Ettore Fioravanti è una delle colonne del jazz italiano. Ma non è tanto una questione di curriculum o esperienza (entrambi fluviali), quanto di coerenza e disponibilità nei confronti di una musica che lo stimola al punto di esplorare ancora nuovi territori, o di ripercorrere sentieri già battuti da prospettive diverse. Ne fornisce eloquente dimostrazione l’ultimo Traditori (Alfamusic), un disco registrato con il suo quartetto stabilmente attivo dal 2009 e di cui fanno parte Marcello Allulli (sax), Francesco Ponticelli (contrabbasso) e Francesco Poeti (chitarra), con la partecipazione in qualità di guest di Enrico Zanisi (pianoforte e hammond).
Talento collettivo e consolidato che si unisce al valore di Fioravanti, gentile e disponibile come sempre per una conversazione a tutto tondo, che parte proprio dal disco, il cui titolo risulta essere più che all’opposto rispetto alla percezione che si ha del “nostro” uomo: “Una piccola provocazione – ribadisce - cui si sovrappone un gioco etimologico fra le parole “tradimento” e “tradizione”. Possiedono la stessa radice nella parola latina “tradere” che significa trasmettere, affidare, quindi in origine tradire significava trasmettere i valori tradizionali anche a costo di modificarli alle necessità del caso. Gli elementi fondanti di una tradizione viva sono sottoposti spesso ad adattamenti che mettono alla prova la forza delle loro fondamenta: e così è anche per il jazz, musica nuovissima e antica, in cui la manipolazione è fra le prime regole del gioco, e che rinasce ogni giorno più forte grazie ai - e non malgrado i - tradimenti a cui è sottoposta. Nella mia musica voglio intraprendere questa strada, mettendo sempre in discussione i punti di partenza del mio amore musicale: così facendo li amo ancor di più.
Allarghiamo la riflessione alla scelta dei brani e questo tuo organico con il quale lavori da qualche anno…
Con i ragazzi va alla grande: Marcello possiede una voce estrema e originale, mix di tradizione e avanguardia, Francesco è fra i giovani contrabbassisti quello per me con più personalità, valentissimo compositore, mentre Francesco è un chitarrista dalle sconfinate possibilità, vera stella nascente del suo strumento. A loro nel disco si aggiunge, come nel precedente CD, Enrico (tastiere varie), davvero una bella novità, sia per lui che per noi. La scelta dei brani è avvenuta per parto naturale, dato che il quartetto ha sempre elaborato i brani scelti, masticandoli, ruminandoli, ogni tanto sputandoli via, ma comunque cucendoseli addosso, e quelli che calzavano meglio sono stati registrati: anche la sala di registrazione contribuisce alla forza della musica, e Artesuono di Stefano Amerio è a mio parere la migliore sala parto per la mia piccola musica nascente. Infine voglio ricordare la disponibilità e l’accuratezza dimostrata da Fabrizio Salvatore di AlfaMusic che ha seguito amorevolmente la produzione e distribuzione del CD.
Ma cimentarsi attraverso un’area musicale così estesa e diversa, è stato più complesso o stimolante? Restare su un unico stile centrale poteva essere più semplice…
Sai, suonare è un gioco, e ai giocatori (come ai bambini, i veri professionisti del gioco) piace spesso riscrivere nuove regole per fare sempre lo stesso gioco in tanti modi diversi. Quindi una risposta onesta sarebbe ammettere tutte le chances possibili, dal fare un disco su un solo brano della tradizione (ricordo un bel lavoro di Bruno Tommaso in questa linea) a sovrapporre stili, compositori, esecutori apparentemente inconciliabili. Tanto poi la musica farà il miracolo, a condizione che chi la fa sia sincero, incorruttibile, curioso e cocciuto.
Hai una carriera già molto lunga e ricca di umanità ed episodi, come e se, si è modificata oggi a tuo giudizio la vita per un musicista jazz?
A botta calda dire in peggio, ma poi mi accorgo che è il solito piagnisteo di un vecchietto che invidia ai giovani la gioventù. Certo che fare musica oggi in Italia rasenta la vendita di frigoriferi in Alaska, vista l’endemica allergia del nostro paese alla spesa culturale: con i chiari di luna che girano è sempre più difficile poi credere nell’iniziativa privata che infatti latita (vedi apertura e chiusura nel giro di mezza stagione di locali, case discografiche, scuole di musica). Ma metto in pensione il vecchietto per un po’ e dico che mai come in questi ultimi anni sento (a sniffata, direi) una passione cocente e malata, diffusa nei giovani e stimolata dai meno giovani, per la creazione artistica in genere, e il jazz è in prima fila, dalla sua nicchia. Credo fortemente che più un popolo vive difficoltà (economiche, morali, sociali) tanto più fra i suoi componenti si scatena il virus della poesia che da una parte trascina nel baratro della celebrazione del disagio a fini creativi, dall’altra consola e cura come un rosolio tonificante, dall’altra ancora aiuta a trasformare i sogni in realtà, perché non si può vivere senza sogni. Sembro un po’ Renzi? Se è così chiedo umilmente perdono. (ride)
Quando e come la musica è entrata nella tua vita e come sei giunto alla batteria?
Alle scuole medie avevo un compagno di classe che la suonicchiava, e su di me l’effetto di quello strumento così imponente e rumoroso è stato quasi di avere l’opportunità di acquisire un superpotere, SuperEttore. Il fascino che la batteria crea nei bambini o adolescenti è quello che può dare una grande motocicletta, per la fisicità di approccio e il volume di suono: poi passata l’infatuazione cominci a capire che senza studio non vai da nessuna parte, ho studiato (privatamente e in Conservatorio, percussione classica) e contemporaneamente ho scoperto il jazz, inizialmente con lo snobismo di chi lo crede migliore del rock, poi con la vera passione per i campioni, Coltrane, Monk, Ornette, Davis, Rollins e quindi Elvin, Tony, Art e Philly.
All'epoca che influenze avevi avuto?
Ovviamente parte tutto dal rock: abitavo molto vicino al Palazzo dello Sport e tra il 1972 e il 1976 lì tennero concerti tutti i gruppi d’elite: King Crimson, Jethro Tull, Genesis, Zeppelin, Gentle Giant e via andare, insomma mi sono sciroppato il meglio del progressive, e credo proprio che mi sia rimasto dentro soprattutto a livello compositivo. Contemporaneamente ascoltavo Battisti e non nego che qualche pelle d’oca mi procura ancora. In seguito, parallelamente al mio approfondimento del mondo jazz è arrivata anche l’esperienza di studio conservatoriale, con tutto il bagaglio di musica accademica che (prima per forza poi per amore) mi sono sciroppato: di quel mondo mi rimane soprattutto la fascinazione per le marmoree melodie di Beethoven e il caleidoscopio di suoni e ritmi di Stravinsky, ma come dimenticare Bach, Ravel e Prokofiev? Insomma un bel frullato, ma sfido chiunque della mia generazione ad affermare di non averlo bevuto, e spesso (come nel mio caso) con piacere.
Nella musica (in particolar modo in quella che scrivi tu), che cosa conta di più: la complessità o la semplicità? L'espressione o la tecnica?
Contano soprattutto la fonte di ispirazione e i destinatari dell’esecuzione. Per la fonte io posso partire da diversi start: una cellula melodica (preferito), una ritmica (sviluppando un’idea batteristica, ad esempio), un colore armonico stimolante, una serie intervallare sfiziosa. Riguardo ai destinatari direi che scrivere pensando a chi poi primariamente andrà a suonare quella musica mi sprona a studiare le caratteristiche dei miei partner, per sottolinearne i pregi e in particolare garantire la congruità dell’improvvisazione. Ecco, voglio specificare che le zone di improvvisazione sono per me parti strutturali compositive, nel senso che decidere che c’è un solo di sax su un ostinato o un’introduzione libera di chitarra è parte integrante del disegno compositivo. Naturalmente come sopra detto tutto viene poi sistematicamente smontato a livello di gruppo: devo quindi sempre mettermi l’anima in pace che qualsivoglia soluzione possa io escogitare per prevedere un percorso, esso sarà poi deciso assemblearmente e quindi andrà al diavolo ogni preconcetto. Ma mi piace pure così.
Come batterista che approccio hai verso la composizione?
Spesso mi trovo a scrivere musica che non pensa a ciò che dovrà fare il mio strumento, o addirittura lo ignora. Non mi piace scrivere per mettermi un riflettore addosso, magari penso più all’equilibrio che in fase di concerto c’è fra le varie proposte compositive o arrangiative, in modo da equilibrare colori diversi sempre in funzione di una tavolozza organicamente affine. Altro problema è il grado di conduzione che posso avere in concerto: il batterista ha molta meno mobilità sul palco rispetto a molti strumentisti (in particolare i fiatisti) e normalmente è posizionato in seconda fila, quindi devo escogitare modi per dare indicazioni ai miei musicisti. Il modo più semplice è anche il più banale: gridare, magari tarando il volume della voce in modo da non farsi sentire troppo dal pubblico.
Fai parte anche del quintetto di Paolo Fresu, brillantemente attivo già da trent’anni; se dovessi provare a spiegare su che cosa verte la vostra particolare alchimia, che cosa diresti tu?
Quello è uno strano gruppo, perché il segreto della sua longevità è proprio il fatto di vivere in città diverse e pensare la musica in modo diverso. Si è trovata fondamentalmente l’intersezione nell’unione di cinque insiemi, una specie di limbo comune che soddisfa una parte (più o meno grande) delle nostre personali idee. Ovvio che in tanto tempo di cose fatte insieme sono nate tensioni, e parlo qui solo degli aspetti meramente musicali: ma poi la musica gira e Paolo ha carisma da vendere, per cui finora la bilancia è sicuramente pendente dalla parte della soddisfazione.
Una domanda semplice ma anche particolare, che significato attribuisci alla parola jazz?
Non mi ha mai fatto paura, non l’ho mai pensata come una gabbia, anzi la storia di questo genere è costellata di variazioni sul tema dell’equilibrio fra composizione e improvvisazione e su quello del respiro comune dei suonatori in funzione dell’adattamento in tempo reale alla manipolazione del materiale sonoro. Insomma io mi sento un musicista di jazz, anche se (o proprio perché) ne sono traditore. Tieni conto inoltre che nel mondo jazzistico con la parola jazz si indica per lo più il mainstream afroamericano della metà dello scorso secolo, e ciò succede a mio parere soprattutto per sdemonizzare l’aura così impalpabile e indefinibile di questa musica di magia.
Qual è stata la più grande soddisfazione della tua vita artistica?
Averla portata avanti per quarant’anni.
Su quali fronti sarai invece impegnato nei prossimi mesi?
Sto per partire col quartetto per una tournée in Finlandia, paese ghiacciolo ma caldissimo sul fronte musicale: buona occasione per temprare il repertorio grazie ai tanti concerti ravvicinati. Con l’uscita del disco mi sto muovendo per promuovere la nostra musica in giro, e l’estate appare ben disposta nei nostri confronti. Voglio ancor più concentrarmi sulla scrittura e sulla crescita del gruppo, magari con la collaborazione di qualche ospite ad hoc. Insomma voglio pensare positivo, in questo transito di vita così gramo di prospettive per l’Italia sociale ma così fervido per quella musicale.