Barberina, col suo bambino, fiore caduto dei suoi errori e dei suoi dolori, col suo ritorno alla terra d’origine, non è una creatura umana, è la creatura umana, siamo noi, e il suo racconto turba come la pupilla viva entro cui vediamo riflessa la nostra pupilla.
(Grazia Deledda)
Dietro l’azzurro intenso dell’Adriatico e la verde corolla della pineta, ecco, nei lembi settentrionali della costa romagnola, appartata, nascosta, silente, la “valle”, la depressione paludosa preannunciatrice del grande delta del Po.
Oggi è sempre più difficile difenderla da progetti turistici invasivi e da lottizzazioni devastanti, ma seduce ancora per i suoi tramonti infuocati, per le sue nebbie evocatrici, per la sua fauna e la sua flora tutte da svelare nella loro intima umbratilità. Un tempo era anche animata e vissuta da vallaroli, fiocinini, impagliatori, raccoglitori, che trovavano in questa plaga nascosta la loro stentata fonte di sopravvivenza: esseri umani, abbrutiti dalla miseria, che diventavano facili prede dei “cittadini” che qui si divertivano con la caccia e trovavano facili diversivi in giovani servitrici-tuttofare rese accondiscendenti dal bisogno, di fronte a cui anche il rispetto di una morale o la difesa della propria dignità diventavano un lusso.
Nella letteratura, poeti e prosatori hanno cantato il fascino della valle, ma chi ne ha più compiutamente descritto la natura e l’ambiente umano è stato Marino Moretti in un romanzo scritto un secolo fa, Il sole del sabato, coniugando atmosfere crepuscolari con ambienti, vicende e personaggi più realistici e ancorati ad una specificità locale, senza però cadere nel bozzettismo. Tanti sono i temi e le figure che animano questo capolavoro, ma su tutto e su tutti, due personaggi femminili legati ad una realtà paesaggistica, sociale ed umana completamente diverse, pur essendo vissute nello stesso periodo e nella stessa terra romagnola.
Barberina, la protagonista, è la “donna della valle”, con i suoi “capelli in disordine composti di ciocche castane, di ciocche biondastre e di altre perfino cineree, il volto non bello … ma illuminato da un dolce sorriso che pareva accordarsi con la delicatezza rosea degli orecchi e con la mitezza lionata delle iridi che circondavano due pupille timide ma profonde. Così pallida e sottile, era veramente costei la figlia della valle desolata che nutre la sua magra flora col salso del suo mare lontano e col silenzio della sua solitudine accidiosa.” La “valle”, plaga misteriosa e fantasmagorica, dove Barberina è una delle tante vittime di un gioco perverso: trastullo delle ore di noia di due cacciatori di Cesenatico, Mauro e Niblin; finita la stagione, il più debole dei due, sfiorato da un sentimento di affetto e di pietà per la ragazza rimasta incinta, se la porta nella ricca cittadina della costa, dove la coppia, semiclandestina e chiacchierata, è ospitata in casa di un amico del ragazzo.
Qui Moretti, memore della sua formazione crepuscolare, ci offre, nella descrizione della dimora, un classico esempio in prosa delle gozzaniane “buone cose di pessimo gusto”: “Alle pareti ritratti … chiusi in cornici di perline azzurre, di madreperla, di gusci d’ostriche e di chiocciole. Sul comò, sulle mensole, sul tavolino tondo, un po’ da per tutto, occhieggiavano un’infinità di piccoli oggetti d’alabastro verniciato che forse erano stati i primi giocattoli dei bambini … c’erano uccellini piantati su due zampette di fil di ferro dinanzi a una fetta di cocomero … sul comò trionfava anche un orologio di finto bronzo col gruppo di Paolo e Virginia, che aveva nello sfondo tutti i principali campioni della flora tropicale. Barberina batteva le mani: Oh bello, oh bello!”
Ben presto, però, la “donna della valle” si sente di essere come un intrusa, il suo Mauro si stanca di lei e cerca una compagna “regolare” e degna della sua famiglia piccolo-borghese, Barberina rimane sola con la sua maternità, appena tollerata dai perbenisti, e la sua estraneità al mondo vivace e frivolo della costa, tanto diverso dai silenzi e dalle profondità, ora cupe, ore abbaglianti, delle distese vallive. A salvarla è l’incontro con un’altra vittima della protervia maschile, la devota Elisabetta: “Pareva già una ragazza invecchiata, col viso giallastro, la fronte rugosa, gli occhi purissimi, d’un colore verdastro d’acqua scaturita dalla creta. Tuttavia, quando parlava, quella sua voce piana, dolce, avvezza agli interminabili ora pro nobis, affascinava un po’ tutti, anche i fratelli di lei che erano tre, tutt’e tre rozzi e nemici di Dio.”
Elisabetta era dunque la vittima del disprezzo e del dileggio maschile in quanto giudicata donna precocemente invecchiata e asessuata, così come Barberina era guardata con scherno misto a commiserazione perché schedata come ragazza “facile” e anche inesperta. E se il detto popolare diceva: “Non c’è sabato senza sole, non c’è ragazza senza amore”, la frequentazione della devota Elisabetta le fa trasformare questo sabato profano, per lei così doloroso, nel giorno della devozione alla Madonna: “Il sabato divenne per lei il fratello minore del maggio, ch’era il mese del sole e delle rose, ch’era il mese dedicato alla Vergine … ”.
La nascita del figlio sembra riconciliarla con la vita e la natura e le fa anche riscoprire la bellezza del mare: “Non aveva che un desiderio: di essere sola col suo piccino dinanzi al mare … la solitudine della spiaggia non era mai rattristata dal silenzio implacabile della valle. Come tendeva l’orecchio, distingueva lievissime vibrazioni di frasche, dolci zufoli di canneti, lievi sussurri d’ondicine … l’arena era sparsa di alighe scialbe, a piccole matasse aggrovigliate, di ossi di seppia, ancora candidissimi, di rotelle azzurrognole e striate, di guscetti vuoti di granchi, di stelline …”.
Ma il suo destino di solitudine doveva riportarla alla solitudine infinita della valle; la precoce morte del “figlio del peccato”, la separazione da Elisabetta, fattasi monaca, la spingono a ritornare come nel guscio materno e a lasciare il paese della sua speranza, Cesenatico, “il paese degli stravaganti, il paese delle stravaganze. Guarda il canale privo di barche e di trabaccoli …” e parte per il lungo viaggio del ritorno.
A poco a poco ogni rumore e traccia umani si allontanano, gli alberi diradano, le strade si fanno tratturi, Barberina rimane sola con se stessa e con l’infinito che la circonda, non c’è più soluzione di continuità nel tempo e nello spazio, “le pare di aver passato il confine che la divide per sempre dal paese straniero, dal nemico, dal mondo … ma si consola perché intorno a lei c’è il canto misterioso dell’infinito, il murmure dell’ultima luce; il silenzio … ma un silenzio che le appartiene, intimo e vivo, lo stesso silenzio che ha percepito senza stupore fin da bambina … l’orizzonte tondo e immenso la circonda come un circolo di cui ella sia il centro: unico essere nella solitudine …”.