Fra le opere dello spiritosissimo Mark Twain c’è Gli innocenti all’estero (The Innocents abroad, 1869). Per chi non avesse letto il libro: gli innocenti sono turisti statunitensi sopraffatti dall’interminabile sfilza delle vestigia artistiche e culturali europee. Stremati dalle visite giubilano alla notizia della morte di Michelangelo Buonarroti, sollevati dalla scomparsa del maestro. Per ragioni opposte anche gli europei sono innocenti alle prese con alcuni aspetti degli States, quegli aspetti definibili americanate.

Las Vegas
Las Vegas, detta Vegas, è un luogo dove per cavarsela non basta il senso dell’umorismo. Si ride, certo, tanto l’assurdità è inimmaginabile nonostante i film e i telefilm visti, ma interiormente si piange perché l’insieme è davvero molto brutto. Gioco d’azzardo, alcolici liberi, sesso sul crinale della prostituzione (ufficialmente vietata nello stato), la città del Nevada, che fu un importante centro carovaniero sulla via della California, è conosciuta con il nome di Sin city, città del peccato, anche se l’ufficio del turismo, in un’America che resta puritana, preferisce propagandarla come The Entertainment Capital of the World (la capitale mondiale del divertimento).

Per quanto riguarda il primo soprannome verrebbe da dire che, lasciando ad altri i giudizi morali, etici, insomma i giudizi “alti”, l’unico peccato che si nota è quello del cattivo gusto. Quanto al secondo appellativo sfugge il perché sia divertente imbambolarsi per ore, da soli, davanti a una slot-machine che inesorabilmente ti spennerà o trascinarsi lungo The Strip, la strada costellata di alberghi e casinò, per passeggiare in una finta Venezia, in una finta Roma imperiale, in un finto antico Egitto, in una finta Parigi e, perfino, in una finta New York. Anche in questo caso la critica non è ideologica: la trovata di riprodurre nel nulla del deserto del Mojave alcuni fra i massimi capolavori della civiltà e farli fruttare non è in fondo così male, anche se un europeo non potrà mai accettarla esteticamente. Il problema infatti è che questi edifici sono veramente spaventosi, ricordano in peggio la grossolanità di tratto degli autodidatti della domenica.

Le fontane un po’ Trevi un po’ piazza Navona sfoggiano presunte divinità dalle gambone tozze e la Firenze rinascimentale di Botticelli & company fa capolino sia a Roma che a Venezia dove si arriva attraversando un fasullo Ponte di Rialto con tapis roulant. Bandiere a stelle e strisce sventolano sui celesti veneti e accanto alla Tour Eiffel.

Le cappelle matrimoniali sembrano cappelle mortuarie. Sarà perché Las Vegas è la tomba della libertà: tutto si può fare, compreso sposarsi vestiti da cavalieri del Sacro Graal e Ginevra o da faraone e Cleopatra, e subito divorziare, ma in realtà niente si può fare se si parla di stile e di autonomia di pensiero.

Davvero brutto. Talmente brutto che vale la pena di andarlo a vedere. Una volta nella vita.

The Death Valley
Quando si scende dall’auto e si entra in un general store per procacciarsi il cibo si ha sempre l’impressione di smontare da cavallo e di spingere le porte di un saloon. Il Far West non è cambiato, e per fortuna. Come il Grand Canyon e la Monument Valley, prediletta da John Ford e John Wayne, The Death Valley è uno dei luoghi più esaltanti del mondo dove l’immensità e la bellezza innalzano il viaggiatore che la percorre. In media il posto più caldo della terra, d’estate è proibitivo, non stupisce che si chiami valle della morte e guai allo sprovveduto che vaghi senza scorte di acqua.

Dal deserto bianco di sale (Devil’s course), alle dune vellutate, dalle rocce viola ametista e verde giada (Artist’s Palette) ai monoliti alla Kubrick piantati nel nulla, agli strapiombi dedicati ai precipizi infernali di Dante, la Death Valley suggerisce davvero l’esistenza dell’infinito.

Fra i farabutti che la bazzicarono è passato alla storia Scotty, un truffatore coi fiocchi che convinse un miliardario di Chicago a comprare una porzione vastissima di territorio sterile facendogli credere che fosse pieno di miniere d’oro. La visita allo Scotty’s Castle, in realtà né castello né di Scotty, è istruttiva circa la difficile relazione fra gli americani extra-metropoli e la cultura. Bisogna tuttavia sapere che: a) per qualche ragione inspiegabile Scottie viene venerato come una grand’uomo; b) che prima di entrare nella costruzione, peraltro graziosa, si viene diffidati dal toccare alcunché (che avvisi dovrebbero esserci allora sui portoni degli Uffizi o dell’Hermitage?); c) che la visita dura più di un’ora invece dei dieci minuti che richiederebbe e che include il racconto dettagliato delle malattie di Scottie.

Hollywood
Facce equivoche su Hollywood Boulevard e Sunset Boulevard. Sembra che nelle strade del posto più cinematografico del mondo alberghino attori sconosciuti protagonisti di pellicole sulla malavita. Bisogna un po’ guardarsi le spalle, passeggiando nella Mecca del Cinema. Certo le grandi lettere bianche e sbilenche sulla collina, accarezzate dalle fronde delle palme, le lettere di quella vecchia scritta Hollywood, procurano al cinefilo un brivido di emozione.

Come la Walk of Fame, che va percorsa a occhi bassi, di stella in stella, senza guardare lo squallore circostante: i negozi di souvenir, i sex-shop, i venditori di tutto men che di sogni.

La passeggiata con i nomi, in ordine non cronologico, degli artisti che trionfarono e trionfano sugli schermi e i teatri di tutto il mondo fa rivedere quasi un unico, interminabile film che si proietta dentro di noi: tornano in mente le scene madri, centinaia di battute di culto, gli happy end.

Di star in star, in un crescendo. Ancora storditi da un “incontro”con Gary Cooper ci s’imbatte in Anna Magnani, nel Piccolo Cesare Edward G. Robinson, in Marilyn, in Gene Tierney, in Bette Davis, in Grace Kelly, in Jean Harlow, in Johnny Depp, in Vivien Leigh, in Ingrid Bergman, in Kirk Douglas, in sir Elton John, in Meryl Streep, in Audrey Hepburn, in Greta Garbo, nei Beatles. S’incrociano tutti.

E intorno c’è Los Angeles, la metropoli senza un centro, composta di enormi periferie collegate da autostrade. Per attraversarla con il traffico ci vuole un tempo incalcolabile: raggiungere San Diego che dista poco più di un centinaio di miglia può costare cinque ore di viaggio.

San Diego, Coronado
San Diego è una cittadina abbastanza inutile, se non dal punto di vista militare data la felicissima conformazione della costa, che passa per un paradiso terrestre. L’unica comodità è che l’aeroporto è così vicino da andarci a piedi il che può risultare utile in caso di impazienza. Da evitare The old town dove c’è persino il museo della stalla che, francamente, è frutto di un eccesso di zelo “culturale” del quale l’europeo innocente non è in grado di cogliere la portata.

Molto consigliati i due estremi opposti della città: la penisola di Coronado e il confine con il Messico. Coronado ovvero la California bon-ton al suo massimo: case di rango, vegetazione profumata e lussureggiante. Atmosfera suggestiva allo storico albergo del Coronado, meglio conosciuto come the Del.

Al confine con il Messico si arriva con il tram e la frontiera si può traversare a piedi. Le facce cambiano e anche i prodotti di bellezza. Qualcuno ritiene di offendere i messicani vendendo al duty free di confine l’eau de toilette Animale (da uomo e da donna) con lo slogan , più selvaggio che mai. Addio allo sbandierato politically correct. E volti da faccendieri, lieti di speculare sull’altrui sciagura, ammiccano dai cartelloni e promettono ai poveracci il disbrigo di spinose pratiche d’immigrazione.

All’uscita dagli Stati Uniti non ci sono code, all’entrata negli Stati Uniti ci sono code lunghe. Molto lunghe.