Una delle funzioni fondamentali della madre nella relazione col proprio figlio, agli albori del loro rapporto, è quella di fare da “porta-parola”del suo bambino, cioè di accompagnare con la propria voce e di dare significato con le proprie parole e col proprio pensiero alle esperienze di piacere o di dispiacere del piccolo che ancora non sa esprimersi col linguaggio verbale. L’infante, però, sa usare tante altre modalità comunicative come per esempio il sorriso, il pianto, l’irrequietezza, la qualità dello sguardo, inondando e depositando fiducioso in lei i suoi stati d’animo, soprattutto quelli paurosi e confusi, perché vengano bonificati.
E la madre, se è emotivamente disponibile a ricevere queste comunicazioni, si identifica profondamente con il suo bambino, e in questo caso è come se sognasse da sveglia le sue sensazioni, i desideri, le percezioni e glieli traducesse in un discorso narrativo. Il preconscio materno viene a costituire, così, una parte dell’apparato del bambino, per significare e rappresentare quello che la sua coscienza primordiale non è ancora in grado di elaborare. Sentendosi allora rispecchiato e riconosciuto dalla mente accogliente e trasformatrice della madre, che mette in atto quella funzione sognante che si chiama “rêverie” e che le permette di entrare nei panni del suo bambino, questi introietterà questa competenza ed inizierà, a poco a poco, a trasformare e a “digerire” da solo i contenuti mentali caotici e confusi che gli pervadono la mente, riconoscendone il significato emotivo.
Il parlarsi, dunque, il raccontare la storia di quel momento particolare o il raccontare le storie in generale, è un’esperienza relazionale ed evolutiva molto importante, tanto che i buoni genitori continueranno a lungo ad accompagnare i loro figli con l’arte del narrare, soprattutto per aiutarli nei momenti difficili, come per esempio quelli inerenti ai distacchi o all’addormentamento (si sa che i ritmi circadiani che sottolineano l’ attraversamento dallo stato di veglia al sonno sono spesso latori di ansia e non solo per i bambini), oppure nei periodi di passaggio, proprio perché la storia si offre come contenitore degli affetti messi in moto dai cambiamenti, in quanto dà forma e nome a sentimenti che inquietano. In questo modo si dà, non solo la possibilità di avvicinarsi a parti di sé non pensabili, ma si offre anche l’occasione di condividere forti emozioni, perché l’atto narrativo in sé, crea un campo magnetico emotivo che favorisce la costituzione di legami significativi. Cosa, allora, più della fiaba è atta a rappresentare questo momento magico del raccontare, toccando temi scottanti e paurosi senza esserne feriti?
Tante sono le tipologie di fiabe, ad esempio esistono fiabe di paura, fiabe che raccontano il percorso di crescita, fiabe che rappresentano l’iniziazione alla vita adulta o fiabe spaventose che personificano i terrori del bambino, le “paure senza nome” che, spesso, prendono forma negli incubi notturni. K., una bambina di sette anni affetta da una importante malattia fin dalla nascita, che l’ha costretta ad una vita infestata da interventi chirurgici, cure estenuanti e limitazioni umilianti nell’esperire appieno la vita, presentava una forte angoscia all’addormentamento che tentava di placare ricorrendo a richieste ossessive di rassicurazione alla madre prima di addormentarsi. Voleva che la mamma, tutte le sere, le confermasse più e più volte che la porta era chiusa, che le tapparelle fossero abbassate, che la sveglia fosse puntata, che avrebbe fatto dei bei sogni, ecc. riducendo la madre a uno sfinimento psicofisico che non riusciva più a tollerare, anche perché non comprendeva il bisogno di rispondere almeno sette volte ad una stessa domanda.
Abbiamo riflettuto assieme che forse non era tanto la risposta che placava le angosce della bambina, ma era la “voce di mamma” che voleva ascoltare a lungo per non sentirsi sola e terrorizzata rispetto al buio e all’ignoto della notte. La proposta di raccontare una fiaba invece che rispondere stancamente e sconsolatamente alle estenuanti domande di K, ha avuto subito un riscontro positivo: la madre ha iniziato a partecipare con piacere al rito della narrazione e K. aveva la mamma accanto a sé in una atmosfera emotiva di piacevolezza per entrambe. Lo stanco e stressante momento dell’ “a domanda-risponde” si era trasformato nel “loro” momento, un gioioso appuntamento serale connotato da un clima affettivo di benessere, che permetteva di scoprire e di vivere uno stare assieme pacificante ed emotivamente appagante che bonificava la probabile angoscia di morte di K. e l’ansia della madre.
Il raccontare le fiabe permette di dare nome ed esorcizzare i fantasmi che vagolano inquietanti nella camera dei bambini: il terrore dell’ignoto, le angosce delle esperienze di separazione dall’ambiente familiare protettivo, le ansie dell’incontro con un mondo estraneo, pericoloso, ma anche la paura di crescere e di sperimentarsi con gli ostacoli della vita. Le fiabe aiutano il bambino a non sentirsi solo nell’affrontare l’impresa del vivere, del dover incontrare un mondo che, all’inizio, può essere vissuto come il nemico con cui confrontarsi e contro cui combattere. Ed ecco nella storia comparire “il cattivo” per dare forma e pensabilità ai problemi del nostro piccolo esploratore della vita: d’altra parte il male occorre incontrarlo, bisogna attraversarlo se lo si vuole vincere e, nel racconto, il problema è dicibile, diventa universale, è di tutti i bambini che lo ascoltano; questo è un vantaggio perché aiuta a depotenziare le tensioni e a diminuire le fantasie persecutorie in quanto si possono attribuire ai personaggi tutto le bruttezze che appartengono all’ascoltatore e che lo spaventano.
La fiaba, personificando le sue angosce, permette al bambino, in compagnia dell’ adulto a cui si affida e da cui dipende, di vedere rappresentata la sua situazione di debolezza e di immaturità, e di sentire la paura condivisa col narratore che, con la tonalità della voce e la sua partecipazione empatica, interpreta il suo stato d’animo, gli comunica vicinanza e comprensione, contenendo così la sua ansia profonda. E la voce è la musica del materno che il bambino ha imparato a conoscere già nel periodo fetale, è l’ambiente sonoro noto, fatto di toni alti e bassi, di pause e di agglomerati di suoni, tutti movimenti che sottolineano le sensazioni, le emozioni primarie, gli stati di malessere e di benessere che impastano la natura umana.
Il racconto della fiaba è costituito da parole/bozzolo protettive che fondano le radici della vita psichica, sono parole incantate che consolano il piccolo, lo accompagnano e lo aiutano a sperare nella possibilità di essere aiutato. Ma, soprattutto, la dinamica della storia è in grado di dar vita e comprensione, a movimenti emotivi che il bambino, di fatto, vive già in proprio, ma con grande peso: la chiusura, la fuga, l’avidità, la gelosia, i desideri di possesso esclusivo, la rabbia, l’aggressività, la paura della solitudine, ma anche l’angoscia provocata dal cambiamento degli stati umorali dei genitori. Lo scopo del raccontare fiabe è quello di creare una buona atmosfera relazionale, di favorire un clima di apertura, di fiducia, di legame e di autonomia attraverso l’esperienza fondamentale dell’essere in compagnia nell’attraversare il buio pieno di fantasmi. “Niente di ciò che la psicoanalisi ha scoperto dello psichismo umano è assente dalla fiaba” dice René Kaës, essa è fatta della stessa trama di cui è composta la psiche.
La fiaba è uno strumento impagabile, fondamentale, nel favorire lo sviluppo della personalità, è una tappa esperienziale indispensabile di trasformazione della vita psichica e, come il sogno, aiuta a metabolizzare le sensazioni e le emozioni in rappresentazioni di pensiero. La fiaba è, dunque, indispensabile per quanto riguarda lo sviluppo della vita psicosomatica dell’individuo, ma lo stesso processo avviene anche per la storia dell’umanità, infatti, non a caso, se si vuole conoscere un popolo, è proprio attraverso i suoi miti che lo si può incontrare a livelli profondi, per poi riconoscerne le differenze e poter stabilire legami di solidarietà.