Inizialmente è stato il suo corpo a farsi parola. Poi ha cominciato a fotografare altre donne. E il brandello di pelle scoperta – si è trattato di un piede, di una mano o di un intero viso – è divenuto pagina bianca per un fiume di silenzi.
Shirin Neshat, fotografa e videoartista iraniana, ha raccontato della sottomissione femminile al fondamentalismo islamico, attraverso immagini dal grande potenziale comunicativo e dalla straordinaria eleganza estetica. Dalle sure del Corano ai versi ribelli di alcune poetesse, la pelle è diventata un silenzioso dire. Una muta narrazione di obblighi, divieti, censure, come anche del desiderio di liberazione. È nata a Qazvin, nel 1957. La sua era una famiglia agiata, che le ha consentito di ricevere un’educazione notevolmente emancipante rispetto a quella delle sue connazionali. In questo modo, nel 1974, è riuscita a lasciare l’Iran per andare a studiare arte e pittura presso l’Università di Berkeley, in California. Quello che si è portata dentro, però, era un pressante punto di domanda: per quale ragione nel suo paese d’origine le donne non avevano la possibilità di essere se stesse, di esprimersi e realizzarsi? La sua indagine artistica è dunque partita da quel punto di domanda.
Cosa significa essere donna? E quanto spersonalizzante è esserlo in Iran? Quanto può pesare – e schiacciare – il proprio genere, se si nasce in una determinata area del pianeta? Il trasferimento negli Stati Uniti ha occidentalizzato in maniera determinante il suo pensiero, pur senza adombrarne le radici. Parlando di sé, Shirin si è definita divisa tra Oriente e Occidente. Ma proprio questa divisione ha plasmato e reso peculiare la sua poetica. E più che di divisione, si è trattato di arricchimento. Shirin ha saputo portare avanti una ricerca di chiara impronta politica, religiosa e culturale, pur senza schieramenti. Come lei stessa ha affermato: “A me non interessa stabilire chi ha ragione, (…) il lavoro che faccio è una combinazione di che cosa esperisco nella mia storia personale”. Il suo spartirsi tra Oriente e Occidente le ha certamente permesso di portare avanti un discorso in cui i due estremi sono sempre stati sapientemente analizzati e intrecciati. Perno di tutta la sua indagine è stato ed è – come dicevamo – il corpo femminile. Il corpo e l’identità violata della donna musulmana. Una donna con molte più catene e ferite culturali, rispetto al suo corrispettivo occidentale. Una donna blindata, chiusa all’ombra di un burqa. E un burqa non è altro che una gabbia, una barriera protettiva che dovrebbe immunizzarla dal rischio di una mercificazione della carne e dell’immagine. Dunque, il corpo femminile nella ricerca di Shirin è pensato ed esposto come “corpo politico”.
Ho già approfondito la condizione delle donne musulmane all’interno di un articolo dedicato a Shamsia Hassani, l’audace street artist di Kabul. In quell’occasione ho raccontato di come ancora oggi il fondamentalismo islamico uccida milioni di donne, se non nel corpo, certamente nello spirito e nella dignità. Donne private dei propri sogni, delle proprie ambizioni, del proprio lavoro, della propria identità. Donne stuprate da mani, da corpi, da divieti inammissibili. Donne asfissiate da un velo. Donne sottratte alla vita. Donne perfino lapidate. Quando Shirin decise di recarsi in California per studiare non immaginava quanto sarebbe stato complicato rientrare nel proprio paese. La rivoluzione del 1979 prima e la guerra tra Iran e Iraq poi, le resero impossibile il rientro sino al 1990. E nel frattempo il volto e sostanza della sua terra erano mutate: la rivoluzione, incitata dal leader Khomeini, aveva trasformato la monarchia in repubblica islamica, fondando una Costituzione ispirata alla legge Coranica, e la guerra del Golfo aveva stremato l’economia del paese a causa dei continui attacchi alle industrie e ai campi petroliferi.
L’impatto fu per lei dirompente. Soprattutto la condizione delle sue coetanee la impressionò. Lei era certamente riuscita a salvarsi. Pensava di continuo a quell’immagine di donna ingabbiata, e per comprenderla decise di vestirne i panni. Nasceva così, nel 1993 la prima serie di fotografie dedicate a questo tema: Women of Allah. In queste fotografie i versi di rivoluzionarie poetesse iraniane – una tra tante la Farrukhzād – e gli stessi testi del sacri, camminano il suo volto, i suoi piedi, le sue mani. Davanti all’obiettivo fotografico, Shirin diventa una donna rabbiosa e sottomessa. Modella di se stessa, utilizza il proprio sguardo per arrivare allo spettatore. Gli elementi essenziali sono tre: il velo nero, una pistola e la parola.
In una delle immagini più note di questa serie, intitolata Speechless – “ senza parole” –, il primo piano del suo viso risulta tagliato a metà sull’asse di simmetria, e dal buio del velo spunta la canna di un’arma. Una pistola che le rasenta il viso e che sembra essere puntata verso l’altro. Ma potrebbe anche trattarsi dell’arma con cui viene tenuta in ostaggio. La chiave di lettura è duplice ed è comunque verosimile. Lo sguardo di Shirin è diretto, afferra lo spettatore. Sul suo volto scorre fittissimo il testo sacro del Corano, trascritto in persiano (la calligrafia persiana non è altro che una versione modificata dell’alfabeto arabo, affermatasi in seguito ala conversione all’Islam da parte della Persia). Gli ideogrammi calligrafici sono sinuosi, precisi, ordinati: riempiono fronte, gote, naso, bocca, zigomi, mento. In silenzio raccontano di donne, di obblighi e di prigioni. Il volto, luogo dell’espressività soggettiva, diventa una pagina anonima colonizzata dal silenzio imperativo della legge. La scrittura è un intervento postumo, realizzato con inchiostro su stampa fotografica in bianco e nero. Shirin è, in quest’opera, una donna devota ad Allah. È una donna costretta alla devozione. È una donna che non ha mai scelto. Dopo il suo volto, volti di altre donne e anche di alcuni uomini si sono prestati a questa rappresentazione visiva della parola silenziata.
Ma non è soltanto con la fotografia che la Neshat si è espressa. Molti sono stati anche i video e i lungometraggi da lei realizzati. Tra questi vanno ricordati Shadow under the web del 1997, Turbulent del 1998 e Soliloquy del 1999, tutti lavori che affrontano tematiche sociopolitiche e culturali come la sottomissione, il terrorismo, la violenza. Turbulent, ad esempio, tratta una delle più assurde e violente leggi iraniane, quella che vieta alle donne di cantare in pubblico. Come l’artista stessa ha spiegato in un’intervista di Francesca Caraffini pubblicata sul numero 14 di Virus, in questo video vi è “un pieno complesso di emozioni represse: affetto, desiderio, sessualità” trasformate in veri e propri tabù. All’interno della stessa intervista, dichiara: “quello che interessa a me è la possibilità di realizzare opere che siano il più possibile poetiche, opere in cui conta molto il fatto di esprimere delle emozioni, nonostante il fatto che toccano argomenti sociali, religiosi e politici”.
Nel 1999, il video Soliloquy non è altro che il ritratto (autoritratto?) di donna musulmana combattuta tra tradizioni d’oriente e contemporaneità occidentale. Il suo riconoscimento più alto giunge nel 2009: è il Leone d’Argento vinto durante il 66° Festival del Cinema di Venezia, con un lungometraggio titolato Donne senza Uomini, in cui quattro donne di Teheran, provenienti da quattro differenti classi sociali, si trovano a vivere il Colpo di Stato del 1953. Ciascuna ha la propria storia, la propria perdita, la propria ferita: Fakhri è stata costretta a sposare un uomo che non ama, Zarin si prostituisce, Munis vorrebbe lottare per i propri ideali politici ma viene isolata da un fratello assolutamente fedele ai principi islamici, e infine Faezeh appare completamente noncurante rispetto a quello che le accade intorno. I loro destini inevitabilmente si intrecciano quando si ritrovano costrette a rifugiarsi in un giardino.
Attualmente Shirin continua a creare muovendosi ancora tra l’Iran e New York. E forse è proprio questo il segreto della sua produttività.