Al mattino, appena sveglia, preparo la colazione composta da spremuta con 3 arance dal succo rosso -dicono che sono quelle che fanno meglio- , un litro di tè con boccioli di rosa canina e con un bastoncino di cannella, che forse brucia gli zuccheri. Riscaldo poi un maritozzo ai semi di finocchio realizzato per me da Ceccolini Bio e marmellata di mirtilli, bio pure loro. Aiutata dal litro di tè, alla fine, ingoio 4 o 5 pillole di integratori.
Mentre mangio e bevo controllo le creature del mio albero.
La colazione dura un’ora perché più che mangiare il maritozzo, io mangio -letteralmente mangio- il mio albero. Metto in azione non solo la sguardo, ma il corpo, la mente, lo spirito. Tutto entra in movimento. Credo sia una questione di contemplazione perché poi continuo a trovare, nei suoi rami, tutte le mattine, nuove forme tra l’umano e il mostruoso. Dal loro corpo, dalla loro testa nascono lunghe antenne minacciose che conquistano lo spazio attorno. Se ne vanno in tutte le direzioni, si accavallano, si moltiplicano. E io seguo le loro strade in continua metamorfosi. È il nostro modo di conversare.
Da tronchi e rami, infatti, apparentemente in riposo invernale, prendono vita, per me, figure inquietanti. Non poteva essere diversamente; già dal mattino, in solitaria condizione privilegiata, sono in stato confusionale, presa da insana passione, da turbamenti e smarrimenti. La mia è la solita paura, quella di non riuscire a dare risposte. Le figure con le lunghe barde mi pongono domande, si mostrano, sono.
E io guardo, le osservo e mi dico: “Adesso devo disegnare tutto quello che vedo, devo disegnare la vita del mio albero. Devo”. Ma a casa, disegnare, è complicato. Penso di realizzare un trittico: la parte centrale e le due laterali. Il foglio deve essere molto grande; grande quanto il tavolo, quindi lo libero dall’inutile, comprese tazza, teiera, scatole e bottigliette di pillole.
Trovo poi un’infinità di matite che non mi servono e i famosi foglietti bianchi volanti, però manca la gomma e non trovo la matita 2B, c’è solo la 2H che è troppo dura. Per il mio albero ci vogliono segni potenti di terra, che poi si dissolvono nell’aria e confinano con il cielo. Ci sono poi mattine dove il sole ne illumina una parte, e i rami diventano collane di luce, ma il miracolo avviene con la pioggia: piccole perle lo incorniciano tutto. M’incanto e contemporaneamente penso al modo di risolvere graficamente quelle gocce di luce. Metto in ordine; sposto sul letto quello che era sul tavolo e finalmente un foglio cm. 50 x 70 trova la sua dimora. Guardo l’albero e mi chiedo se devo dargli più slancio verso il cielo o approfondire l’abbraccio orizzontale di rami antropomorfi.
Ho tutto in ordine; matita gomma e foglio. Posso iniziare, ma la casa ha le sue distrazioni. Ho fatto una colazione abbondante e quindi il mio diabete richiede almeno mezz’ora di ginnastica. Che poi diventa un’ora. E così arrivo sempre alle undici. Inizio a pensare che sono in ritardo. Ritorno a guardare l’albero. Mi rimane solo il tempo per fotografarlo; così le fotografie aumentano e il foglio rimane bianco. Faccio la doccia, mi vesto, mi trucco e arriva mezzogiorno. Esco di volata e vado a fare la spesa con la speranza, anzi la certezza, di trovare cibo già pronto, sano e bio, cioè vado veloce da Ceccolini.
Rientro e ho mezz’ora, prima di pranzo, per impostare il disegno. Entro nella stanza e seduto al mio posto, a questo punto visionario, c’è Manlio, che sta leggendo il giornale perché è la stanza più luminosa della casa. Quindi per essere realmente libera dovrei eliminare il problema del cibo. L’ho ridotto al minimo; non cucino più, lo compero già pronto e lo riscaldo. Però c’è quel “minimo” che è pesante come un macigno. Ricordo l’amico chirurgo che mi operò all’anca e un giorno mi disse -non ricordo a proposito di quale problema, anzi, lo ricordo, ma mi censuro- “In due siamo già un folto gruppo”. Ecco, “il minimo”, il due, in questo caso, mi priva di pranzare e cenare quando e dove voglio e credo che da qui, decine di anni fa, dovevo partire per sentirmi autonoma e in stato di libertà.
Praticamente mi dovevo separare. Forse. Anzi, sicuramente.
Da molto tempo ho compiuto il grande distacco. La mia passione per gli esseri umani ha ceduto il campo all’Orto Botanico, al Parco della Pace, a Marina Romea con la sua valle e il mare, alle nuvole, alle fasi lunari, alle visioni lungo l’argine del fiume, ai tramonti in studio. Ritrovo in queste visioni antiche parentele. Ma quando mi trovo proprio bene da qualche parte, rapidamente me la distruggono.
La mia libertà in questo periodo sarebbe andare a pranzo, quando voglio, all’Orto Botanico, il luogo più misterioso e silenzioso di Ravenna. Vorrei essere lì seduta e contemplare, come faccio ora, gli alberi che “Erano Dei scesi dal cielo per renderci felici”.
Lo ripeto spesso.
Ma oggi, in questa giornata balorda, sono stata salvata dai muratori. Sono venuti a cambiare un tubo che ha allagato il garage accanto al mio. Di mattino presto hanno iniziato a trapanare. In casa tremava tutto; dai pavimenti ai muri. Poi si sono calmati e hanno lavorato in silenzio. Non potendo uscire mi sono seduta di fronte all’albero e ho iniziato a disegnare: loro e io, un’ottima compagnia.