L’archivio mi ha restituito una vecchia pagina di giornale nella quale campeggiava un sottotitolo: L’unghia del suo alluce era grande come un cortile. La nota, e quasi morbosa, curiosità che mi porto sin dalla tenera età mi ha costretto a rileggerla, quella pagina, un quarto di secolo dopo la sua pubblicazione [1]: quelle colonne mi hanno condotto a meditare su come il dittatore, in ogni tempo, consolidato il potere, tenda a perpetuare, enfatizzandolo per la storia, il ricordo del suo passaggio. Soprattutto quando il personaggio acquista la sicurezza del consolidamento del suo piedistallo, estrinseca platealmente la molla psicopatologica che è al fondo del suo ego. La manifestazione più eclatante diventa allora la ricerca del colosso [2].
Nulla di strano, ciò accade dalla più inoltrata antichità. Uno dei primi monumenti, tipici di questa psicopatologia infatti lo ritroviamo nei libri sacri di oltre due millenni a. C: la cosiddetta torre di Babele [3]. Questa costruzione, citata più volte nella Bibbia, è riconducibile dal punto di vista archeologico alla grande Ziqqurat. Fu un edificio adibito a tempio, caratteristico del periodo mesopotamico, la cui costruzione iniziò nel XII secolo a. C. a Babilonia sotto l'imperatore Nabucodonosor I, che condusse i suoi possedimenti al loro massimo splendore. Di questo monumento le esegesi ebraica e cristiana danno, della narrazione biblica, una loro interpretazione religiosa. Come monumento della civiltà babilonese però, in una visione archeologica, a me sembra che andrebbe interpretato come il colosso voluto dal grande imperatore Nabucodonosor I: lo stesso che è ricordato pure per altre imprese colossali. I giardini pensili della sua Babilonia sono nella storia come una delle sette meraviglie del mondo.
Il viaggio nella psicopatologia del “dittatore” ha sempre interessato sia la medicina che la narrativa. Letizia Mariani [4], appassionata di giornalismo, storia, lingue straniere, letteratura, filosofia, cinema e moda, descrive i “dittatori” come:
Abili. Persuasivi. Carismatici. Spregiudicati. Egoisti. Si sentono i “messia” di una missione superiore, usata come mezzo formidabile di potere. Sono capaci di usare al meglio le proprie competenze e le proprie doti straordinarie, pur di basare la vita sulla sfida e sulla ricerca di situazioni in cui il successo arriva “quasi naturalmente”. Ma sono anche deboli, fragili, diffidenti e incapaci di trionfare nei contesti in cui sanno di perdere… E la psicopatologia, branca della psicologia che esamina e studia i disturbi delle funzioni psichiche, ha messo a fuoco molto bene questi tre “casi” [Robespierre, Stalin, Hitler]. Cosa hanno in comune? Tutti e tre presentano tratti narcisistici, antisociali e paranoici che si connotano nella loro psicopatologia e si manifestano fin dalla loro infanzia e adolescenza. Sono personaggi drammatici, la cui biografia sembra macchiata di un vero e proprio “disturbo di personalità” molto cristallino ed evidente, che si riconosce soprattutto in età adulta, legato ad un’infanzia infelice, dura e pesante.
In medicina poi è meglio non sfogliare i testi di psicologi e psichiatri di oggi e di ieri che ne hanno scritto; nel 1874, l’inquadramento nosografico di Clodomiro Bonfigli avrebbe inserito questa patologia nel calderone delle Frenastenie: “Affezioni del cervello o del sistema nervoso, nate nella vita embrionale e nei primi anni della vita extra uterina [5]”; nel 1939 ne ha parlato pure Carl Gustav Jung e più recentemente, tanto per fare qualche nome, Lorna Smith Benjamin, Fred Coolidge. Ciascuno trova che i dittatori “hanno in comune un’infanzia infelice e traumatica che ha avuto un impatto negativo sulla loro salute mentale; che vivono di angoscia e di sospetto. Il padre è visto come la figura malvagia per antonomasia; manifestano difese maniacali, hanno un “sé” grandioso ed eccessivo e un “io” autosvalutante allo stesso tempo [6]”.
Mentre sono in auge, tutti i dittatori pensano che sia giusto, anzi doveroso, lasciare ai posteri memoria della loro grandezza e delle loro opere, da ciascuno reputate salde e imperiture. Per non andare lontano, uno che si reputò immortale fu Nerone; il suo Colosso fu costruito in bronzo dallo scultore Zenodoro, ed era alto 110 piedi secondo Plinio il vecchio; dalla vicinanza del Colosso, l'anfiteatro Flavio fu soprannominato Colosseo. E che dire dello sfarzo, pur’esso colossale, delle abitazioni private di dittatori moderni, Saddam Hussein, Gheddafi, riscontrato dopo la loro tragica fine? Oppure dei grattacieli che si sfidano, un continente dopo l’altro, nella smaniosa ansia di grandeur dei governanti: il mio grattacielo è più alto del tuo.
Pure Bourghiba fu tentato dalla vanità del colosso: commissionata a un atelier romano, volle una statua degna della sua grandezza. Purtroppo però Habib Bourghiba non si era reso conto della sua età veneranda; infatti, appena messo a riposo per “senilità”, con un colpo di Stato "medico" rimasto unico negli annali del mondo arabo, il generale Ben Ali, subentrato, rifiutò la statua, creando problemi artistici e finanziari ai maestri italiani Ernesto Rossetti e Antonio Cocchioni. Che meraviglia quindi se pure Mussolini sia stato tentato di lasciare il suo colosso a Roma? A Roma certo, come lo aveva avuto Nerone.
Mussolini colossi ne ebbe, fuori dai confini del Lazio. “Negli anni Trenta - si legge - l'idea di colossal è condivisa, qualcosa di fascinoso per tutti, esaltata anche dal cinema: è l'epoca intera a essere attratta dal ‘maestosamente grande’ (anche in democrazia: pensiamo alle faccione dei Presidenti americani scolpite a Mount Rushmore, nel South Dakota) [7]. Ad Antrodoco, “sul monte Giano, ‘resiste’ ancora oggi, la scritta "dux" grazie a un bosco piantato nel ventennio. Un omaggio a Mussolini sul fianco di una montagna, fatto all'epoca del fascio, divenuto ora un monumento da restaurare. La scritta è ben visibile dalla strada statale 4, che collega Rieti alle Marche, e c'è chi si lamenta per questa apologia, temendo che si tratti di un tributo recente” [8]. Niente paura, l'omaggio al duce risale agli anni tra il 1938 e il 1939 e fu fatto con un rimboschimento dalla locale sezione del Corpo forestale dello Stato. Nel comune del reatino quel dux arboreo è ormai parte integrante del paesaggio, tanto che è un bene da preservare. "Non abbiamo alcuna intenzione di far sparire la scritta - spiega l'assessore al turismo di Antrodoco, Clarice Serani, - per noi è un simbolo, non legato al significato del regime, anzi, stiamo provvedendo al restauro [9].
I presupposti psicopatologici per accedere al colosso, quindi, c’erano tutti, soprattutto dopo l’incontro politico con Adolf Hitler. Nei due, Fred Coolidge dell’Università di Colorado Springs rivelò una confluenza di cinque disordini della personalità: «Sono narcisisti, sadici, privi di empatia (antisociali), paranoidi (ipersensibili alle minacce percepite) e schizoidi (emozionalmente freddi)». Carl Gustav Jung invece, quando nel 1939 incontrò Hitler e Mussolini a Berlino, riportò impressioni opposte sui due alleati. Il tedesco non ha mai riso, è sempre stato di malumore. Sembrava asessuato e inumano, animato da un solo proposito: instaurare il mitologico Terzo Reich: a Jung ispirava paura. Mussolini in confronto gli era sembrato «un uomo originale», dotato di «energia e calore».
Il “colosso Littorio”, che avrebbe dovuto eternare la grandeur di Mussolini, doveva essere “una statua alta 87 metri che avrebbe dovuto sorgere a Monte Mario, più o meno dov’è adesso quella del Cristo Re”. Del colosso non ho potuto trovare illustrazioni appena indicative; quelle adoperate per illustrare l’articolo del Quintini, su carta per quotidiani, sono impresentabili. Ma il “fondo Alberto Cartoni” non è andato perduto; fa oggi parte dell’Archivio Fotografico Storico di Umberto Cicconi. È questo “un archivio fotografico riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (D.L. 22) come archivio di interesse storico particolarmente importante. Comprende circa 7 milioni d'immagini originali tra lastre, negativi e diapositive di vari formati che raccontano la storia d'Italia dal 1890 al 2000, offrendo larghe prospettive su Vaticano, fascismo, moda, spettacolo, politica, costume e società, momenti rubati e inediti dei personaggi che hanno fatto la storia dell'Italia del ‘900” [10].
Mi piace qui riportare, vecchio di ventisei anni, parte di quell’articolo del Quintini [11], anche perché fa luce su un gruppo di artisti che, operosi nel ‘ventennio’, con questo e per questo ne hanno sofferto la damnatio memoriae. Il Quintini riporta, a proposito del colosso Littorio, come ‘titoli’ le singole frasi del Navarra [12]:
“… ascensori all’interno, un’autostrada che passava sotto le gambe, la soddisfazione di Mussolini per l’altezza della statua che superava la cupola di San Pietro e per i lineamenti del volto che erano i suoi. Testa così colossale che dal naso si scendeva alle narici, trasformate in due vaste terrazze panoramiche. Il ‘Colosso Littorio’ fu messo in cantiere. Al duce fu portata un giorno da Ricci (presidente dell’Opera Nazionale Balilla) la fotografia dell'unghia del pollice di un piede, fuso in vari pezzi. Era un'unghia grande come un cortile. Il duce si mostrò soddisfatto.
L’artista che lavorò all’opera dal 1936 al 1938 (poi i lavori furono interrotti per mancanza di fondi), era lo scultore perugino Aroldo Bellini [13], autore della statua «Giovinetto in marcia», visibile allo stadio dei Marmi. E appunto, ragazzo di bottega del Bellini, fu Ernesto Rossetti [14].
Questo interessante articolo [15] inoltre apre una pagina su una ‘nota’ da lui già pubblicata, senza indicare la testata (ancora Il Tempo?):
Dopo la pubblicazione della nota è venuto a trovarci in redazione Renzo Cartoni, titolare dello studio fotografico di via Michele di Lando, 54, nipote di Alberto Cartoni, fotografo dell’Opera Nazionale Balilla che seguì i lavori del «Foro Mussolini», oggi «Italico», in cui avrebbe dovuto essere incluso anche il Colosso. Alberto Cartoni a 12 anni era fuggito dal destino di contadino e dalla nativa Piediluco per approdare a Roma, nientemeno nel famosissimo studio fotografico Vasari. Poi, aiutato dalla moglie Ada, aprì uno studio per conto suo in via Nizza, dopo in via Michele di Lando. Per vent’anni è stato il fotografo degli architetti che hanno cambiato il volto di Roma: Piacentini, Moretti, Del Debbio, Perugini, Nervi, Busiri Vici, Spaccarelli, Brasini. Il suo archivio, rimasto miracolosamente inesplorato, è una miniera di costume e di storia [16].
Dei tre artisti sopra citati mi piace ricordare Antonio Cocchioni che ho avuto amico [e pure, per sua fortuna, in poche occasioni ‘paziente’] nel periodo del suo domicilio in agro nomentano. Al tempo mi ero fatto rilasciare la sua nota biografica manoscritta: erano gli anni Settanta e aveva in corso una “personale” [17] segnalata da Pericle Fazzini:
Nel presentare Antonio Cocchioni alla sua prima personale in Puglia, l’artista, mio allievo nella Scuola d’Arte di Roma, era già allora molto impegnato con amore e determinazione. Schivo dal clamore e dalla moda ha sempre operato con serietà nella sua convinzione di continuità tradizionale dell’arte e della cultura, pur se sensibile ai mutamenti della società. Le opere dell’artista rispecchiano conseguentemente il suo pensiero. Padrone di una buona tecnica, rivela una conoscenza vasta che estrinseca nelle molteplici attività che affronta. Nel colore e nel volume, l’essenzialità dell’esecuzione non disgiunta dalla sensibilità propria dell’artista, sono le note di maggior rilievo.
Allievo del Fazzini e di Luigi Bartolini ma fortemente influenzato, sin dagli esordi della sua carriera, da Antonio Martini, Cocchioni era nato a Roma il 19 giugno 1917 [18]. A partire dagli anni ‘30 lavorò come scultore e sceneggiatore. Partecipò alla V, VI e VIII Quadriennale di Roma, alla Biennale di Milano e al concorso per le porte del Duomo di Milano. È autore di diverse opere pubbliche, tra cui il bozzetto per l’eroica anconitana Stamira, una statua in ceramica a grandezza naturale del papa Wojtyla, un busto di Ronald Reagan [19] …. Della sua permanenza in agro nomentano mi rimane il ricordo di un personaggio schivo ma cortese sino alla devozione e gli omaggi di un volume con dedica [20], per il quale ha eseguito per la prima e la quarta di copertina, due opere a bassorilievo [21], e di un dipinto, olio su tela [22].
Note:
[1] Giuseppe Quintini, Nella bottega del colosso, “Il Tempo”, a.XLV, n. 202, 10 agosto 1988, p. 14.
[2] Colosso era una statua ornamentale di dimensioni maggiori dell’ordinario posta come ornato monumentale: Nerone fece collocare la sua statua colossale prossima al teatro di Vespasiano in Roma (Nicolò Tommaseo, Dizionario della lingua italiana, vol. 5, rist. an. 1977, ad vocem).
[3] Dal punto di vista archeologico, si fa corrispondere la biblica Torre di Babele alla gigantesca ziqqurat Etemenanki, costruita nel II millennio avanti Cristo e riparata (rifatta o ampliata ?) varie volte fino all'epoca di Alessandro Magno. La sua base, nel momento di massimo splendore, era un quadrato di 91 metri di lato (verificata archeologicamente) e anche la sua altezza pare abbia raggiunto i 91 metri. Non c'è, però, accordo sul periodo in cui tali dimensioni furono raggiunte.
[4] Letizia Mariani, La patologia del dittatore: Robespierre, Stalin, Hitler, Studionews24, 14 giugno 2012.
[5] Nella sua classificazione, Clodomiro Bonfigli differenziava le patologie mentali in due soli grandi gruppi: le “Frenastenie [nervosismo; bizzarria eccentricità; imbecillità parziale (fondo della cosi detta follia morale); imbecillità generale; idiozia; cretinismo]” e le Frenosi dovute ad “affezioni accidentali del cervello e del sistema nervoso insorte per il concorso di cause particolari predisponenti ed occasionali”, quindi secondarie a patologie organiche (E. Vicario, Clodomiro Bonfigli – Frenastenici alla conquista della dignità, Feltrinelli, 2014, p. 48. cod. ISBN: 9788891081872).
[6] http://cultura.studionews24.com/la-patologia-del-dittatore-robespierre-stalin-hitler.
[7] Da Aa.Vv., 1939 - Danzando sull'abisso, Vittorio Mussolini e il Premio Riccione, a cura di Marco Bertozzi, Raffaelli Editore, Rimini, 2009, pp. 89-92.
[8] Cristina Nadotti, Rieti, la montagna del duce è un monumento da restaurare, da internet, ad vocem.
[9] Ibid.
[10] L'Archivio è composto da cinque fondi, ex archivi e agenzie nella loro completezza, che operavano nel '900. Raccolti negli anni novanta da Umberto Cicconi, in concomitanza con i 150 anni dell'Unità d'Italia nel 2011, attraverso la Fondazione Allori, si inizia a rendere pubblico questo materiale che è rimasto nascosto per quasi due decenni. (Wikipedia, ad vocem). WSI potrebbe fare opera culturalmente meritoria se potesse acquisire almeno uno scatto del progetto del “colosso”.
[11] Il Quintini per la stesura del suo articolo sopra citato ha attinto da Quinto Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini, Longanesi, Milano 1946
[12] Gli episodi e le vicende che Navarra riferisce sono davvero moltissime: particolari dettagliati sulle quotidiane visite di Claretta Petacci a Palazzo Venezia, fatte di furibonde litigi e liriche rappacificazioni, le numerose donne che affollano la vita del Duce scatenando le ire della moglie non meno che le sceneggiate della giovane amante, profili di persone che entrano ed escono dalla Sala del Mappamondo. Certo, vedremo come ciò che Navarra racconta sia condito da una dose più o meno carica di coloritura romanzesca. Resta il fatto che si tratta di una testimonianza unica e preziosissima.
[13] Aroldo Bellini (Perugia, 1902 – Roma 1984) scultore italiano, si è formato presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia, dove era nato e dove si è diplomato nel 1924. Presso l'università perugina conseguì la laurea in architettura nel 1927. La sua fortuna artistica è documentata soprattutto a Roma dove ancor oggi si possono ammirare le sue opere, prevalentemente statue in bronzo. Il suo nome è legato ad una nota opera del regime fascista: il “Foro Mussolini”, oggi “Foro Italico”, in cui ben 13 statue in marmo della serie più alta sono del Bellini.
[14] Ernesto Rossetti, romano di nascita e mantovano d'adozione, visse a Castelbelforte con la moglie Valda, conosciuta durante le riprese del film Spartacus all'Arena di Verona. Collaborò tra l'altro alla realizzazione parziale del ‘colosso' di Benito Mussolini e alla maxi scultura dedicata allo statista tunisino Bourghiba. Aveva cominciato la sua attività frequentando a Roma la bottega artigianale del fratello, dove si preparavano i calchi per la fusione di opere scultoree; collaborò con artisti famosi, come Guttuso, Manzù, Emilio Greco e Martini.
[15] Mi riferisco all’articolo di cui alla nota 1.
[16] Fondo Alberto Cartoni, fotografo del Ventennio accreditato a Palazzo Venezia. Nel 1940, allo scoppio della guerra, l'archivio è stato murato dallo stesso Alberto Cartoni per tutelarlo da manomissioni e furti. Nel 1990 è stato riportato alla luce da Umberto Cicconi. Tra il materiale inedito dell'archivio: "La costruzione della Città Universitaria – La Sapienza" di Roma, "La costruzione del complesso del Foro Italico" e del "Colosso di Mussolini", la mastodontica statua che doveva imperare sulla collina adiacente al complesso, mai innalzata.
[17] Personale 28.12.1974-06.01.1975, Orta Nova (FG).
[18] Morì ad Ancona nel 1999.
[19] Dalla nota biografica autografa, in carta, penna e calamaio, estrapolo: Ho avuto sin da bambino la passione del disegno e del modellato che mi portò, già a 13 anni, nello studio dello scultore Bellini, amico di famiglia. Questi, per mia fortuna ed essendo mesi di vacanza scolastica, viste alcune opere da me eseguite, chiese a mio padre di lasciarmi nel suo studio: dovevo entrare nel liceo classico. Vi rimasi sino alla chiamata per la leva militare. Il mestiere, del quale mi rese padrone, mi portò negli studi dei più famosi artisti del tempo. Intanto, dopo la parentesi bellica, eseguivo scenografie per film storici e per la TV di Stato. Finalmente maturo ho aperto il mio studio sviluppando una lunga e fruttuosa esperienza pure come pittore.
[20] Aa. Vv., Mussolini, nostro padre, Dino ed., Roma 1985.
[21] Antonio Cocchioni, Busto di Benito Mussolini, bassorilievo, 1983.
[22] Antonio Cocchioni, Campagna romana, olio su tela, cm 50 x 40, 1984.