A distanza di poco più di una settimana l'uno dall'altro, si sono svolti fra marzo e la metà di aprile, al glorioso cinema Odeon di Firenze e in parte alla sala Stensen della città, il Florence Korea Film Fest e il Middle East Now Festival, due dei quattro Festival che vanno sotto il titolo Primavera di Cinema Orientale.
Un Festival crea un'isola in città. Quando i festival sono due, a così poca distanza l'uno dall'altro, manca il tempo, durante le proiezioni ravvicinate, di elaborare e di trasformare in parole tutte le suggestioni, tutta la meraviglia che la potenza del linguaggio filmico suscita. Ne consegue che è difficile distinguere l'operato dell'artista come tale dal suo essere esponente della sua cultura. Ma ciò che conta in questo momento storico è approfondire la conoscenza di culture lontane, per vincere pregiudizi dannosi alle esigenze di integrazione di un'emigrazione inarrestabile in atto. La forza del linguaggio filmico, corredato come è stato da mostre, tavole rotonde, dibattiti e cibo, ci trasporta in situazioni lontane, di cui si cerca di capire i personaggi, le culture, le tradizioni. Quando sono società diverse che si fronteggiano nelle storie, è difficile capire le sfumature e le differenze, comunque un film valido si riconosce perché veicola un messaggio che ogni cultura riesce a comprendere.
Florence Korea Film Fest
“E' tanto che mi ripropongo di fare un festival che duri meno” così ha affermato il curatore Riccardo Gelli, alla serata conclusiva della tredicesima edizione del Florence Korea Film Fest, durato ben 11 giorni. E' il segno di una grande vitalità del cinema coreano, che produce moltissimo, opere colossali accanto a film intimisti. Il programma del festival ha presentato ben 34 lungometraggi e11 cortometraggi, la maggior parte dei quali in anteprima nazionale. Novità di quest'anno è la sezione Korean War (K-War), che racconta, attraverso sette pellicole, i molteplici volti della guerra, da quelli più atroci e drammatici a quelli più umani, in un lungo arco temporale. Confermate le tradizionali sezioni della manifestazione: Orizzonti Coreani, dedicata alla cinematografia di tendenza, i film più visti nelle sale coreane; Independent Korea, che ospita i film che non trovano spazio nella grande distribuzione; la sezione Corto, Corti!, dedicata ai film brevi di giovani registi. Non sono mancate due notti horror.
Riguardo alla scelta dell'argomento di K-War, il direttore Riccardo Gelli ha dichiarato: “L’iniziativa è stata pensata, nella ricorrenza dei cento anni dalla Prima guerra mondiale, per capire in che modo, dall’altra parte del mondo hanno raccontato la guerra con il cinema”. Tra le pellicole ci piace ricordare Welcome to Dongmakgol: in una fase di stallo della guerra di Corea, il villaggio che dà il nome al film diventa rifugio per la convivenza forzata del capitano Smith, di una coppia di disertori del sud e di quello che rimane di una compagnia di nordisti. Tutti saranno convinti a una pace forzata dagli abitanti del villaggio. Welcome to Dongmakol è una riflessione sull’“inutilità storica della guerra”, non è un caso che il regista Park Kwang-Hyun abbia dichiarato di ispirarsi ai film italiani La Vita è Bella e Mediterraneo. Un altro piccolo gioiello di questa sezione è un film BN del 1965, The DMZ, di Park Sang-ho, ambientato nei giorni che precedono l'armistizio fra Corea del Nord e Corea del Sud. Interpreti due bambini che vagano, ignari dei pericoli, all'interno di una zona demilitarizzata, alla ricerca delle loro mamme.
Risulta anche in alcuni film bellici proiettati la contaminazione di genere che ha fatto la fortuna del cinema coreano degli ultimi 15 anni. In molte narrazioni filmiche convivono la commedia, il melodramma, il dramma sentimentale e perfino il fantasy o la commedia musicale. Col risultato di movimentare piccole storie o alleggerire racconti che rischierebbero di essere troppo dolorosi.
L'omaggio tributato all'attore Ahn Sung-ki ha dato l'occasione di passare in rassegna alcuni bei film in un arco temporale ampio, visto che il sessantenne attore lavora da quando aveva 5 anni. Straordinarie le sue doti di trasformista, nel senso di riuscire a rendere a pari livello personaggi molto diversi. Lo abbiamo visto come giovane innamorato di una donna che sposa un altro, in Our joyful young days dell'87; comico imitatore di Charlot in Gagman del '98, un film originalissimo, grande dichiarazione d'amore per il cinema di Le Myung -Se; in Radio Star (2006), un film dai toni spensierati, popolato di giovani, dove l'attore mette in luce la capacità di interagire con interpreti molto più giovani di lui. Infine in Revivre (2014), di Im Kwon -Taek, il personaggio di Ahn è un uomo con un lavoro di grande impegno, che deve al contempo occuparsi della moglie, malata terminale. Per evadere da una vita così difficile, si costruisce un'infatuazione per una sua subordinata, esempio ai suoi occhi di una vita perfetta che non potrà mai avere. Quest'uomo è costantemente in bilico fra situazioni e sentimenti opposti, vita e morte, salute e malattia, desiderio e inibizione, forti emozioni che vive suo malgrado e che perciò traspaiono solo nell'intensità dello sguardo e in movimenti del corpo appena accennati, ma altamente espressivi. Una prova di recitazione che mostra ancora una volta le alte capacità di Ahn Sung-Ki.
E' stato proclamato vincitore dalla giuria di Orizzonti, slow video di Kim Young-tak, film in cui, grazie alle diverse corde narrative, la grave malattia del protagonista si trasforma in una sorta di dono che ne aumenta le capacità sensoriali. Una menzione speciale è andata anche a A girl at my door di July Jung, che tratta con grande originalità il problema della violenza maschile sulle donne.
In apertura del Festival è stato dato in prima europea, fuori concorso, Roaring Currents (2014) di Kim Han-min, il film più visto di tutti i tempi in Corea del Sud, un kolossal storico altamente computerizzato che racconta l'epica battaglia combattuta nel 1597 tra la flotta coreana e quella giapponese, con l'esito vittorioso della prima (12 navi) sulla seconda( più di 300). Merito del valoroso ammiraglio Yi Sunshin, grande stratega militare, che riesce a trasformare, con grande conoscenza dell'animo umano, la paura dei suoi in fervore di lotta per la vittoria. Il ritmo e la ricostruzione storica magistrale sono stati molto apprezzati anche dal pubblico di Firenze. Più che un film di guerra, è apparso, anche grazie ai costumi sfarzosi dei guerrieri, come una epopea fiabesca a lieto fine.
Come proiezione finale è stata scelta, fuori concorso, Haemoo (2014). Il giovane regista Shim Sung-bo, presente in sala, dice apertamente che la sua scelta di non definire l'esito della storia è stata dettata da un calcolo su quale finale aveva la maggior probabilità di essere condiviso dal pubblico. Difficile capire se ha peccato di sincerità con un'affermazione che mette il business prima del messaggio, oppure se è prevalente nel paese la cultura del business sulla cultura tout court.
Per concludere, le parole di Bae Jaehyun, ambasciatore della repubblica di Corea in Italia, esprimono un grande riconoscimento dell'importanza del Korea Film Fest per il contributo a diffondere la cultura coreana nel mondo. Afferma infatti l'ambasciatore che si tratta de “ ...il Festival del cinema coreano più storico d'Europa e l'unico evento del genere in Italia”.
Florence Middle East Now Festival 2015, sesta edizione (Menow 6)
E' l’unico festival in Italia interamente dedicato alla cultura e al cinema del Medio Oriente. Quest'anno gli organizzatori ci hanno fatto giocare, vestendo da hostess le collaboratrici, e pregandoci di “allacciare le cinture”. La visione dei tanti film, proprio come un viaggio, ha arricchito le conoscenze creando mille domande.
Fra i più riusciti film proiettati abbiamo visto la coproduzione turco-tedesca Until I loose my breath (2014), esordio di Emine Emel Balci. Racconta con stile possente una condizione di donna (giovane come la regista), grande lavoratrice, responsabile, che non può vivere una meritata indipendenza per la mentalità, dominante anche nella grande metropoli, Istanbul, che senza un uomo, padre, marito o cognato, o, in mancanza di quello, senza un altro parente, non le è permessa alcuna vita al di fuori del lavoro. Film che descrive senza giudicare, ma che si fa per ciò stesso denuncia dell'intollerabilità di tale condizione femminile. Presentato alla Berlinale, è un'anteprima per l'Italia, alla presenza della regista.
The Journey (Emirati Arabi, 2012), di Hana Macchi, è un gioiello di corto, consistente in 15 minuti di dialogo, dapprima stentato, poi sempre più affettivo, fra due espatriati, lei etiope, lui indiano.
Altra regista degli Emirati Arabi, Nujoom Alghanem, narra in Hamama (2010) di una guaritrice, forte della sua bravura, che attribuisce senza fatica ad Allah, ben cosciente di avere capacità di curare straordinarie. E' una donna dotata di grande concretezza e laboriosità estrema. Una che non si è mai sottratta al lavoro, e che ora, a 90 anni, sentendosi a tratti stanca, invece di diradare il lavoro, si sostiene bevendo grandi quantità di caffè. Apprezza tutto ciò che ha avuto dalla vita, anche se molto se l'è creato con la costanza del lavoro e con il carattere impavido. Quando il suo aiutante della fattoria, pakistano, si ammala, lei ha l'intelligenza di pagargli l'ospedale, a indicarci che è cosciente che parte della riuscita della sua cura è legata alla fede in un dio che lei condivide coi suoi pazienti.
Parte integrante del Festival è stata la mostra a Etra-Galleria Studio Tommasi, costituita di foto e disegni. Un artista del Barhein, il giovane Nasser Alzajany invitato a esprimersi sul tema del viaggio, che si può considerare il leitmotiv del Menow 6, lo ha svolto ricercando le tracce del mondo mediorientale in Firenze, e raccontandocele con la sua abilità di disegnatore, capace di trasformare con tratto sicuro luoghi usuali in messaggi di cultura altra, e di portare alla nostra attenzione, estraendole da musei che abbiamo tante volte visitato, quelle opere che molti secoli fa astronomi e pittori islamici hanno composto. In questo diario di viaggio appare anche la “moschea” di Firenze, per ora solo un anonimo luogo di preghiera. La raccolta delle copie di tutti i disegni in mostra è oggetto di un piccola pubblicazione, utile come guida per chi voglia, senza muoversi, provare un'emozione di viaggio in culture lontane.
In the sands of Babylon (Iraq/UK 2013), del regista iracheno Mohammed Al-Daradji, fronteggia la ricostruzione degli eventi all'interno dell'Iraq scaturiti nel 1991 dalla guerra che Saddam Hussein ha ingaggiato, da alleato degli Americani, contro il Kuwait. Il regista fa parlare i sopravvissuti a una repressione di ferocia inimmaginabile, gestita da soldati fedelissimi del dittatore contro loro conterranei insorti nell'Iraq del Sud. E' sconcertante però la violenza con cui il regista Al-Daradji ha costretto uno dei pochi sopravvissuti, che si vorrebbe sottrarre ai dolorosi ricordi, a parlargliene, per filmare le sue parole, incurante dei suoi pianti, usando come alibi il diritto all'informazione. Viene spontaneo il paragone con la ricostruzione del genocidio nell'Indonesia degli anni '60, attuata con ben altre modalità da un indonesiano, e ricostruita nel film The look of silence di Joshua Oppenheimer.
Un film dolcissimo, con esiti drammatici, ha per titolo A few cubic meters of love di Jamshid Mahmoudi, candidato agli Oscar 2015. Alla periferia di Teheran, una piccola fabbrica dà lavoro illegalmente ai rifugiati afgani, che con le loro famiglie vivono in vecchi container e sistemazioni di fortuna. Saber, un giovane operaio iraniano, s’incontra di nascosto con Marona, giovanissima, orfana di madre, figlia dell’afgano Abdolsalam. Tra i due scoppia un’innocente storia d’amore. In questo piccolo gioiello di film si riesce veramente a vivere il quotidiano, a comprendere che rapporti umani validi sono riconoscibili sotto tutti i cieli. Qui c'è il pianto, ma insieme la forza dell'amore. Ci si può riconoscere e capire.
Lo spettacolo Life may be (Iran/UK 2014), di Mania Akbari e Mark Cousins, apporta un fondamentale contributo alla comprensione dell'Iran attraverso le parole che l'attrice e regista iraniana Mania Akbari scambia con Mark Cousin, celebre regista inglese, a colpi di lettere. Mania ci parla dell'indissolubile binomio desiderio/pianto, che proviene da una cultura che, sono le sue parole, sempre nasconde, cercando di annullarlo, il corpo delle donne. Un film di cui sarebbe opportuno poter rileggere il dialogo incrociato fra i due spregiudicati interpreti di due culture così diverse. Un film che è pregevole opera letteraria prima che filmica, in quanto spesso le immagini sconfinano nella retorica, nell'arduo tentativo di rendere per immagini l'invisibile.
Ci viene da The Wanted 18 (Palestina/Francia/Canada, 2014), di Amer Shomali e Paul Cowan, pluripremiato ai festival internazionali, l'idea entusiasmante che il conflitto fra Palestina e Israele sia gestibile in modi pacifici ed efficaci. Ricostruisce, attraverso animazione, disegni e interviste, una storia vera accaduta durante la prima Intifada: la caccia dell’esercito israeliano alle 18 mucche del villaggio palestinese di Beit Sahour, la cui produzione autonoma di latte venne dichiarata “minaccia alla sicurezza nazionale di Israele”. Un incantevole omaggio all’ingenuità potente che riesce, disarmata ma unita, ad averla vinta sull'ottusità degli invasori.
Merita di essere ricordato anche Ich Liebe Dich (Turchia/Germania, 2012, 75’), di Emine Emel Balci, una pellicola che segue le donne di una delle zone più remote della Turchia mentre cercano di imparare il tedesco per raggiungere i mariti, emigrati in Germania, alternando lo studio a lavori di casa, in cui danno prova di notevole maestria. Il pane che fanno è una pasta tirata sottilissima, perfettamente a forma di cerchio. Storia di amore e di attesa, in cui le donne si ritrovano confuse tra turco, tedesco e la loro lingua madre, il curdo. Ma soprattutto hanno un insegnante turco con una pronuncia tedesca troppo diversa da quella degli esaminatori, per cui pochissime riescono a superare l'esame, malgrado le incoraggi in tutti i modi.
Il viaggio dell'ultima serata, proposto fra gli altri da Lisa Chiari e Roberto Ruta, i direttori artistici del Festival, non è stato solo attraverso un film, ma anche nella cucina tradizionale palestinese, buonissima, con degustazione al primo piano del cinema Odeon a cura dell’esperta della Palestina Silvia Chiarantini e del ristorante Valle dei Cedri.
Con questa ricchezza di argomenti e stili nei film proiettati, il lavoro delle giurie è stato immane. I premi sono stati assegnati da giurie di varia estrazione. Quella del Pubblico, sui lungometraggi, ha proclamato vincitore il documentario No land’s song (Iran/Germania/Francia, 2014, 90’) del regista iraniano Ayat Najafi. Racconta della giovane compositrice Sara Najafi – sorella del regista del film - che progetta di portare sul palco due cantanti iraniane insieme a tre artiste francesi, in un paese dove è vietato alle donne cantare da soliste di fronte a un pubblico misto. Un avvincente viaggio musicale tra i divieti e i tabù di un sistema che tenta di opporsi alla forza rivoluzionaria della musica e delle donne. Per un solo voto non ha vinto Tales (Iran, 2014), un film a episodi, proiettato alla presenza di Fatemeh Motamed Arya, amatissima protagonista di un episodio e cui questo festival ha dedicato una rassegna. Interessante notare, oltre alla profondità con cui venivano narrate alcune storie quotidiane, la capacità degli uomini persiani di piangere senza perdere la loro fierezza.
Altre tre giurie dovevano esprimersi sui corti della rassegna. La giuria della NYU Florence ha scelto di premiare Angelus Novus (Afghanistan/Paesi Bassi/UK, 2015, 25’) di Aboozar Amini. “Un corto che è riuscito a dar vita a personaggi ben articolati – si legge nella motivazione – e che ha illustrato questioni sociali contemporanee del Medio Oriente attraverso gli occhi di ragazzi giovani”. La stessa giuria ha conferito anche una menzione d’onore a Shouk (Israele, 2014, 18’) di Dotan Moreno “per la sua animazione raffinata e l’abile adattamento”. Il Premio “Best ISF” al miglior corto “young spirit”, assegnato dagli studenti dell’International School of Florence, è andato a The Neighbour (Emirati Arabi, 2013, 14’) di Nayla Al Khaja. “L’immobilità, le emozioni e la curiosità che riempiono il film, fortemente presenti anche nei momenti in cui non vi sono dialoghi – si legge nella nota della giuria – costituiscono i fattori chiave che rendono quest’opera così coinvolgente e commovente”.
Infine il premio Best OFF (OFF Cinema è la rassegna di cinema corto dell’estate fiorentina) per il miglior cortometraggio d'autore, ha premiato, non senza polemiche, Transit game (Libano/Canada/USA, 2014,18’) di Anna Fahr, “per aver saputo mostrare in uno scenario drammatico una verità universale. Grazie a un sapiente utilizzo della regia e a una fotografia dal forte impatto visivo il film ci ricorda come la forza di una generazione dai sogni infranti si riconosca nell’impegno per il futuro dei propri figli”.
Fuori concorso il film di chiusura, del regista curdo Shawkat Amin Korki, Memories on Stone, vincitore del premio “Miglior Film dal Mondo Arabo” al Festival di Abu Dhabi 2014. Celebrato da lunghi applausi in sala Odeon perché racconta gli orrori del genocidio curdo, l'Anfal, ad opera di Saddam Hussein, con una grazia struggente velata di humour e un'efficacia sconosciuta ad altri film di questo Festival. Poche le scene di pianto, inframezzate da episodi venati di umorismo o da episodi scioccanti che narrano una terribile pagina di storia, ponendo però le basi per superarla creativamente nel ricordo.
E' difficile fare una panoramica esaustiva di un Festival che abbraccia un così grande numero di paesi e problematiche. Ci si può solo augurare che almeno le più significative opere presentate riescano a circolare fra un pubblico più numeroso di quello che ha affollato la prima parte della Primavera di Cinema Orientale, che si completerà a giugno col Festival del Cinema Giapponese.
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