Nascerà primavera e poi
tornerà l'alba che non hai
l'inferno che adesso c'è
non rimarrà, non vincerà
per te, Armenia, canterà,
noi si canterà e da qua ricomincerà
(Charles Aznavour - Per Te Armenia)
La salita del colle di Tsitsernakaberd (Fortezza delle rondini) mozza il fiato, e quando si arriva in cima si ha come l’impressione di aver espiato qualche colpa. Forse la giusta sensazione che si deve provare per rendere omaggio al memoriale di un genocidio che ufficialmente ancora non ha colpevoli, né carnefici. Il complesso architettonico costruito a Yerevan a ricordo delle vittime cadute nel 1915 domina la capitale dell’Armenia, anche se dal basso si apprezza solo l’appuntita stele che con i suoi 44 metri si protende verso il cielo. In basso 12 lastre di basalto disposte a cerchio ricordano le province perdute che un tempo facevano parte della Grande Armenia. Un muro lungo 100 metri riporta, come una litania di santi, i nomi dei villaggi e delle città dove accaddero i massacri. Il tutto nella tipica sobrietà dei monumenti partoriti dal socialismo reale. Indelebilmente sovietico. Cupo e senza fronzoli. Nessuna concessione alla minima decorazione. In questo caso però la scabra estetica sembra accettabile: deve ricordare il vuoto del martirio dimenticato di un milione e mezzo di Armeni.
Sullo sfondo le bianche pendici del sacro Ararat si arrampicano nel cielo che guarda il tramonto in una lontananza che qui ha un nome che nessuno vorrebbe pronunciare: Turchia. Il cielo non conosce i confini e da tempo l’Ararat non è più Armenia; un’altra ferita mai rimarginata. Per ironia della sorte o per una scelta ben premeditata, gli innominabili hanno abolito anche il leggendario nome. Per loro, il millenario Ararat, quello che accolse l’arca di Noè, si chiama semplicemente Buyuk Agri Dagi, cioè la Grande Montagna di Agri (ndr Agri è il nome di una cittadina ai piedi della montagna). Forse non a caso la montagna non è visibile dall’interno del memoriale dove una fiamma eterna, circondata dal muro di fiori lasciata dai visitatori, brucia a perenne ricordo di un mai troppo lontano 1915.
Tutto cominciò cento anni fa, per la precisione la notte del 24 aprile. Un migliaio di intellettuali armeni furono prelavati dalle loro case di Costantinopoli, portati fuori città e assassinati. Nelle settimane successive arresti e massacri proseguirono nelle province orientali seguendo un copione ben stabilito: gli uomini venivano eliminati mentre donne, vecchi e bambini venivano deportati e costretti a marce forzate di centinaia di chilometri nel deserto siriano dove la gran parte trovò la morte a causa degli stenti e delle torture. L’obiettivo dei Giovani Turchi, organizzazione nazionalista nata all’inizio del XX secolo, era quello di creare uno stato nazionale turco in cui non c’era posto per le popolazioni cristiane, come quella armena, ma anche greca e siriaca. Non bisogna dimenticare che sebbene gli armeni pagarono il prezzo più alto, non furono le sole vittime del Panturchismo. In pochi mesi le marce della morte coinvolsero centinaia di migliaia di persone che morirono di fame, malattia o sfinimento. Altre centinaia di migliaia furono massacrate dalla milizia curda e dall’esercito turco. Alla fine, un milione e mezzo di Armeni persero la vita nella prima pulizia etnica della storia. La disfatta non fu solo umana; al genocidio seguì la beffa.
Il Trattato di Sevres siglato nel 1920 tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l'Impero ottomano riconosceva la creazione di uno Stato Armeno che comprendeva proprio le province dell'Armenia storica dove si era consumato il genocidio. I turchi non lo riconobbero e gli americani, dopo averlo firmato, se ne lavarono le mani lasciando che la piccola repubblica finisse nelle mani dei russi. I territori perduti rappresentano il cuore della Vera Armenia, forse anche più di quella dell’attuale geografia. Qualcuno vorrebbe modificare i confini perché nessun armeno può accettare che l’Ararat si chiami Buyuk Agri Dagi, che Ani la leggendaria Città delle 1001 chiese sia in territorio turco, che la bandiera della mezzaluna sventoli sulla sacra isola di Akthamar in mezzo al Lago Van.
In occasione del centenario del genocidio, l’Armenia ha deciso di ricordare. E lo ha fatto con grandi celebrazioni e richiamando in patria anche celebri famiglie di origine armena sparse per il mondo come i Kardashian. Ovunque in Armenia, oggi, non solo nelle città, ma anche nei luoghi più remoti si può leggere il motto coniato per l’occasione: I Remember and Demand. Da tempo l’Armenia ha chiesto al mondo di ricordare quello che loro chiamano Metz Yeghern cioè il Grande Male, ma la Turchia continua a negare che si trattò di genocidio. Stavolta però è sceso in campo anche Papa Francesco e chissà che in futuro non avremo un’altra Giornata della Memoria. L’Armenia lo vorrebbe, ricorda e domanda, ma purtroppo ancora molti fanno finta di non ricordare.