Tu non l'hai vista. Tu non l'hai mai vista. Io l'ho vista dopo anni, ed era come non averla vista mai.
La pelle bianca, vedi questo bianco raccolto nelle mie parole? La sua pelle, questa. Ma solo due enormi parole aperte, gli occhi. Poi virgole, puntini, e la sottolineatura rossa delle labbra. Una poesia scomposta, una tecnica mai inventata. I suoi capelli ricci, un riccio che solo lei ha, boccoli che si spingono, si affrettano, straripano. Li teneva infilati nella giacca, nella sciarpa, come se si fosse scordata di tirarli fuori. Solo qualche ciuffo ha trovato la strada, per poterle sfiorare il viso.
I suoi vestiti neri, pesanti sul corpo esile. Le tempie carezzate di vene. Le vedevo anche se ero almeno due metri distante. Le vedevo attraverso il finestrino del treno. Guardavo e non volevo guardare. Mi sembrava di vedere la fine del mondo compiuta dalla mia mano. Mi sembrava di fare del male a tutti, uno ad uno, senza controllo. Così mi sentivo. Avrei voluto si voltasse. Pregavo perché non lo facesse. Il suo ragazzo era un ragazzo carino, alto, aveva i capelli corti, non aveva la barba. Si è seduto due posti prima di me. Mi sembrava impossibile che la coda del suo occhio non mi percepisse, che io fossi così invisibile. Forse quando il treno si è mosso, ed io ho abbassato lo sguardo, forse allora lei mi ha vista. Ma in quei secondi che lei era lì, e sorrideva ad un ragazzo a me estraneo, io ho rivisto la nostra piccola vita scorrermi davanti agli occhi. Perché è stata una vita nella vita, una gemma di gioia nel cuore della gioia.
(Tu mi vuoi? Tu mi vuoi ancora? Tu mi tocchi quando tocchi un'altra, quando mordi di diffidenza la folla? La cosa più difficile da accettare, sai, è sempre questa: che i tuoi occhi non abbiano dedicato solo a me quello sguardo. Che la tua risata sia la stessa con tutti. Che le tonalità della tua voce siano variabili con tutti. Che pieghi la testa di lato quando ascolti tutti. Che tutti siano degni di te. Che tutti possano variare l'identità data alla bellezza dopo averti vista anche solo di sfuggita.
Avrai passato il tuo capodanno in una piazza, che io non posso sapere quale e con chi, che io non voglio sapere quale e con chi, e avrai abbassato gli occhi proprio allo scoccare della mezzanotte, perché sei assente a tutto, anche alla concentrazione massima contata alla rovescia, sei distante da tutto, ti sarai accesa la sigaretta che accoglie la tua saliva come me quando mi rotolavo tra le tue dita, che ero meno di quel futuro fumo e di quella futura cenere, che quando abbassavi gli occhi c'ero sempre io e tutto quello che vedevi non era altro che me.
Tu mi pensi? Ti fai queste domande stupide che tu dicevi: sono domande veramente stupide? Ma mai mi hai risposto, e a me adesso non risponde nessuno e non voglio nemmeno chiederti niente anche se potrei farlo, potrei digitare il tuo numero cancellato dalla rubrica e mai dal mio cervello, e dirti, chiederti: ti ricordi di me? E sentire il tuo no perché vuoi dire mille volte sì. Perché non ci dimentichiamo, perché è un organo che fa male e che non si può togliere né curare. Ma ad ogni ascesa, ad ogni contrazione, si spacca e brucia.
Ti guardo che guardi un altro e sorridi, e se provassi a spiegare a chi amo come è il volto di chi ho amato, che parole potrei usare? Che riferimenti potrei mai trovare? Come si può spiegare alla strada come si cammina, al mare come si annega, ad una moneta come si muore di fame?
Come fai a spiegare alla causa l'effetto, senza farla morire?
E allora solo posso dire: non so. E chiudermi in questo recinto del non detto, per frenare la corsa, lo scalpitare, per farmi addomesticare dalla pace, dal sano, per cibarmi senza dover ammazzare nessuno. Proprio due metri da me, me stesa a braccia tese come un'emersione, mi disti la mia esistenza. E non faccio niente, non rompo vetri, non scendo scale, non urlo, non scrivo fiato e dito per dirti eccomi, guardami, non batto le nocche, non faccio più la magia di farti sparire il mondo intorno, come ero così brava a fare, quando volevi cancellare tutto tranne me. Tutto tranne me. Invece ora è completamente il contrario. Che io sono il segno cancellato dall'enorme gommapane del mondo e tu sei lì e sorridi ad un uomo, che ha un posto in un treno dove io ho un posto vuoto.
E hai sempre il tuo nome che è il nome generico di qualcosa di prezioso, di una vita che nasce, sei una rosa vera e fresca, un controsenso in questo mazzo di rose da pakistano surgelate e date al primo offerente per un'elemosina. E più tu ti effondi, più risucchi il mio valore. Più tu guardi di fronte a te, più la tua indifferenza involontaria ti schizza intorno e mi distrugge. Tu sei lì che cresci sotto le lampade al neon e hai spine che si conficcano polsi e caviglie nel tuo stesso corpo, e ti feriscono a morte, e tu ferisci a morte, ma c'è la fila di esseri qui pronti a farsi uccidere da te).
Lei è sempre la parentesi più lunga in mezzo ai miei discorsi. Lei è sempre tutto quello che non dico, la piena che spazza ogni respiro dietro le cose che scrivo, dietro al caffè che ordino al bar, e le galleggio dentro sempre nella costante attesa dell'onda di ritorno che definitivamente mi pianti il paletto del suo “no” in pieno cuore, ma intanto dico e muovo penne e digito tasti e sposto mondi con le freccette della tastiera, mentre lei manda un bacio volante ad un uomo che le fa ciao con la mano e il treno riparte e la distanza rientra come una molla che si riposa e sono per un istante più vicina che mai, e in quell'istante abbasso gli occhi come di fronte ad una esecuzione, e so che mi ha vista, so benissimo che mi ha vista, mentre il treno ristendeva la molla e mi scagliava nella mia vita senza lei, dove il pavimento è fatto di aculei ma io mi sono fatta invisibile e leggera.