Dalla larga finestra una cascata di luce si riversava nella sala da pranzo. Qui un tavolo di medie dimensioni mostrava i resti di un lauto pranzo. In lontananza il sole brillava nella distesa azzurra facendola esplodere in una miriade di luci. La brezza tiepida inondava la stanza riempiendola di un odore salmastro. Nell’aria pigra del meriggio il silenzio era rotto solo da occasionali grida di gabbiani che sorvolavano la non lontana matrice. Un uomo dalle lunghe vesti e con un piccolo copricapo circolare in testa entrò nella stanza, barcollando leggermente a causa della sua mole. Dietro di lui un giovane alto e di bell’aspetto lo seguiva da presso. Per lunghi istanti i due non dissero nulla.
Poi d’improvviso l’uomo che era entrato per primo, i cui capelli erano tinti di bianco, si massaggiò il mento. Poi dando le spalle al secondo, disse: «E così la vorresti sposare!». «Sì. È colei con cui voglio condividere la mia vita».
«Ma se non sai nemmeno cos’è l’amore», sospirò il vecchio. «E poi c’è la faccenda tutt’altro che secondaria della religione, lo sai. Tu sei un goym! Ma forse te ne sei dimenticato». E quest’ultima frase non la disse con sarcasmo ma con rassegnazione. «È colpa mia. Non avrei mai dovuto farvi frequentare, ma da quando ti conosco ho sempre visto in te uno spirito puro, capace di grandi cose. In cuor mio ho sempre sperato ti convertissi alla religione dei miei padri: ma così non è stato. Adesso pago il mio errore…». «Sai quanto ti stimo Antonio!», continuò Gerardo, «Ho sempre guardato alle nostre riunioni come a un balsamo per la mia mente infiacchita dalle cure quotidiane. Ti conosco valente nelle membra e saggio nel cuore. Ma non posso alienare alla sua gente mia nipote! Inoltre con cosa la manterresti? No, non parlare ti prego so ciò che vali, ma il denaro è importante! Ora va' e non chiedere ancora mercé al mio cuore straziato. Ti aspetto domani. Ti voglio presentare il cavaliere di Troina, uomo di grande valore, che serve il nostro Re».
Dopo aver più volte cercato di controbattere le parole di Gerardo, amico suo e prima ancora di suo padre, Antonio ritenne più saggio procrastinare il suo dire e non fece traboccare i sentimenti che gli avevano riempito il cuore e l’animo a tal punto che ne uscivano fuori frasi a metà, che di senso ne avevano poco o niente. Il giorno successivo lo trovò sveglio a meditare sul da farsi. Il piccolo edificio che divideva con la madre e il fratello primogenito era a ridosso del quartiere ebraico, proprio all’inizio della salita che portava alla collina di Montevergine. Non lussuosa ma dignitosa, la dimora era di proprietà dei suoi avi da molte generazioni e il titolo di cavaliere che apparteneva al fratello per diritto di nascita gli permetteva, anche se a stento, di mantenere lui e la sua famiglia. Non era riuscito a chiudere occhio quella notte. Non che fosse rientrato molto presto a casa. Il gallo aveva già cantato quando l’uscio gli era stato dischiuso dal vecchio servo di famiglia. Con un’aria assonnata non aveva avuto neanche la forza di protestare quando era stato scaraventato fuori dal tepore del suo letto. Con il rispetto dato dall’età e dalla frequentazione, Antonio, si era scusato per l’ora e si era apprestato a coricarsi.
Dormire, insomma, piuttosto meditare o meglio ancora macinare. Non si risolveva ad accettare l’amara sentenza che aveva decretato per lui il suo amico medico. Certo c’erano delle questioni non insignificanti da considerare come il denaro, la religione, la loro giovane età… Ma lui amava Sarah e ne era certo! In ogni caso oggi sarebbe stato un giorno importante. Avrebbe conosciuto il famoso cavaliere di Troina al servizio del Re. Gli argomenti sarebbero stati i numerosi viaggi e la famosa corte di Federico II a Palermo. Non vedeva l’ora di conoscerlo. Tante volte aveva pensato di offrire la sua spada al Re. In effetti era d’accordo con lui in molte faccende e, nonostante l’opinione di padre Thomas e della Chiesa in generale, Federico era un grande uomo. Non soltanto con la spada ma anche per la sua visione politica. Il pensiero politico di Federico poteva essere annoverato fra quello dei grandi della sua religione. La reductio ad unum era in effetti un grande disegno che avrebbe rivoluzionato il mondo.
I primi raggi del sole nascente che filtravano attraverso le cortine del letto lo trovarono profondamente addormentato. Si svegliò di soprassalto a causa degli insistenti colpi alla porta di casa. Qualcuno stava bussando furiosamente alla porta e non si peritava di colpirla con un bastone o con qualcosa di simile. «Hmmm… Ma perché non apre mia madre?», pensò Antonio ancora fra le braccia di Morfeo. Poi d’un tratto si ricordò che il giorno precedente la madre era andata, insieme al fratello e al vecchio servo, a trovare la sorella fuori città. «Credo proprio che mi tocchi alzarmi!», disse tra sé e sé. E, sceso un po’ troppo velocemente dal letto, inciampò e cadde sopra Pece, uno dei suoi due mastini. Questi sobbalzò e, rigirandosi improvvisamente fece per mordere Antonio. Ma, riconosciutone l’odore, fermò a mezz’aria le sue potenti fauci senza stringerle addosso alla coscia del suo padrone.
«Sono io Pece!», disse Antonio, dandogli un leggero scappellotto. Il cane lasciò andare la presa e si mise a uggiolare. In pochi attimi anche Cenere gli fu presso e gli saltò addosso cominciando a sbavare sopra di lui. Ci vollero minuti prima che Antonio riuscisse ad aver ragione di quell’attacco festoso. Erano due splendidi esemplari di mastino, con il pelo nero come la pece l’uno e grigio come la cenere del vulcano l’altro. Pacifici e giocherelloni con il suo padrone erano letali in battaglia. Splendide erano le loro armature d’acciaio rilucente: le decorazioni in argento, uguali per ambedue, rappresentavano un drago in atto di spalancare le fauci.
Finalmente Antonio riuscì a raggiungere la finestra e la spalancò senza indugi. Il fiotto di luce che lo colpì lo accecò per più di un istante. Era come se in luogo della luce fosse stato colpito con qualcosa di solido. Per un istante non seppe capacitarsi, poi i ricordi vennero alla mente tutti in una volta. La notte precedente non aveva fatto che bere quel nettare meraviglioso che i monaci, il cui romitaggio è alla base del vulcano Etna, producono in copia. Si, quella sera non si era risparmiato. Meditando sul da farsi aveva visto il fondo di una botticella di buon vino che si trovava nella dispensa. Aveva proprio esagerato! E adesso il sole lo ricacciava nella stanza buia da dove era uscito, qualcuno martellava la porta e, come se non bastasse, c’era chi urlava a squarciagola il suo nome…
«Antonioooo! Ti vuoi alzare, si o no?», urlava un ragazzone alto e forte che rispondeva al nome di Lindemio. La tunica marrone, colore della terra, lo appalesava essere un benedettino. Non un benedettino qualsiasi ma il benedettino che gli aveva procurato lo splendido nettare… Quello che, per intenderci, lo aveva ridotto in quel modo. La testa ronzava ancora come se si trovasse racchiusa all’interno di un sacco pieno di vespe. Sforzandosi di riprendere il controllo di sé, Antonio rispose dal balcone: «Perché urli tanto Lindemio, vuoi svegliare la città?». «Forse non ti sei accorto che la città è sveglia da un pezzo, ormai… », disse Lindemio con fare sarcastico. Sorridendo appena, Antonio continuò: «Cosa vuoi dunque?». «Forse ti interesserà sapere che il cavaliere di Troina è arrivato in città e che mangerà a casa di Mastro Gerardo quest’oggi. Il medico mi ha chiesto di ricordartelo nel caso te lo fossi scordato. Ma vedo che non è così… », aggiunse Lindemio accompagnando la battuta pungente con un sorriso. «E ora se fossi in te, mi andrei subito a preparare». «Grazie amico!», fece in tempo a dire Antonio prima di rituffarsi nella stanza.
Il vicolo dove si trovava la casa di Gerardo era poco distante e ormai Antonio la considerava la sua seconda casa, tante volte vi si era recato per mangiare o discutere in compagnia del medico, vecchio amico di suo padre, o della nipote, la bella Sarah: l’unica donna che avesse mai amato. Era stato molto triste quando Gerardo gli aveva detto che non aveva nessuna intenzione di maritarla con lui. Ma poi aveva aggiunto che Sarah era ancora troppo giovane per sposarsi e che avrebbe atteso ancora altri tre anni. Questa affermazione, detta da Gerardo con fare leggero, lo aveva persuaso di avere ancora speranze. La tristezza aveva lasciato il passo a un moderato ottimismo: era giovane e avrebbe potuto fare fortuna. Non gli mancava che un’occasione. Questa sembrava essersi presentata al momento giusto. Doveva assolutamente conoscere il famoso cavaliere di Troina. Braccio destro dell’imperatore, era il capo delle guardie del corpo e colui al quale Federico affidava le missioni più difficili. Questo era quanto gli aveva riferito Gerardo, raccomandandogli il segreto, che a sua volta gli era stato detto di mantenere dal suo amico Jacopo da Lentini.
Il cuore non stava più nel petto. Mentre saliva la lunga scala di pietra lavica, che portava all’abitazione dell’ebreo, davanti la porta della dimora si ritrovò a fissare dal basso verso l’alto due guerrieri, uno moro e l’altro bianco coperti da un’armatura da combattimento che mandava barbagli infuocati. Le guardie, appena si avvidero dell’uomo che saliva di corsa le scale, sguainarono le spade e le incrociarono per impedirne il passaggio. «Chi sei, cosa vuoi?», disse il moro con una lunga cicatrice che gli attraversava il volto. «Mi chiamo Antonio e mastro Gerardo mi aspetta». «Oggi non può riceverti, torna domani!». «Ma mi aspetta per il pranzo, fatemi passare», e dette queste parole Antonio fece per scostare le spade che ancora gli bloccavano il passaggio.
Le guardie reagirono con fermezza e mentre l’uomo con la cicatrice alzava la spada per colpirlo di piatto, l’altro lo spinse contro alcune brocche poste per terra, pronte a essere riempite d’acqua, mandandole in frantumi. Il rumore delle stoviglie rotte allarmò Gerardo e il suo ospite che usciti sull’uscio videro la scena. Appena Ugo di Troina vide il suo salvatore steso sul ballatoio lo riconobbe e si chinò per aiutarlo ad alzarsi. Subito un sorriso si allargò sul suo volto, troppo spesso cupo, e disse: «È possibile che ogni volta che ci incontriamo sei sdraiato a terra?». «Antonio, amico mio! È un piacere inaspettato rivederti», aggiunse Ugo. «Ma voi due vi conoscete già?», disse il medico. «È una storia che ti racconterò dopo aver assaggiato un po’ del tuo vino», aggiunse Antonio, che nel frattempo si era rialzato dal pavimento e stava massaggiandosi il collo.
Entrati nella casa senza ulteriori indugi, i tre si accomodarono nella sala dei banchetti, dove altri commensali stavano sorseggiando profumate misture. Dopo aver chiesto a Ugo di raccontargli della fondazione dello Studium generalis di Napoli, disse ai servi di portare il pranzo. La conversazione si protrasse fino a sera e gli argomenti furono vari e piacevoli. Si parlò di questioni religiose, di architettura e di poesia oltre che naturalmente di combattimenti e fra questi Ugo in persona volle narrare come Antonio gli salvò la vita, quella sera di alcuni giorni prima. Quando furono chiuse le tavole e tutti gli invitati si furono ritirati a casa loro Antonio, Ugo e Gerardo poterono parlare in privato. Antonio non nascose il forte desiderio di combattere al fianco dell’imperatore e di cercare gloria e fortuna, al ciel piacendo, con Federico. Dal canto suo Ugo, memore del valore e dell’ardimento che gli avevano consentito di sopravvivere, chiacchierò a lungo con Antonio. Ugo, dopo averlo interrogato molte ore, tanto che l’ora della cena era passata da un pezzo e nessuno aveva osato disturbarli, acconsentì a prenderlo sotto la sua protezione. A questo era stato lungamente preparato da Gerardo che, ignaro della pregressa conoscenza fra i due, aveva intessuto le lodi del suo protetto.
Continua il 13 Maggio...