“Abbiamo prodotto un album che, diciamocelo, molta gente non riuscirà a capire”
Freddie Mercury
I Queen non hanno certo bisogno di presentazioni: “diversi” e imprevedibili, come solo i grandi protagonisti della musica sanno essere, nella formazione originale hanno attraversato gloriosamente due decenni, arrivando a porre il proprio sigillo sonoro anche sugli anni Novanta, nonostante il principio di questa decade coincida con la tragica scomparsa di Freddie Mercury (1946-1991).
Invisi alla critica e amatissimi dal pubblico, i Queen hanno venduto quasi 200 milioni di dischi (oltre 120 milioni con il quartetto al completo) e, detrattori a parte, restano indiscutibilmente fra le massime espressioni della popular music del XX secolo.
Un folgorante biglietto da visita e un’istantanea eloquente della grandeur della band è senza dubbio A Night At The Opera, album che il 21 novembre 2015 compirà 40 anni e di cui qui di seguito intendiamo ripercorrere la storia.
ANATO è un disco in grado di condensare su due facciate tutto lo sfarzo, la potenza, la tecnica, la maniacalità (“Continuiamo sempre a cercare la perfezione, alla faccia del disastro economico”, Brian May), l’estro e la versatilità tipici dei Queen, non più solo il nome del gruppo ma, forse proprio da quel 1975, un nuovo genere musicale di cui i quattro musicisti erano gli unici possibili esecutori. Coi suoi quattro mesi di registrazioni e i sei studi impiegati, all’epoca dell’uscita era stato presentato come l’album più costoso mai realizzato, primato che oggi mantiene all’interno della discografia del gruppo.
Quello che comunque ANATO è e rimarrà sempre è il manifesto di un’Arte con la “A” maiuscola che non ammette più paragoni o discendenze troppo dirette e che dispiega sul campo tutte le proprie forze compositive, tecniche e creative con la ferma intenzione di rivalersi sul contratto capestro firmato con la Trident, che aveva negato al gruppo i guadagni sulle precedenti pubblicazioni e che per fortuna l’avvocato Jim Beach aveva provveduto a risolvere. Il resto lo fece il nuovo manager John Reid (lo stesso di Elton John) che disse loro: “Mi occupo io dell’aspetto finanziario, voi tornate in studio e fate il miglior album che abbiate mai fatto”. Il disco dunque suona come una sorta di rivincita, dove il concetto di “eccesso” serve solo a non ammettere repliche ed è completamente privo di connotazioni negative, essendo invece parte di un progetto che mira a creare la perfetta opera d’arte in studio (“E quando entriamo in studio, tutto si amalgama come per magia”, Brian May).
I “Cecil B. DeMille del rock and roll”, come Mercury in un’occasione definì i Queen, avevano il desiderio e la tendenza a stupire, in primo luogo se stessi, sperimentando e usando tutte le tecniche a disposizione alla ricerca di qualcosa di assolutamente personale, fondendo linguaggi diversi e senza mai dimenticare la parte scenica e spettacolare di cui erano intrisi sia i solchi dei vinili che i palchi dei loro concerti. Chi li ha definiti “kitsch” era sicuramente prevenuto, troppo pigro o impreparato ad affrontare le complesse trame di partiture dalla cura “fiamminga” per il particolare: quadri sonori tanto ricchi quanto minuziosi e tanto affascinanti da raggiungere un pubblico vastissimo.
La loro musica appare stratificata: ci sono strati di voci che danno vita ad armonie ricercatissime e a contrappunti classici, strati di chitarre che diventano “miniorchestre” e una possente e virtuosa sezione ritmica che tiene tutto saldamente ancorato a terra. L’energia, l’audacia e il senso di libertà che sottendono il lavoro non riescono però a mettere da parte il “dente avvelenato” verso chi li aveva ridotti in bolletta, pur essendo già delle rock star affermate a livello mondiale (Sheer Heart Attack trainato da Killer Queen era andato benissimo anche in USA): è così che si spiega quel „Dedicated to…“ che si trova sotto il titolo del brano di apertura Death On Two Legs, una feroce invettiva di Mercury verso il vecchio manager Norman Sheffield, con versi quali “Succhi il mio sangue come una sanguisuga… Hai preso tutto il mio denaro e ne vuoi ancora… Sei un topo di fogna che marcisce in un pozzo nero di presunzione…” ecc. Splendido pezzo peraltro, con un riff “sdoppiato” tra piano e chitarra e un Mercury arrabbiatissimo e a tutto volume che su note virtuosistiche di pianoforte guida un crescendo corale da brividi. Gli altri l’hanno trovata un “tantino” eccessiva nei toni, ma l’autore era quanto mai determinato a portare a compimento la propria vendetta e fu impossibile frenarlo.
Il cuore torna leggero con la successiva Lazing On A Sunday Afternoon, sempre a firma del cantante, che si inserisce in quei deliziosi brani che mescolano vaudeville, jazz e cabaret e che mostrano di cosa sono tecnicamente ed esteticamente capaci i Queen. La voce qui è stata ottenuta facendola uscire da un paio di cuffie messe dentro una scatola di latta e catturata da un secondo microfono: geniale. Sulla stessa linea si pone Seaside Rendevouz dove Taylor riproduce il suono di una tromba con la voce, Mercury i “legni” e, fra un allegro fischiettare, percussioni in stile tip-tap e altro ancora, veniamo trascinati nei primi decenni del secolo.
Dal fascino retrò ma scritte dal chitarrista troviamo invece Good Company, dove May s’inventa una vera orchestra jazz di Dixieland riprodotta con effetti stupefacenti dalla sua Red Special (la chitarra costruita insieme al padre con materiali di recupero, fra cui una mensola in quercia di un caminetto del Settecento) e, in una certa misura, anche lo skiffle-country di ’39, una specie di “ossimoro” folk/ fantascienza che il riccioluto chitarrista concilia alla grande in uno degli inni acustici dei concerti che verranno.
E se nell’album c’è lo spazio per un gioiello pop come You’re My Best Friend, il primo successo scritto da John Deacon, imperniato su una splendida sonorità di piano elettrico, il rock va a testa alta con I’m In Love With My Car di Taylor – dedicata al suo amore per i mezzi veloci e che sul finale immortala proprio il rombo dell’Alfa Romeo del batterista –, Sweet Lady, tra l’hard e l’heavy, con uno splendido riff, e The Prophet’s Song, ispirata a May da un sogno (uno dei pezzi preferiti del co-produttore Roy Thomas Baker): qui Mercury nella sezione di mezzo crea in tempo reale le armonie vocali su una sorta di delay, e sono brividi.
Emozioni struggenti sono invece quelle della ballad pianistica dal sapore classico (su cui May suona l’arpa) Love Of My Life, scritta da Mercury per la ex compagna (ma amica per tutta la vita) Mary Austin: una canzone d’addio che in realtà è una dichiarazione di amore eterno. Nella versione live per chitarra e voce diventerà il momento clou dell’interazione col pubblico nei concerti dei Queen.
Delle canzoni, all’appello manca “solamente” Bohemian Rhapsody, ossia il brano che ha cambiato le sorti economiche del gruppo, che nel 1977 fu premiato dall’industria musicale britannica come “miglior singolo inglese degli ultimi 25 anni” e che a tutt’oggi continua ad ottenere riconoscimenti e a vincere sondaggi. La canzone, strutturata in tre sezioni portanti, per natura quasi in opposizione l’una all’altra, eppure magicamente conseguenti e amalgamate, ha richiesto tre settimane intere di lavoro, occupate per lo più dalla parte operistica centrale: 180 sovraincisioni e dodici ore al giorno di lavoro. Roy Thomas Baker ricorda: “Freddie è entrato nel mio studio, si è seduto al piano e ha detto: ‘Ho un’idea per una canzone’, quindi ha cominciato a cantare. A un certo punto si è bloccato ed ha esclamato: ‘Qui è dove inizia la sezione d’opera!’. Ho pensato che eravamo rovinati! Il lavoro in studio è stato massacrante, anche se molto divertente. Ogni giorno, quando sembrava finalmente tutto terminato, Freddie arrivava e diceva: ‘Ho pensato di aggiungere ancora un po’ di Galileo, mio caro!’”. Eravamo ancora in epoca progressive, tuttavia questa non era una suite, ma qualcosa di completamente nuovo e ancora oggi infatti attualissimo: una ballad, una mini-opera e un pezzo hard rock dentro un’unica partitura, dove nella strofa compare il verso “Mamma, ho appena ucciso un uomo/ Ho puntato una pistola contro la sua testa/ Ho premuto il grilletto e adesso lui è morto…”. Le mille congetture sul significato del testo non sono servite a far parlare Mercury, il quale una volta descrisse la canzone come “una filastrocca del tutto casuale” all’amico DJ Kenny Everett, colui che passò il brano nel suo programma mattutino su London Capital Radio per ben quattordici volte nello stesso weekend, facendo “scoppiare la bomba”: a quel punto la EMI, prima del tutto restia a pubblicare il brano come singolo a causa dell’eccessiva durata, fu costretta a mandarlo in stampa.
Bohemian Rhapsody schizzò in breve in testa alla hit parade inglese e arrivò 4° in quella USA. La canzone però ha anche un altro primato: quello del “primo videoclip promozionale”. Con la regia di Bruce Gowers e un costo tutto sommato contenuto (4.500 sterline), il video venne girato per comparire su Top Of The Pops in rappresentanza del gruppo: qualcosa che, pure avendo dei precedenti, in quella forma e in quel momento specifico contribuì in maniera sostanziale a far nascere la civiltà di MTV. La sua versione 7” in vinile blu e copertina color porpora con scritte dorate, stampato in sole 200 copie nel 1978, ha un valore che si aggira attorno alle 3000/4000 sterline.
L’ultima traccia in scaletta è l’inno inglese God Save The Queen, con cui Brian May da un lato forse si ispira a Niccolò Paganini, che sull’inno in questione fece le Variazioni per violino solo op. 9 MS 56, e dall’altro compie il proprio personale tributo a Jimi Hendrix, famoso per aver suonato quello americano The Star-Spangled Banner a Woodstock nel 1969: qui però la provocazione lascia spazio alla solennità e diventa quindi a sua volta una specie di autocelebrazione.
Un album perfetto fin dalla copertina, disegnata dallo stesso Mercury, che vede un restyling a colori del logo della band inaugurato sul retro di Queen (1973), coi segni zodiacali di ciascun componente, l’iniziale del gruppo e la fenice che risorge dalle sue ceneri. Dei concerti che cavalcano l’onda del successo dell’album ricordiamo quello del 24 dicembre 1975 all’Hammersmith Odeon di Londra e quello di chiusura del tour mondiale ad Hyde Park, il 18 settembre 1976, di fronte a un pubblico di 150.000 persone. Un plauso per il confezionamento dell’album va infine alla co-produzione di Roy Thomas Baker e al lavoro dell’ingegnere del suono Mike Stone, ossia quello che May definì “l’eroe mai celebrato”: un team creativo e tecnico d’eccezione, contraddistinto da un grande affiatamento.
ANATO negli anni ha visto tante riedizioni e rimasterizzazioni ma, se avrete l’occasione di ascoltarlo su vinile, vi accorgerete che, pure fra un crepitio e l’altro, questo suono rimane inscalfibile e votato all’immortalità.