La vita contemporanea, si sa, è una vita frenetica fatta di molteplici impegni e interessi che occupano tutti i nostri giorni, le nostre settimane, i nostri mesi, i nostri anni. E in questo frenetico susseguirsi di impegni che costantemente programmiamo, spostiamo, annulliamo, riprogrammiamo… diventa sempre più difficile trovare un punto fermo, trovare un po’ di tempo per noi stessi, per riflettere su quello che facciamo così come su quello che siamo o che siamo stati o che saremo. Abbiamo dimenticato il piacere della semplicità, della condivisione, della pazienza nel fare le cose e nel saper attendere che queste maturino portando i loro frutti. Sabrina Mezzaqui, una degli artisti italiani più conosciuti e apprezzati a livello internazionale, utilizza semplici materiali come carta, stoffa, fili e perline e semplici pratiche manuali riconducibili alla sfera domestica come cucire, ricamare, intrecciare, ricopiare, ecc. per creare straordinarie opere di grande impatto estetico ed emotivo ma anche ricche di profondi significati. Ne ho parlato con Sabrina Mezzaqui in occasione del finissage della mostra La saggezza della neve presso gli spazi della Galleria Continua a San Gimignano ed è stato un momento molto interessante soprattutto per gli spunti e le riflessioni che l’artista fa a proposito della crisi culturale occidentale.
Il mantello della Regina delle Nevi è il titolo dell’opera presentata in occasione di questa mostra. Un mantello composto da centinaia di fiorellini di carta bianca. Come nasce questa tua opera e come si inserisce nel tuo percorso di ricerca artistica?
L’idea del lavoro è nata dalla lettura della fiaba di Andersen La Regina della neve. Leggendo la fiaba ero rimasta molto colpita dall’immagine di questa strana fata: molto bella ma decisamente non buona. La fiaba è un racconto molto complesso, si tratta di sette storie in un’unica narrazione. Tutti i personaggi sono di sesso femminile tranne uno: il bambino rapito dalla Regina della neve. Si tratta di figure archetipiche del femminile: c’è la bambina buona che cerca e salva il bambino rapito e che viene aiutata da altri personaggi femminili. Ho fatto leggere la fiaba alle amiche del tavolo di lavoro di Marzabotto e una di loro, Debora Domenichelli, mi ha aiutata nel progetto del mantello della Regina delle nevi, che è fatto di tanti piccoli fiori di carta, perline e filo metallico. Si è trattato di un lavoro molto lungo e articolato che ha visto coinvolte una decina di persone per circa un anno. Il lavoro è stato poi terminato in galleria con tutto il gruppo. È stato un esperimento e un momento molto bello.
Non avevi mai pensato o realizzato una fase performativa del tuo lavoro?
Non so se è corretto parlare di performance, di fatto non c’è una regia, un copione, ecc. L’intenzione invece è quella di rendere pubblica una fase del lavoro che normalmente pubblica non è, di rendere pubblico un momento intimo, confidenziale. È stato quindi un esperimento che in quest’occasione, poiché non si trattava di un'inaugurazione ufficiale, ha funzionato molto bene. Eravamo a lavorare in una stanza dedicata e i visitatori sono arrivati a piccoli gruppi distribuiti su tutta la giornata. Non ci siamo dati delle regole. Ci sono state persone che hanno chiesto se potevano sedersi a lavorare con noi e poiché non c’era motivo per dire di no, li abbiamo accolti ed è stato molto bello.
C’è un rapporto molto stretto tra la tua pratica artistica e il mondo letterario come testimoniato da una interessantissima mostra allestita lo scorso anno presso la Galleria Passaggi arte contemporanea a Pisa. A tale proposito Silvana Vassallo ha scritto “la bellezza dialoga con la densità dei contenuti poetici e filosofici e la gestualità lenta inscritta nella pratica del ricamo si fa metafora di una lettura attenta e meditata dei testi, che ne ripercorre il significato parola dopo parola, frase dopo frase”. Qual è il tuo rapporto con la letteratura e qual è il rapporto tra la tua pratica artistica e la letteratura?
In realtà questa è una domanda complessa alla quale è difficile rispondere con poche battute. Dalla lettura di romanzi, racconti, saggi escono immagini che vengono realizzate con le righe, le pagine o le parole del libro stesso.
Molte tue opere vengono prodotte con la collaborazione dei partecipanti al cosiddetto “tavolo di lavoro di Marzabotto”. Puoi raccontarci come nasce questo gruppo e come si sviluppa il lavoro?
Si tratta di una modalità che inizialmente è nata per rispondere a delle urgenze di consegna di opere che dovevano essere finite per una certa data e che soprattutto in passato mi capitava di rendermi conto che non sarei riuscita a terminare da sola per tempo. Nel tempo sono stata aiutata da varie persone. A volte si trattava di persone con competenze specifiche come saper disegnare, tagliare, cucire, ricamare, ecc. Altre volte si trattava di una semplice paziente manovalanza. Piano piano alcune di queste persone che sporadicamente mi aiutavano hanno iniziato a frequentare il mio lavoro più assiduamente. Capivo che piaceva e che non era solo un mio bisogno. In questa modalità evidentemente trovavano qualcosa per loro e così si è formato un gruppo. Alcune persone già le conoscevo, anche dall’infanzia; altre sono arrivate per passa-parola. È un luogo di incontro, ci sono persone che si sono conosciute lì, al tavolo. Negli ultimi due o tre anni questa modalità si è consolidata in quanto, sia per me che per gli altri partecipanti al gruppo, è un valore aggiunto all’opera. La realizzazione dell’opera diventa un’esperienza collettiva. L’opera conclusa è un oggetto con una sua forza, un’immagine che ha un valore in sé. Ma quando c’è stata una modalità di realizzazione che ha coinvolto più persone, l’opera si impreziosisce di umanità.
Le tue opere sono solo realizzate in condivisione oppure c’è anche una condivisione di progetto?
È la realizzazione che è condivisa. Non è così facile condividere un progetto. A Parma c’è stato un altro tavolo sperimentale, si trattava di sconosciuti, e all’inizio i primi incontri sono stati di discussione collettiva di un progetto. Però mi sono resa conto che, sebbene non sia impossibile lavorare insieme anche in fase progettuale, è comunque necessario molto tempo, oppure bisogna essere un gruppo da tempo per cui c’è fiducia, competenze riconosciute, ecc… Spesso mi trovo a lavorare con persone estranee al mondo dell’arte e al suo linguaggio e questo mi piace molto. La progettazione condivisa è molto difficile. A Marzabotto con queste dieci persone stiamo provando a condividere anche la progettualità, così diventa più difficile scindere nettamente i due ruoli. Ho raccolto molte sollecitazioni che provenivano dal gruppo. Probabilmente per lavorare insieme bisogna condividere delle esperienze, bisogna avere un terreno comune di esperienze e quindi di idee. In questo modo ci si educa insieme a un gusto comune. Mi piacerebbe anche continuare a coltivare l’altro aspetto più individuale e solitario del mio lavoro perché apre ulteriori possibilità. Il lavoro di gruppo apre possibilità di condivisione, di discussione e anche di allegria. La ricerca di tipo individuale invece induce a piani diversi, di profondità e di mistero. Vorrei riuscire a mantenere attive queste due modalità, anche perché credo che l’una possa arricchire l’altra.
C’è quindi una contaminazione arte/vita come spesso è successo o succede nelle pratiche di molti artisti. Contaminazione insieme a partecipazione e condivisione sono alcuni dei temi più usati e spesso abusati dell’arte, quasi una moda. Cosa significano per te questi concetti?
Credo che tu abbia colto questo aspetto solo dal punto di vista più superficiale. Questo fatto, che in realtà esiste già da un po’, di parlare rispetto all’arte di partecipazione, condivisione, relazione secondo me non è una moda ma un bisogno culturale. La nostra cultura occidentale è in un periodo di crisi, di decadenza. La crisi economica è solo l’aspetto più lampante. Il problema di questa crisi così devastante è che l’unico valore indiscutibilmente condiviso è il denaro. Quindi lo sforzo di riaprire delle modalità di tipo partecipativo è tentare una risposta a questa crisi culturale. La nostra civiltà si basa su questa sottolineatura ipertrofica dell’individuo. Pensa per esempio al mito della figura dell’artista. In realtà i valori umani per eccellenza sono altri. Le grandi scoperte o conquiste, il miglioramento della qualità della vita ecc… non sono frutto solo della competizione ma soprattutto della condivisione e della collaborazione. Questo perenne incitamento dei TG e dell’informazione ad essere più competitivi ci sta portando più velocemente verso la fine. Molti artisti invece stanno cercando di recuperare l’altra facoltà, quella vitale, quella che forse ci porterà fuori da questa crisi. Mi auguro quindi che non si tratti semplicemente di una moda ma di un bisogno esistenziale e culturale. La crisi così come ne parliamo è una crisi che caratterizza il livello “basso” della società perché chi amministra, chi ha potere non è in crisi. Questo è un momento difficilissimo ma anche di sfida. La cosa interessante è che “in basso”, nelle nostre vite normali un sacco di persone stanno prendendo in mano delle cose che avevano totalmente delegato. Pensa per esempio alle liste civiche: la politica che torna ad essere presa in mano dalla gente. Oppure le produzioni biologiche locali. Ecco queste cose che a livello macroeconomico non spostano una virgola, a livello micro indicano una maggiore consapevolezza e questo è davvero molto interessante. Si aprono così altre possibilità. Magari anche in altri posti lontani nel mondo ci sono energie, fermenti culturali che noi non conosciamo e che invece possono risultare di fondamentale importanza.
Cambiamo decisamente argomento e parliamo di decorazione. Una delle prime cose che si notano quando si viene a contatto con una tua opera è questa marcata artigianalità ed estetica, sebbene poi a uno sguardo più approfondito è possibile individuare ulteriori livelli di analisi. La qualifica di “artigiano” è sempre stata un po’ stretta all’artista che con il Rinascimento riesce a liberarsi da questa etichetta per essere accettato a tutti gli effetti come “intellettuale”. Qual è il tuo rapporto con l’artigianalità e che significato ha nella tua pratica artistica?
Una caratteristica della nostra cultura è un approccio duale alla realtà: bianco o nero, artista o artigiano, valore economico o culturale, sapere scientifico o umanistico, ecc… Questa frattura ha funzionato dal 1400/1500 fino al secolo scorso creando un certo tipo di scienza, di tecnologia e una visione del mondo. Dobbiamo ricucire questa frattura. Allarghiamo la domanda anche all’aspetto femminile del mio lavoro, come mi viene chiesto spesso. È un po’ la stessa cosa. L’umanità è fatta di almeno due generi e fino ad ora uno è stato predominante rispetto all’altro. Il discorso tra maschile e femminile potrebbe essere anche quello tra l’Occidente e il resto del mondo. Ritornando alla distinzione tra artigiano e artista, all’artista si dovrebbe aprire un ambito di libertà anche a livello di pensiero che invece non è richiesto all’artigiano responsabile di una competenza manuale e tecnica molto specifica tesa a produrre qualcosa di perfetto. Dobbiamo rimettere insieme tutti gli aspetti che abbiamo separato specializzandoli e specializzandoci. Pensa solo alla medicina. Abbiamo perso la visione d’insieme. Forse nel mio lavoro c’è un piccolo tentativo per tenere insieme questi diversi aspetti, artistico e artigianale, anche perché sono sempre stati insieme. Perché scegliere tra bianco e nero? Abbiamo un controllo della materia, della situazione perché è una visione semplificata della vita, parziale, limitata. Noi siamo diventati troppo determinati a tracciare un confine. Il nostro cervello è composto da due emisferi quindi è logico che ragioniamo così, però ricordiamoci che questa non è la realtà ma il nostro modo di guardare la realtà. Ritornando alla tua domanda, il confine tra artista e artigiano, diciamo che io sono affascinata dal lasciare il confine aperto. Non posso scegliere. Io sto sia di qua che di là, cioè tutti e due insieme, reciprocamente.