La sessualità femminile fa paura perché vuole autodeterminarsi.
(Valie Export)
Corpo peccante. Corpo peccaminoso.
Errante nel ribaltamento delle logiche. Immorale nel rovesciamento di assiomi che nulla hanno a che vedere con la più vera, intima e primordiale natura d’ogni donna. Perché ogni donna nasce libera. Libera di sentire, di desiderare, di scegliere e fluire. Fino a quando non viene irretita dalla tagliola di una mentalità che da sempre la vuole succube e subalterna. Di chi? Ma del maschio ovviamente! Perché il maschio impugna il potere. Il maschio desidera. Il maschio prende. Il maschio domina. Il maschio sta sopra.
Eppure, a un certo punto della storia, può accadere che il corpo femminile decida di peccare. Per sfida o godimento. Per prendersi – o riprendersi – quanto gli è stato tolto. Il corpo pecca per autodeterminarsi. Per congiurare un paradigma costituito nei secoli dei secoli. Abolisce l’amen e attua una nuova riforma contro flaccide indulgenze. È l’identità femminile – quella più autentica, quella più forte, quella più stanca – a scegliere il corpo per “dire”. Per “eccedere” rivendicando. Per “spingere” contro gli argini. Per “rivoluzionare” un intero mondo. E poter finalmente “essere”.
L’austriaca Valie Export – al secolo Waltraud Höllinger – è stata una vera e propria icona di questa rivolta avvenuta sul finire degli anni ’60 e l’albeggiare dei ’70. Nata a Linz nel 1940, ha fatto del proprio corpo un vero e proprio dispositivo rivoluzionario. Educata in un convento sino alla piena adolescenza, ha trepidamente rifiutato il ruolo dimesso e relegato che le veniva imposto, pretendendo sin da subito il diritto ad essere se stessa e la possibilità di autodeterminarsi in quanto persona con una propria identità, propri sogni e bisogni, proprie ambizioni e propri desideri. E ha deciso di utilizzare il linguaggio del corpo nell’arte per poter denunciare una società di stampo patriarcale.
Quando scelse di modificare il suo nome in uno pseudonimo citante una allora nota marca di sigarette, Valie aveva già chiara l’impronta che avrebbe dato al suo lavoro. Sapeva che avrebbe messo in scena azioni comportamentali pronte a evidenziare il maschilismo vigente per poi ribaltarlo. L’azione stessa di rinunciare al cognome paterno, nonché a quello del marito, ne è una prima forte testimonianza. La fotografia scattata nel 1970 che la vede ritratta con un atipico pacchetto di Smart Export riportante il suo nome e il suo volto, è l’opera che sancisce la sua nuova identità artistica. Valie “esporta” se stessa dalla tana del padre-amante-padrone. In tal senso, il 1968 è stato un anno molto importante per lei: l’anno in cui ha abbracciato le teorie della seconda ondata femminista, quella che mirava a una effettiva definizione delle differenze tra i generi. La donna era altra cosa dall’uomo. Non inferiore, non superiore. Semplicemente altra.
Lo sradicamento della discriminazione, determinata dalle differenze sessuali, e il rispetto della diversità erano i due macro-obiettivi del Secondo Femminismo. La donna non doveva più essere subordinata all’uomo. E dunque anche l’erotismo diveniva emancipante. In un’epoca gremita di contestazioni d’ogni genere, la voce del corpo femminile gridava contro ogni forma di prevaricazione. Erano gli ultimi scampoli degli anni ’60 ed era ancora in vigore il Diritto d'Onore che permetteva all'uomo – padre, marito, fratello – di uccidere per difendere la propria dignità, e di essere poi assolto. I casi di donne picchiate tra le mura domestiche, semplicemente perché non avevano lavato i piatti, erano numerosissimi. Soltanto con il Diritto di Famiglia del 1975 che riconosceva la parità dei coniugi all'interno del matrimonio, si è potuto assistere a un effettivo, ma non radicale, cambiamento. E questo perché un cambiamento non può esser radicale sino a quando non estirpa alla radice, un retaggio culturale.
Simultaneamente, nell’Austria delle sperimentazioni artistiche post-moderne e post-umane, esplodeva il fenomeno dell’Azionismo Viennese: artisti come Günter Brus, Rudolf Schwarzkogler e Otto Mühl abbandonavano il mezzo pittorico per trasformare il corpo in opera, sottoponendolo ad azioni sadomasochistiche o autolesionistiche. Il corpo veniva sfidato nei limiti di sopportazione del dolore e dell’umiliazione, fino a sfiorare il rito parareligioso, come nel caso di azioni messe in scena da Hermann Nitsch nel suo Teatro delle orge e dei misteri. In una Vienna che aveva visto sbocciare le psicanalisi di Freud e le teorie di Jung, il rapporto dell’uomo con il proprio corpo e con la propria identità passava, nell’arte, attraverso l’estremismo di azioni tanto cruente e sanguinose da rasentare il suicidio.
Valie, però, non ha scelto di dirigere la propria ricerca in quella direzione. Piuttosto, ha spostato lo sguardo altrove, occupandosi in maniera diversa della violenza, sia psicologica che fisica, talvolta anche con una certa ironia. Già nel 1968 ha realizzato una prima azione in luogo pubblico, portando il proprio compagno, Peter Weibel, al guinzaglio per le strade di Vienna. L’uomo camminava a quattro zampe come fosse un cane addomesticato, e lei sorrideva ai passanti. Una delle sue immagini più celebri e più esposte è invece quella che la ritrae seduta, a gambe divaricate, con la vagina bene in vista a causa di uno squarcio operato nei pantaloni. Aktionshose: Genitalpanik , meglio ricordata come “pantaloni d’azione, panico genitale”, è una performance risalente al 1969, durante la quale la donna si fa oggetto e kamikaze: sbatte in faccia al maschio il suo oggetto del desiderio, ma lo fa in maniera inaspettata: lo rende tanto vicino e tanto evidente da generare un sentimento di panico nell’altro virile. Pare che questa performance sia stata realizzata all’interno di un cinema porno a Monaco di Baviera. Con i suoi pantaloni squarciati e il clitoride in vista, Valie ha fatto il giro del pubblico maschile accomodato in attesa del film, infine si è seduta, ha spalancato le gambe ed è rimasta lì a fissare l’obiettivo, brandendo una mitragliatrice. Con questa azione il cortocircuito da lei voluto è stato attivato. E quest’opera è diventata tanto celebre ed importante per la storia della Performance Art da spingere Marina Abramovic a riproporla come omaggio alla Export, presso il Guggenheim di New York, esattamente nel 2006.
Al 1970 risale Body sign action, il celebre tatuaggio della clip di una giarrettiera realizzato sulla coscia sinistra. Simbolo banalizzante di una seduzione remissiva, quella clip tatuata voleva essere una scelta sarcastica e denunciante. "Il mio corpo era lo strumento più importante. Sentivo che, da un punto di vista politico, era importante utilizzare il corpo femminile per fare arte." Per Valie, quindi, il corpo doveva operare una rivoluzione culturale. Il ruolo della donna nella società, i soprusi sotterranei e quelli lampanti, la dignità ferita, l’abuso autorizzato, erano tutti temi sui quali si interrogava di continuo. Nello stesso momento storico in cui una poetessa come Anne Sexton spremeva il proprio inconscio per farne straordinarie composizioni Confessional, Valie faceva del proprio corpo un discorso di protesta. “La poesia è l’ascia che rompe il mare ghiacciato dentro di noi”, sosteneva la Sexton. Valie invece considerava l’azione comportamentale quale arma da brandire per arrivare alle coscienze.
Nel 1971 ha messo in scena un’altra performance interattiva, intitolata Tapp Und Tastkino, durante la quale indossava una scatola lignea che sul petto si apriva attraverso una tendina. Così “vestita” l’artista si muoveva per le strade della sua città, invitando i passanti ad infilare le mani nella scatola per toccarle i seni nudi. “Questa scatola è una sala cinematografica, Il mio corpo è lo schermo.” In questo modo la Export creava il Touch Cinema, ovvero cinema da palpare. Il suo seno, infatti, non poteva essere visto… ma poteva, invece, essere toccato! E a dispetto del divieto alla pornografia, quel seno nudo lo si poteva palpare pubblicamente, anche se per un tempo limite di 13 secondi.
Il leitmotiv del suo lavoro è stato, per quarant’anni, sempre lo stesso. La Export ha realizzato performance, installazioni, video, testi, fotografie sempre costantemente riflettendo sulla condizione femminile e sull’abuso sotterraneo o a cielo aperto. Nel 2007 per la Biennale di Venezia ha realizzato Glottis, un’installazione di schermi televisivi sui quali è visibile un loop della sua laringe ripresa da un laringoscopio, mentre descrive le proprietà della voce. La voce come attestazione della propria presenza, ma anche la voce delle donne, ancora oggi poco ascoltata.
Valie Export vive in Germania, a Colonia, dove insegna presso un Istituto d’arte.
E dove continua a creare.