“Ho due opzioni, diventare una criminale o un’artista (…). Sto lavorando con il mio sangue e il mio corpo”.
Con il mio sangue e il mio corpo. Con la mia carne. Con la verità. Essenzialmente, Ana Mendieta ha lavorato con tutta stessa. Ha attinto dalla sua storia personale come da quella del suo paese. Ha rimesso in scena i propri traumi come quelli della società in cui ha vissuto. Ha scavato alla ricerca delle proprie radici, vestendosi delle radici della sua terra. Ha attraversato il sogno, l’incubo, l’amore, il mito, la violenza. Il tempo. Il labirintico disegno dell’Universo.
L’avevano soprannominata “piccola palla di fuoco”. Lei, minuta di statura ma decisamente vulcanica. Trasudante un’energia vitale fuori dal comune. “La mia arte è cresciuta nella convinzione di un’energia universale che scorre attraverso ogni elemento, dall’insetto all’uomo, dall’uomo al fantasma, dal fantasma alla pianta, dalla pianta alla galassia”. Tredici anni di irrefrenabile attività artistica svolta prevalentemente all’aperto, in mimetica compenetrazione con Madre Natura. Tredici anni di irrefrenabile attività artistica in cui il corpo – e la sua traccia – sono stati sia strumento che linguaggio.
Nata a l’Avana nel 1948, Ana fu brutalmente sradicata dalla sua terra all’età di soli dodici anni. Suo padre, convinto anti-castrista, aderì all’operazione Peter Pan avente come obiettivo quello di salvare i bambini cubani dalla Rivoluzione. E così, per proteggere le proprie figlie, scelse di allontanarle. Catapultata insieme alla sorella nella stravolgente realtà newyorkese, Ana passò da famiglie adottive a orfanotrofi, fronteggiando momenti di grande solitudine e sconforto che la segnarono profondamente. Il trauma di quello sradicamento riecheggiò in lei sino alla fine dei suoi giorni, ma fu anche l’inesauribile fonte cui attingere durante la sua ricerca artistica. Negli anni riuscì a compiere un percorso di studi presso l'Iowa State University, conseguendo un Master of Fine Art in Itermedia. Poi, nel 1972 ci fu la svolta: la sua ricerca passò repentinamente dalla pittura – che era stato sino a quel momento il suo mezzo espressivo – al corpo. "Nel 1972 realizzai che i miei dipinti non erano abbastanza reali per quello che io volevo comunicare…”.
Da quella consapevolezza scaturì un’evoluzione pressoché inarrestabile. Un’impennata che soltanto la morte avrebbe potuto interrompere. Tra la ricerca delle proprie radici e la denuncia sociale, tra la rivendicazione etnica e le tematiche di genere. Uno dei suoi primi lavori, datato proprio 1972, è Glass on Body Imprints. Qui Ana tentò per la prima volta di sfidare i limiti del linguaggio corporeo e gestuale, e lo fece schiacciando se stessa contro una lastra di vetro che deformava grottescamente la percezione della sua figura. Nel 1973 realizzò forse la performance più violenta della sua breve carriera: Rape Performance. Nella fattispecie, inscenò un vero e proprio stupro. Riflettendo su un fatto di cronaca realmente accaduto e relativo allo stupro e all’uccisione di una studentessa all’interno del campus universitario, Ana decise immediatamente di “reagire” con un’azione performativa di forte impatto: aprì casa al pubblico per una finta festa, e quando la gente arrivò la trovò seminuda e riversa sul tavolo da pranzo, con gli slip calati e insanguinati, come se fosse stata abusata pochi istanti prima e abbandonata lì come una carcassa. L’azione, ovviamente, turbò gli spettatori presenti (tra cui vi erano studenti e docenti dell’università) e fu immortalata in una sequenza di fotografie.
Nelle performance successive è ancora il sangue a spiccare. In Sweating Blood Ana lascia che il liquido le coli sulla fronte, rigandola. In Blood Writing lo utilizza come inchiostro per scrivere. In People Looking at Blood, l’artista sporca un marciapiede gocciolandovi il proprio sangue e osservando l’eterogeneità di reazioni dei passanti. La Natura, però, divenne presto il luogo principale della sua ricerca. Un vero e proprio laboratorio a cielo aperto.
Gli spunti da cui nascevano i suoi progetti di Land Art o Performing Art erano sovente di matrice arcaica: Ana subiva il fascino delle culture primitive di stampo matriarcale. Muovendo da queste suggestioni, il suo lavoro divenne sempre più “nudo” e diretto. A partire dal 1973 gli interventi nella natura – ampiamente documentati da video e fotografie –, divennero vere e proprie performance installazioni. Il suo corpo inscenava e realizzava la compenetrazione. Si può dire che Ana riuscisse a fondersi col paesaggio, divenendo staticamente parte di esso. L’inserimento del proprio corpo nella natura, spesso vestito di fogliame o di fango, fu un tratto estremamente distintivo della sua proposta artistica. Ana tentava di rendersi concretamente parte del contesto. Cercava di fondersi con i suoi elementi. Cercava di sentirsi un suo elemento, mediante la mimesi.
L’identità femminile e la sua scarsa e scomoda presenza nel mondo dell’arte è stata una delle sue ossessioni, tanto da portarla negli anni a lavorare fortemente sul concetto di presenza-assenza del corpo come dell’identità. Le celebri Siluetas, avviate a partire dal 1974, nacquero proprio da questa ossessione: la donna che in sé è già madre, si mescola, si ricongiunge, si lascia incorporare dalla Grande Madre. In un primo momento fu il suo corpo ad essere Silueta mimetizzata con la natura: la Mendieta si coprì infatti di foglie, arbusti, fango, terra, sangue e acqua, tramutandosi in frammento geografico, restando immobile per ore nella stessa posa e nello stesso luogo. “Credo nell’acqua, nell’aria e nella terra. Sono tutte divinità”.
La serie delle Siluetas rivela questa urgenza di ritornare ad avere una radice, un’origine, una madre, una terra. Lo sradicamento l’aveva resa orfana di troppe cose. Ma non del proprio corpo. Non della capacità di restare, persino nell’assenza. E così, agli albori degli anni Ottanta Ana fece spazio a una nuova idea: realizzò le prime Esculturas Rupestres, sagome scavate nella materia viva e tenera delle rocce del Parco Jaruco, in una zona periferica dell’Avana. Qui il vuoto dell’assenza venne letteralmente inglobato dalla Madre Terra. “Mi sono immersa negli elementi stessi che mi generarono, utilizzando la terra come tela e la mia anima come strumento”.
Nel 1983 la Mendieta venne in Italia. Dopo aver vinto una borsa di studio recò a Roma, presso la sede dell’American Academy, e per la prima volta ebbe uno studio tutto suo. Fino a quel momento il suo laboratorio era stata la natura. Ma l’arte italiana – e in particolar modo la statuaria classica e rinascimentale – finì per sedurla, tanto da portarla a “fare” più che ad essere. Servendosi di tronchi di legno, sabbia e terra Ana iniziò a realizzare delle sculture. A questo proposito ricordiamo la serie Totem Grove, in cui tronchi d’albero vennero decorati con ideogrammi realizzati mediante combustione.
Queste furono le ultime sperimentazioni della Mendieta, che l’8 settembre del 1985 precipitò dal 34esimo piano di un grattacielo di New York. Una morte identica a quella scelta dalla giovanissima fotografa Francesca Woodman appena 4 anni prima e nella stessa città. Coincidenza? A noi non è dato saperlo. Quel che è risaputo è che il gesto finale fu compiuto dall’artista in seguito a uno dei più spietati litigi con Carl Andre, suo marito nonché noto scultore minimalista. e che lui fu in seguito processato e poi prosciolto per insufficienza di prove. La verità certamente esiste. Ma la prematura scomparsa di Ana continua a scavare sagome di dubbio nel silenzio.