Ci sono dei giorni in cui vado via. Proprio da un'altra parte da dove si trova il mio corpo. Mi rinchiudo dentro il letto e non ci sono più. Per nessuno. Non ci sono più per la bicicletta, per la Chiusa di S. Marco, per lo Studio e i lavori che lì realizzo. Non ci sono più amiche, amici, eventi. Rimangono figure lontane le amate figlie e quel senso di disarmante tenerezza che provo per le nipoti e i nipoti. Il tempo di abbandono totale si annuncia in certe mattine quando il passaggio dalla posizione orizzontale a quella verticale si fa sempre più faticoso.
Non ci sono più perché momentaneamente non sono in grado di affrontare neanche la più piccola forma di emozione, sia questa negativa o positiva. La mia fuga nel nulla, nel vuoto più profondo mi è necessaria per riuscire ad affrontare di nuovo gli eventi quotidiani. Che sono tanti e tra di loro ingarbugliati. Partono dall'interno della mia famiglia e si dilatano nel groviglio di lutti immani che percorrono senza tregua questa terra. C'è sul corpo del mondo una piaga che divora tutto. Sono mazzate che colpiscono la mia mente e feriscono il mio cuore al punto che non mi ritrovo più. Non mi oriento più nel labirinto delle cose che accadono. Ecco, non riesco a fare coincidere il mondo che ci circonda con la realtà.
Dagli attentati a Parigi da parte di terroristi jihadisti ai 200 mila morti per la guerra scoppiata in Libia, il mondo si è fatto troppo complicato: è una polveriera. Per una sorta di resurrezione mi è necessario il distacco. Senza questo abbandono, non riuscirei più a gestire neanche il dolore della puntura di uno spillo. Così sprofondo in questo letto e in posizione fetale rientro nel grembo materno. Ritorno nel luogo protetto e il ricordo di profondità marine fa di me una figura dell'acqua che vede ogni cosa attraverso una cortina di mare.
La Grande Storia, 1941
Ieri le SS. Oggi l'IS. Fino a quando gli uomini non vedranno l'orrore delle loro azioni e non comprenderanno che per salvare l'umanità è necessario unire, comprendere, non dividere e separare? È arrivato il momento, ma siamo già in un ritardo incolmabile, di concentrare lo sguardo verso quella storia mai studiata che è la voce femminile (scritta e parlata) e che si caratterizza per un tono che è fondamentalmente quello dell'interrogazione. La voce femminile non accetta il possesso che sui fatti rivendicano gli uomini, quel possesso dal quale si finisce per essere posseduti, perché avverte nel possesso lo sbarramento dell'intenzione, della volontà, del significato.
La voce femminile scopre la forma modesta e incerta che si cela dietro l'armatura verbale del linguaggio e delle azioni maschili, che hanno paura e al tempo stesso vogliono fare paura e sono la causa di tragedie immani che si continuano a perpetrare nonostante le giornate della memoria e altre iniziative simili, che sono ben poca cosa di fronte alla fiorente industria della produzione di armi e di macchine da guerra sempre più raffinate; che sono ben poca cosa di fronte ai signori del terrorismo che usano ignoranza e povertà per dividere, separare e fondare i propri califfati all'ombra dei pozzi di petrolio. A questa visione paranoide che assolve al bisogno di affermazione e di possesso e che spinge gli uomini a commettere tutti gli orrori così ben narrati nella loro grande storia, la voce femminile si distende in una lunga, interminabile interrogazione che va alle spalle degli uomini, dove essi non riescono a vedere perché naturalmente non vogliono vedere.
Il mondo evocato dalla voce femminile è il mondo del tempo e della memoria ed è disarmante richiamo dell'eticità che si contrappone ai sistemi armati del discorso maschile. Ecco, ora, donne e uomini di buona volontà dovrebbero compiere un piccolo movimento e seguire la giovane schiava che invita Pentesilea - e tutte e tutti noi - ad andare con lei nelle caverne presso lo Scamandro e mettere in atto le sue parole: "Tra uccidere e morire c'è una terza via, vivere".
Oggi è la Giornata della Memoria e sì, noi ricordiamo mentre siamo circondate e circondati da altre guerre, da terrorismi e da altri genocidi, da altre stragi con vecchi e nuovi orrori, perché questa è la ragione di tali eventi: distruggere tutto quello che incontrano nella loro strada, donne, uomini, bambini, città, paesi ridotti in cenere con un particolare accanimento nei confronti delle opere d'arte. E tutto ciò in nome della razza o della religione o del diverso a seconda di dove conduce il potere. Conquistare, vincere, perdere. Un po' di pace, mai?
In nome della razza, 1941
"Cara moglie mia, questa settimana ne abbiamo uccisi tremilasettecentosettantuno. Quando torno ne avrò di cose da raccontarti...".
In nome della razza esce fumo grigio dai forni crematori di Auschwitz, Dachau, Bergen Belsen e nelle villette vicine, la vita quotidiana scorre tranquilla. A volte il vento porta con sé odori nauseanti, ma nessuno sente nulla e le SS all'interno delle loro case sono padri affettuosi; in nome della razza la schizofrenia diventa regola di vita. In nome della razza esperimenti scientifici e capannoni pieni di oggetti appartenuti ai prigionieri e sacchi, a centinaia, che contengono trecce di capelli. In nome della razza, quando arrivano le armate russe, poi quelle inglesi trovano prigionieri vivi erranti in mezzo a cataste di corpi umani impilati come manichini. E ceneri, ceneri, ceneri.
I sopravvissuti non hanno più nulla di umano. Alcuni soldati ricevono l'ordine di filmare queste immagini, per non dimenticare perché ogni tanto qualcuno sostiene che i lager non sono mai esistiti. All'inizio fu la caccia al diverso: sequestrare, umiliare, segregare. Ma le espulsioni non bastano più. Così si consuma la Shoah di un popolo. Quello ebreo. Con loro sono morti zingari, omosessuali, handicappati, Testimoni di Geova, malati mentali e antinazisti tedeschi e di altre nazioni europee. Gli Ebrei in questo scenario di morte e di distruzione sono i principali destinatari di un odio eterno ed estremo.
Per la prima volta nella "Grande Storia" un perfetto sistema amministrativo, burocratico e industriale è stato usato per sterminare un popolo in modo pianificato, organizzato scientificamente. Queste sono le ragioni che fanno dello sterminio di 6 milioni di Ebrei, non l'annientamento di un popolo, ma l'annientamento dell'intera umanità. Questi i fatti che tutte e tutti noi sappiamo. Ora per capire devo scendere agli inferi. "Cara moglie mia, questa settimana ne abbiamo uccisi tremilasettecentosettantuno...". E in questi giorni mi sono fissata su quell'uno a tal punto che quell'uno sono diventata io.
Nel 1941 sono una bambina ebrea. La maestra dice ai miei genitori che sia io che le mie sorelle non possiamo più frequentare la scuola: sono le nuove leggi razziali. La mia è una famiglia agiata, abbiamo molti amici e un'intensa vita sociale. Piano piano tutto si dissolve. Giorno dopo giorno non ci sono più amici, per mio babbo non c'è più lavoro. Vedo scendere in me e nei miei famigliari una disperazione cupa. Il silenzio avvolge le nostre vite senza più punti di riferimento. Arrivano all'alba, io ho paura e piango e così per consolarmi la mamma mi infila il cappottino rosso, quello che preferisco e che tengo nelle sedia vicino al letto così appena mi sveglio lo vedo subito. Aspettano che i miei genitori facciano le valigie, ci portano alla stazione e fanno comprare a mio babbo i biglietti. Sono letteralmente aggrappata a mia mamma. Mio babbo non fa altro che tranquillizzarci. "Andiamo a vivere per un poco in campagna, poi ritorniamo". Io credo ciecamente a ciò che mi dice, l'importante è rimanere tutti insieme. Ecco, non l'ho più visto. Non ho più visto le mie due sorelle. Sono rimasta aggrappata a mia mamma fino alle docce.
Lei la tremilasettecentosettantesima e io la tremilasettecentosettantunesima vittima. Delle mie sorelle sono rimaste due lunghe trecce: una di grano maturo e l'altra luminosa come una notte di luna. Prima di morire abbiamo conosciuto gli infiniti territori del dolore che come nere montagne tolgono ogni luce. Dei miei desideri, dei miei giochi, dei miei affetti cosa è rimasto? Ceneri. Allora qual è la ragione che spinge un uomo a scrivere alla sua cara moglie dandole come prima notizia il numero delle vittime uccise in una settimana? Non dice migliaia, ne trascrive il numero esatto. Migliaia di vittime, nel suo orrore non ha identità, se invece il numero è esatto le vittime io le vedo e le sento. Tutte. In quella lettera è assente un qualsiasi processo mentale. Non c'è il pensiero, non c'è la capacità di vedere il dolore, la disperazione, l'annientamento dell'altro e dell'altra. Perché non ha visto in me aggrappata a mia madre, sua figlia? Perché non ha visto nella morte di dolore di mio padre per non avere saputo o potuto proteggere la sua famiglia, lui stesso? Come faccio a fargli capire che bambine e bambini comprendono le cose che accadono molto meglio e molto più in profondità di un adulto; soprattutto se l'adulto è simile a lui? Soprattutto se esegue gli ordini senza chiedersi: Perché?
Hannah Arendt
Nella sua visione del processo a Eichmann che divenne poi il libro La banalità del male la Arendt sostiene che il male può non essere radicale. Anzi è proprio nell'assenza di radici, di memoria, nell'incapacità di produrre pensieri autonomi che persone spesso banali si trasformano negli agenti del male assoluto. È questa stessa banalità a rendere, come è accaduto nella Germania nazista, un popolo complice dei più terribili misfatti della storia e a far sentire l'individuo non responsabile dei propri crimini. Ciò accade più frequentemente nel regime totalitario che tende ad allontanare l'uomo dalla responsabilità del reale rendendolo un piccolo ingranaggio della macchina che tutto distrugge mentre tutto vuole conquistare. I nazisti, durante il processo di Norimberga si difesero dicendo che le loro erano azioni compiute per ordine superiore. Loro ubbidivano alla legge. Questa difesa fu respinta perché alle azioni manifestatamente criminali non si deve obbedire. Ma in un regime l'essere umano viene declassato. Da essere pensante diventa un piccolo ingranaggio che non sa più distinguere il crimine perché quotidianamente vive nel crimine istituzionalizzato.
La cosa più bella
Quale la cosa più bella
sopra la terra bruna? Uno dice una torma
di cavalieri, uno di fanti, uno di navi.
Io, ciò che s'ama.
Farlo capire a tutti è così semplice!
Ecco: la donna più bella del mondo,
Elena, abbandonò
Il marito, era un prode, e fuggì
verso troia, per mare.
E non ebbe un pensiero per sua figlia,
per i cari parenti: la travolse
Cipride nella brama.
Anche in me d'Anattoria
ora desta memoria, ch'è lontana.
Di lei l'amato incedere, il barbaglio
del viso chiaro vorrei scorgere,
più che i carri dei Lidi e le armi
grevi dei fanti.
Saffo (trad. Pontani)