso al linguaggio simbolico fatto di parole totemiche, parole risonanti nel profondo come quelle che recitava l’aedo nelle Corti micenee per tener viva nella comunità la memoria, la storia collettiva.

Attraverso questa consonanza, grazie a questa corrispondenza, Odisseo, con il suo racconto, induce al pianto i Feaci che identificano in lui l’eroe che giunge solo alla meta: con i compagni decimati durante il viaggio periglioso verso Itaca, con lo sconvolgimento di ogni certezza del ritorno e il profilarsi del dubbio persino sull’affidabilità del ruolo divino, la sua solitudine diviene simbolo della condizione di ogni creatura che osi sfidare la vita e le regole che la costringono e la determinano. E il riconoscersi in una vicenda comune diviene farmaco che rende più lieve lo stare “solo sul cuore della terra”, che aiuta a cogliere i segni disseminati sul cammino che porta alla comprensione e forse all’accettazione della nostra dolente umanità.

Il linguaggio simbolico va al di là della parola imprigionata nel suo corpo semantico per aprirsi a significati affondati nei miti appartenenti ad un popolo, ad un gruppo, che radica la propria parola in un insieme di riti che sono altrettante tessere di riconoscimento. Come fare allora a far combaciare le parti, come ricostruire una realtà riconoscibile se alla cultura intesa come patrimonio che unisce una collettività si sostituisce l’offerta di merci “culturali” provenienti dal mercato delle esperienze “guarda e getta”? Che cosa resta dell’identità che rende una persona, un luogo, un popolo “quello, proprio quello e non altro”?

Quando la tecnologia non è più strumento di gestione dell’informazione bensì veicolo di relazioni e costruisce surrogati della sfera sociale, avviluppati in involucri commerciali, che cosa sopravvive delle relazioni interpersonali, della comunanza di interessi, delle mille sfumature dell’affettività, dei ricordi condivisi, delle cerimonie e dei saperi, insomma di tutti quelli che un tempo erano elementi caratterizzanti la vita di ciascuno in relazione alla propria sfera di appartenenza, risorse preziose sulle quali fondare la propria identità, parola che ha le sue radici etimologiche nel latino idem+ ovvero “proprio quello”?

Nell’era della rete si può riscrivere la propria storia individuale e sociale; si può persino modificare il luogo della propria nascita e tagliare i legami con l’ambiente del quale “per natura” ci si è trovati a far parte. Oggi, chiunque può permettersi di pagare il biglietto, ha accesso al mondo, passato e presente, può “possederlo” interamente facendolo scorrere davanti ai propri occhi: l’ubiquità non è più un requisito divino. “Corriamo il rischio di diventare i primi nella storia in grado di rendere le proprie illusioni così vivide, pervasive e realistiche da poterci vivere dentro”. Ma, come dice il sociologo Robert J. Lifton, è una “accessibilità che dà i brividi” anche perché non ha alcun precedente. Non si tratta soltanto di un dato tecnologico, è piuttosto un modo di essere, una nuova concezione dell’esistenza. E’ un fenomeno sociale ed economico di portata sconvolgente poiché la cultura anziché unire può diventare puro strumento di affermazione individuale da praticare nel proprio isolamento e può tendenzialmente scavalcare qualunque legame di appartenenza al gruppo, al territorio, ad ogni forma di condivisione.

Stiamo assistendo ad un cambiamento radicale del rapporto con lo spazio, da quello più privato a quello più ampio con i luoghi tradizionalmente adibiti alla socializzazione, fino ad arrivare al legame con la Terra e “il posto” in cui si è nati o si è trascorsa una parte rilevante della vita. La “volatilità” del lavoro, dell’economia, la necessità di rendersi disponibili ad un nomadismo che porta a spostarsi laddove si aprono spazi e possibilità per una migliore qualità del vivere cambiano inevitabilmente il legame con quanto è “per sempre” e fanno vacillare l’attaccamento alle proprie radici. Si modifica il rapporto con il tempo, con la continuità e la durata nel momento in cui al lavoro sicuro, per tutta la vita, si va sostituendo l’incarico “a progetto” ed il “just in time” è implicazione imprescindibile del nuovo mercato del lavoro.

Stati, governi, differenze culturali e linguistiche, barriere interetniche non coincidono più con gli schemi interpretativi della realtà usati fino ad ora. Quando saltano i confini geografici, si allentano le certezze spazio-temporali e la cultura si globalizza assistiamo ad una omogeneizzazione dei bisogni, delle aspirazioni, dei desideri pilotata dall’industria culturale il cui obiettivo è quello di creare con il cliente-consumatore rapporti di dipendenza sempre più stretti e intriganti che vanno a toccare la qualità dell’esistenza individuale e la visione del mondo collettiva.

Jeremy Rifkin , già all’inizio di questo Ventunesimo secolo parla di un “nuovo archetipo umano” in questi termini: “Questi uomini e queste donne non sono interessati alla storia bensì ossessionati dalla moda e dallo stile. Provano tutto e amano l’innovazione. D’altra parte nel loro ambiente in rapido e costante mutamento, costumi, convenzioni e tradizioni sono quasi inesistenti”.

Sradicati dal tempo, senza alcun legame di continuità con i loro predecessori, vivono la loro sempre più rapida sequenza di esperienze monitorabili in una realtà simulata, meno impegnata ed impegnativa , fatta di brandelli di racconto e di temporaneo intrattenimento. Tutto accade in un presente rapido come un videogioco nel quale la vita può essere immaginata anziché vissuta.

Al lungo, doloroso lavoro che porta alla formazione della propria identità si sostituiscono delle “personalità molteplici”, degli individui “proteiformi” che si relazionano in mondi creati da macchine partecipanti dove “sei quel che pretendi di essere”. Un grande palcoscenico sul quale si indossano costumi per infinite rappresentazioni ma in questo teatro gli attori presunti sono in realtà tutti spettatori paganti.

Questo scritto salva la vita alle parole simbolo, identità, tradizione.

A cura di SAVE THE WORDS™