Può il nome di una via evocare un passato di splendore, una memoria di bellezza, che il tempo e la mano indiscreta dell’uomo “faber” hanno quasi del tutto cancellato?
Questa è la domanda che ci si pone dopo aver imboccato la centralissima via Giardini che, dopo il turbinio di rotaie di via Manzoni e lo iato della Piazza Croce Rossa con il suo discusso monumento, porta a una Milano più recondita, quasi l’antico itinerario verso la campagna d’antan. Ora, dei signorili giardini è rimasto un aggraziato, metafisico frammento, ma la via conserva ancora segni di una storia architettonica più recente, come il severo Palazzo Crespi Morbio, della fine degli anni ’40, all’angolo con via dell’Annunciata. Qui ha sede una fondamentale istituzione della cultura e della musica ambrosiane, “Gli Amici della Scala” e qui mi riceve con fervida affabilità Vittoria Crespi Morbio, per parlarmi del suo rapporto con la città e della sua attività come storica della scenografia.
Visitando i grandi saloni della sua ricca biblioteca, dove occhieggiano i quadri della collezione di famiglia, si coglie tutta la sua passione per la bellezza, che si materializza nella cura del patrimonio scenografico, in particolare quello della Scala, di cui è curatrice e che le ha dato la gioia di potersi dedicare a un’inesauribile miniera di scoperte, permettendole, fra l’altro, di conoscere da vicino figure come Gian Carlo Menotti, Giorgio Strehler, Lele Luzzati, Josef Svoboda, Fabrizio Clerici, Luigi Veronesi, Piero Dorazio, Renzo Mongiardino, Gianni Ratto e tanti altri grandi artisti che si sono misurati con la “tentazione del teatro”.
Nella vita di una persona c’è sempre un’atmosfera, uno spazio, un luogo che hanno caratterizzato la sua crescita e formazione, diventandone parte insostituibile. In che misura e come Milano è entrata nel suo mondo di affetti e memoria?
Milano muta con le varie stagioni della vita, in particolare ho nel cuore la sensazione di freschezza del giardino di Villa Reale. Mi ci si portava la bambinaia, io entravo in contatto con la natura nel momento in cui sentivo amplificati i rumori del ruscello, il profumo di un microcosmo di fiori, erba, muschi. Recentemente ho ritrovato questa comunione con la natura mentre facevo jogging nel parco di via Palestro, alle prime ore del mattino. Una nuvola di foglie si era staccata dalle fronde di un albero, e io mi ero ritrovata immersa in una pioggia dorata. Altra sensazione di felicità quando mi sono trovata, sempre correndo nel parco i primi giorni di febbraio, a percorrere un tracciato di coriandoli e stelle filanti rosa e violetto, come se quel luogo, ancora immerso nell'oscurità, fosse abitato dalle fate.
Viene da una famiglia strettamente legata alla tradizione milanese, con importanti contributi di storia, cultura, sviluppo economico: in che modo se ne sente partecipe e in che modo autonoma?
Mio nonno Vittorio aveva raccolto una straordinaria biblioteca alla quale avevo accesso: che sorpresa trovare le incisioni che illustravano i tomi rilegatati di Voltaire, Balzac, Victor Hugo. C'erano pure le vecchie edizioni del Corriere di Piccoli, con i protagonisti dalle teste geometriche disegnate da Antonio Rubino, le imprese dell'africano Bilboibui di Attilio Mussino, le filastrocche del signor Bonaventura di Sergio Tofano. Uno straordinario repertorio iconografico che mi è rimasto impresso nella memoria.
Vivere a Milano ed essere milanese che significato identitario ha ancora?
Ogni giorno mi rapporto con la città di Milano attraverso gli studi in campo teatrale che me la fanno amare e riscoprire: oggi come non mai rimangono attuali certi legami tra l'arte e la società committente, che determina il gusto. Si pensi alla dimensione pragmatica e stimolante di Maria Teresa con le realizzazioni dell'architetto Giuseppe Piermarini e le rappresentazioni al Teatro Ducale dei fratelli Galliari per le musiche di Mozart, Paisiello, Hasse, Piccinni, quella elegante di Eugenio de Beauharnais, con le rappresentazioni teatrali neoclassiche di Paolo Landriani e i tocchi estrosi del costumista Giacomo Pregliasco, o ancora i fasti absburgici per l'incoronazione di Ferdinando I realizzati da Alessandro Sanquirico. Ma si pensi anche alle coraggiose ricerche del Piccolo Teatro nel secondo dopoguerra, promosse da Grassi e Strehler; le novità presentate al Lirico negli anni Settanta (dal Gran sole carico d'amore di Luigi Nono del 1975 all'Oggetto amato di Sylvano Bussotti del 1976). Le stagioni al Teatro alla Scala sostenute da Claudio Abbado, Riccardo Muti e recentemente da Daniel Barenboim, hanno apportato stimoli pure nell'ambito della rappresentazione teatrale.
Una città può essere anche una questione di genere, quali sono le parti femminili e quali maschili di Milano?
Milano è una città-donna a partire dalla struttura concentrica e spiraliforme del suo assetto urbanistico: è una città che si nasconde, che cela all'interno i suoi tesori, per esempio i giardini nei palazzi di cui nessuno può vedere l'interno. Leggendo Alberto Savinio, che all'identità di Milano ha dedicato un libro stupendo, questo appare chiarissimo. Peccato che l'interramento dei canali abbia privato Milano di un'altra dimensione femminile che le era propria: la presenza dell'acqua.
Quali figure di donne milanesi nella cultura e nell’arte hanno connotato un’impronta femminile della città?
C'è l'imbarazzo della scelta: si pensi a Carla Fracci e a Luciana Savignano nella danza, a Valentina Cortese e a Valeria Moriconi nel teatro... Ma ce ne sono decine, e di molte il “grande pubblico” non conosce nemmeno il nome, perché Milano e le sue grandi donne non amano lo show, amano lavorare in silenzio e nell'ombra.
Lei è conservatrice del patrimonio scenografico scaligero e appassionata cultrice e ricercatrice del più importante teatro italiano: qual è oggi il rapporto dei milanesi con la Scala?
Sino a poco tempo fa il rapporto era vincolante, al punto che alcuni spettacoli venivano creati in funzione di un certo gusto. Penso alle atmosfere brumose dei Navigli di manzoniana memoria nella Luisa Miller di Verdi ideata da Pier Luigi Samaritani (1976), al posto delle convenzionali immagini di boschi e paesini tirolesi. Il Falstaff di Ezio Frigerio con la regia di Giorgio Strehler abitava la pianura padana (luogo verdiano), anziché il paesino medioevale di Windsor (1980). Il teatro rifletteva una determinata poesia, certe atmosfere, contrariamente agli ultimi spettacoli pensati soprattutto per un pubblico internazionale.
Non solo Scala, Duomo, S. Ambrogio, in quali angoli nascosti si può gustare la vera Milano?
La Biblioteca Braidense come memoria della città. Per accedervi si percorre il cortile ritmato dai colonnati seicenteschi del Richini, dai quali fanno capolino illustri uomini di cultura, dal Cagnola all'Albertolli; al centro campeggia l'apollinea statua di Napoleone del Canova. Vi si accede per l'ampio scalone: «Erano scalini da scendere in tonaca, con piede posato e solenne e comodo» (Luciano Bianciardi in La vita agra). Si ha la sorpresa di trovarvi non la biblioteca, bensì straordinarie raccolte che vanno dal fondo dei manoscritti di Manzoni alla biblioteca privata del cardinal Durini, la raccolta bodoniana, la biblioteca liturgica dei duchi di Parma, il fondo Haller di opere scientifiche...
Che provvedimenti e suggerimenti darebbe per rendere più bella e vivibile la città?
Un maggiore rispetto nei confronti degli edifici pubblici; condannerei i writer, che sfregiano le antiche facciate dei palazzi, al contrappasso di ripulire la città.
Esiste ancora la Milano con il “coeur in man”?
Esiste, ma un po' affaticata e un po' confusa con usi e modi che vengono dalla televisione e promuovono la volgarità e la prepotenza come stili di vita.
In una recente intervista Umberto Veronesi ha detto: la grande forza di Milano è la sua borghesia, con poche famiglie illuminate e dal rigore “giansenista”. E’ d’accordo?
Il mecenatismo della grande borghesia sembra appartenere piuttosto al passato. Ancora oggi incrocio signori grati per l'edificazione del complesso edilizio 'Fondazione Crespi Morbio', le cui abitazioni erano destinate a famiglie numerose con almeno cinque figli. Pure in ambito della cultura si fece molto: il visitatore che accede al museo teatrale alla Scala ritrova impressi su una targa i nomi dei soci fondatori, Ettore e Ferdinando Bocconi, Angelo e Giovanni Bonomi, Luigi Borghi, il senatore Borletti, Anna Erba Brivio, Mario Aldo e Vittorio Crespi, Giorgio Falk, Giambattista Pirelli, Giulio Ricordi, Giovanni Treccani, Luigi Trivulzio, il duca Uberto Visconti di Modrone...
La sua formazione è partita dall’esperienza del vedere e il suo sguardo si è posato sulla pittura per poi arrivare al teatro. C’è differenza tra lo sguardo posato sull’arte figurativa e quello diretto all’opera teatrale?
Le due dimensioni s'intrecciano e l'una influisce sull'altra in uno stimolo reciproco. Basti pensare ad alcune esperienze realizzate per il Teatro alla Scala. Nel Teneke di Fabio Vacchi (2007) Arnaldo Pomodoro trasforma il palcoscenico nell'immensa scultura vitale di una risaia inondata dall'acqua. Nella sua unica esperienza teatrale Marino Marini ritma la Sagra della primavera in una risonanza generativa di colori che riverberano su un immenso fondale (1972). La nuova dimensione spaziale dell'ampio palcoscenico della Scala stimola Alberto Burri a realizzare, per Spirituals per orchestra di Morton Gould (1964) un fondale in legno scheggiato da lampi neri e rossi, quasi a creare una risonanza di terra, cielo e cosmo; al contrario Giacomo Manzù raccoglie le vicende della Histoire du soldat di Stravinskij (1970) in ideali predelle scultoree; Lucio Fontana immerge in violenti contrasti di luce spettatori e danzatori, creando un immenso concetto spaziale (Ritratto di Don Chisciotte di Petrassi, 1967).
Ha scritto che per molti il teatro è stata una “tentazione segreta”…
Gio Ponti fu talmente coinvolto nell'Orfeo di Gluck (1947) da interferire con le idee del regista Fritz Schuh, suscitando inevitabili attriti. Al contrario Mario Ceroli si limitò a cedere a Mauro Bolognini una scultura che il regista aveva visto esposta in una mostra a New York nel 1966. Tale solido si trasformò in scena nella magnetica dimora della Norma di Bellini (1972).
Nella sua ponderosa messe di ricerche e studi, quali scoperte l’hanno più appassionata e gratificata?
Ogni artista ha una sua storia, un percorso da seguire. Il rapporto tra i compositori e gli artisti è un capitolo a sé. Giuseppe Verdi fu tra i primi a sentire la necessità di mettere ordine nella rappresentazione delle proprie opere, dettando precise idee registiche. Nel comporre l'Otello (1887), doveva avere impressa un'idea fisica del personaggio di Jago. Si appellò al pittore Domenico Morelli, affinché disegnasse un personaggio con la faccia da uomo giusto che «avrebbe ingannato tutti». Giacomo Puccini si affidava ai suoi artisti preferiti che raccomandava a Casa Ricordi, in particolare i toscani Galileo Chini e Umberto Brunelleschi, cooptati per la prima di Turandot che fu messa in scena postuma al Teatro alla Scala nel 1926 (direzione di Arturo Toscanini, scene di Galileo Chini, con i costumi di Caramba).
Ha uno sguardo diacronico sull’evoluzione del gusto e della poetica nello sviluppo scenografico: cos’è cambiato nel corso degli ultimi secoli?
Ogni spettacolo riflette inevitabilmente la propria epoca, si pensi solo ai materiali utilizzati in scena, dai fondali dipinti di ottocentesca memoria si è passati alle scene costruite di Ronconi e al teatro di luce di Bob Wilson.
Cosa pensa della “vexata quaestio” sulla pertinenza o meno della proposizione di scenografie “attualizzate” rispetto ai tempi a cui opere o balletti si riferiscono?
A mio avviso la messa in scena deve essere al servizio dell'opera. Lo pensava Arturo Toscanini, il quale ebbe l'ardimento di affidare il Tristano e Isotta di Wagner (Teatro alla Scala, 1923) a un artista d'avanguardia come Adolphe Appia, il quale, contro la dominante moda di abbellire la scena con effetti naturalistici, asciugava la scena in ritmi solidi e sfumature di luci affinché lo spettatore si fondesse con la musica e i protagonisti della scena; al contrario, per il Nerone di Boito il grande direttore affidò la scena al gusto filologico e ridondante di Ludovico Pogliaghi, perché «o lo si eseguiva come oratorio o bisognava per forza farlo così» (Teatro alla Scala, 1924).
È possibile creare un “circolo virtuoso” tra la moda, con i suoi interessi di immagine, e la scenografia teatrale, con le sue esigenze espressive?
Il teatro ha saputo stimolare la vena creativa di diversi artisti, da Yves Saint Laurent ai Missoni, con gli eleganti abbinamenti liberamente tratti dai costumi scozzesi per la Lucia di Lammermoor di Donizetti (1984). In particolare Gianni Versace ha saputo dismettere i panni dello stilista e creare straordinari costumi di fantasia per il teatro di Béjart o al servizio di Bob Wilson (Salome di Strauss, 1987).
Prima di affermarsi nella saggistica, lei è passata dalla “scrittura accademica” al più spigliato linguaggio giornalistico della critica d’arte; oggi la critica d’arte, o meglio, alcuni critici d’arte, dalle pagine dei quotidiani sono passati ai più popolari schermi televisivi, addirittura con apparizioni in talk show: arricchimento, mistificazione o altro?
Tutto dipende dalla qualità del contributo che si porta, e dallo stile con il quale si trasmette.
A quale personaggio della lirica si sente più vicina?
È difficile scegliere, perché le eroine del melodramma hanno quasi tutte un destino sfortunato. Restano incantevoli per ironia, leggerezza, senso pratico e modernità le quattro donne del Falstaff: Alice, Quickly, Meg, Nannetta.
Ha germinato una ricca e variegata produzione saggistica: ha in mente nuove attività editoriali o altri progetti per il futuro?
Sto studiando il profilo di una straordinaria e poco nota artista, Titina Rota, protagonista del costume tra gli anni Trenta e Quaranta. Per il regista austriaco Max Reinhardt ha firmato gli storici allestimenti per Sogno di una notte di mezza estate (Firenze, Giardino dei Boboli, 1933), Il mercante di Venezia (Venezia, San Trovaso, 1934). Ha realizzato i costumi per la diva del cinema Isa Miranda e l'emergente Vittorio De Sica. Le sue vedute pittoriche di Capri e Venezia incantarono Gabriele D'Annunzio.
Può dipingere con le parole un’emozione scaturita dalla sua professione o da un incontro speciale?
L'emozione di dare giustizia alle memorie dimenticate, a partire dal geniale scenografo Piero Zuffi, morto suicida nel 2006. I suoi spettacoli si modellano su audaci scorci architettonici; per Luchino Visconti aveva disegnato lo spettacolo del suo debutto alla Scala con La Vestale di Spontini, protagonista Maria Callas (1954). Sono stata contenta di aver dedicato un libro a un artista così grande e completamente dimenticato. Nell'occasione dell'uscita del libro su Alessandro Sanquirico (1777–1849) è stata data degna sepoltura allo scenografo degli Asburgo, i cui resti erano stati deposti in un anonimo ossario e che ora riposa tra i Cittadini Benemeriti nel Cimitero Monumentale di Milano.
Vittoria Crespi Morbio, donna milanese…
Penso di essere una persona semplice, sensibile al gusto e alla gentilezza, per niente attratta dalla mondanità; una persona che ama il lavoro perché la fortuna l’ha resa libera di poterselo scegliere.
Uscendo da Casa Crespi Morbio, invece di ritornare verso il fermento del centro cittadino, da via dei Giardini si può facilmente raggiungere un’altra ex “verzura”, quella di Brera, l’antica “braida”, come si chiamavano un tempo i prati che avvolgevano questa parte della città. È anche uno degli itinerari preferiti di Vittoria, che sa emotivamente specchiarsi nella classica bellezza del chiostro della Biblioteca Braidense per poi, con concretezza lombarda, salirne i magici scaloni e tuffarsi nelle sue ricerche, preziosa vestale-conservatrice delle bellezze di una Milano che stupisce.