“Nelle opere di Annalù è sempre presente un senso di metamorfosi e di evoluzione, una sorta di viaggio fra stati diversi, uno spirito di ricerca che condivide alcuni aspetti tipici della scienza alchemica. Annalù cerca di fissare nelle sue opere l’attimo in cui la metamorfosi si compie, di comprendere i meccanismi e le forze che sono alla base del processo insito nel passaggio fra uno stato e un altro, sia che si tratti di uno stato fisico, che di uno stato psicologico o spirituale. Nella sua personale ricerca, intende la metamorfosi, in senso lato, come il passaggio fondamentale per progredire verso una nuova realtà, verso una nuova coscienza, verso una nuova dimensione fisica e cognitiva. L’artista, attraverso il sapiente uso di materiali differenti quali legno, cemento, resine, nero di bitume, metalli, cerca di ribadire quasi a livello tattile questo concetto. I vari elementi si uniscono, si fondono per creare nuove realtà, nuovi stati fisici o per liberare i corpi che imprigionano. Il lavoro di Annalù si pone in quell’istante di transizione fra pittura e scultura, in un terreno ibrido che però concede all’artista di sperimentare differenti possibilità espressive”.
(I. Zanti)
Chi è Annalù?
Sono una visionaria. Lo sono da sempre. E credo nel linguaggio che crea nuove forme mediante una simbiosi forte tra tecnica e contenuto. Da bambina costruivo architetture immaginarie con bastoncini, foglie, sassi e cercavo “i mattoni” più assurdi per le mie tante case. Poi mi facevo piccola piccola e immaginavo di entrare dentro le mie costruzioni e inventavo una serie di storie. Da “grande” ho continuato a fare così: la stessa serietà che mettevo nei giochi di bambina la metto oggi nelle mie sculture. Quanto più riesco a giocare intensamente tanto più il lavoro funziona.
Cosa, del mondo che ti circonda, attrae la tua attenzione e cosa riesce ad avere un effetto tale da influenzare la tua ricerca artistica?
Il mondo naturale attrae la mia attenzione da sempre: il micro e il macrocosmo hanno un effetto incredibile sulla mia immaginazione. Vivo su una casa palafittata in riva al fiume Piave: adoro quel posto perché è saturo della storia dei miei antenati, del loro passaggio e l’acqua parla il mio linguaggio. Quindi nella natura e dalla natura Osservo. Ascolto. Rifletto. Rielaboro.
Qual è il pensiero/progetto che sta dietro le tue opere: il tuo lavoro nasce dall’impulso che segue a un’idea o a una necessità? C’è un filo conduttore tra le tematiche affrontate nelle tue opere?
Il mio lavoro nasce da entrambe: la necessità è la spinta primaria. Fare ciò che faccio è necessario, vitale come respirare; c’è poi l’impulso che segue un’idea e questa quasi sempre arriva come un’intuizione forte che va guidata, arginata, capita e strutturata. Poesia, memoria, preziosa architettura dell’immaginario; tutto questo nella mia parola chiave: Reverie. Fantasticheria, immaginazione, abbandono al flusso del sogno a occhi aperti che prescinde dal caos, elude la realtà, fugge la folla e nell’assolo creativo si sublima dal nulla in una realtà di forme, come fosse a contatto con la pietra filosofale. Procedo in questo modo, semplicemente, cercando di creare nuove forme e spostare almeno il mio confine del noto dentro l’ignoto, attraverso i contenuti. Il concetto di metamorfosi è una costante, un filo conduttore del mio lavoro da sempre, ed è proprio il momento di passaggio, di transizione che mi interessa e che cerco di bloccare nel tempo e nello spazio attraverso la resina, creando quello che io chiamo “equilibrio dinamico”. L’operazione che svolgo non è così lontana dalla trasmutazione di una materia in un’altra: i miei “splash” d’acqua, le mie architetture liquide, le farfalle bruciate dentro la resina raccontano un tempo espanso, sospeso, in cui la forma ha il valore di un mandala pronto a essere soffiato via. Ho quindi una percezione del tempo molto dilatata perché con miei tentativi di fermare nella resina il suo scorrere, cerco di porre l’attenzione fra ciò che è e ciò che non potrebbe essere: una foglia può non morire se cristallizzata nella sua forma. In questo senso quel tempo rappresentato diventa memoria all’interno del lavoro. E poi c’è la questione della leggerezza, che va ben oltre l’utilizzo di simboli come la farfalla. Come dice Alda Merini: “Pensate che da un’umile farfalla può uscire un angelo fiorito. E’ questo che vi sfugge: l’anima e l’attimo della creazione”. Ho sempre amato più il vuoto del pieno, nonostante certi lavori siano preziosi, ricchi come arabeschi o merletti… Su queste strutture dominano comunque la sospensione, la leggerezza, il vuoto. Questo è sempre stato il collante comune nel corso degli anni all’interno del mio lavoro: i miei mondi si smaterializzano in universi immateriali e leggeri, in impronte e memorie.
Che approccio hai con la materia per arrivare agli aspetti contenutistici e concettuali delle tue opere? n
La materia è fondamentale nel mio lavoro. Il mio vuole essere un lavoro intensamente lirico ed evocativo e le forme sono realizzate mediante l’assemblaggio e l’alchimia di resine sintetiche, carte e materiali sottratti alla natura come cortecce e radici. Utilizzo in prevalenza la vetroresina e da sempre per me una sfida è stata quella di combinare una materia così poco emozionale con un linguaggio espressivo che vuole essere pregno di meraviglia, freschezza e poesia. Ogni opera è un capitolo di una storia, una finestra su mondi nascosti. Ogni materiale corrisponde a un messaggio preciso. Sui materiali mai nulla è a caso. Sempre sotto l’egida dei quattro elementi naturali: acqua, fuoco, terra, aria, utilizzo la resina come fosse acqua, la cenere per parlare del fuoco e delle combustioni, i cementi, le radici, le cortecce per parlare della terra e uso simboli della leggerezza come farfalle, pinne, piume, per raccontare l’aria e il respiro delle cose. Fondere insieme gli elementi significa diventare demiurgo di mondi altri.
C come consapevolezza, M come memoria, P come persona... che significato hanno queste parole nella tua ricerca artistica?
La Consapevolezza diventa per me caratteristica primaria che permette al mio lavoro di farsi Opera. È anche vero che la mia consapevolezza è cresciuta ed è maturata nel corso degli anni perché spesso è stata coincidente con un sentire difficile da spiegare scientificamente e che ha, piuttosto, una connotazione molto più vicina all’istinto. La memoria è innanzitutto dentro i materiali che recupero e che riunisco: recupero frammenti di natura (cortecce, radici, foglie…) che hanno in sé storie, vissuti... le ripulisco, le ricostruisco... per generare nuovi cortocircuiti, altri linguaggi con tempi e racconti nuovi. La questione sulla Persona è qualcosa di più complesso… Innanzitutto perché come notò qualcuno già un po’ di tempo fa, la figura umana nei miei lavori è praticamente assente. In realtà non è proprio così. Messaggio Ricevuto del 2001 (una grande carta/lenzuolo in resina estratta da un’enorme busta come letto matrimoniale), Peter Pan, doppia sedia sospesa di buste di carta del 201; Hermes, l’altalena di piume del 2004 e la Sostenibile leggerezza dell’essere del 2003/2004 pur rappresentando oggetti fatti per portare corpi, sono esse stesse corpi in levitazione. Allo stesso modo, Daphne del 2007 è solo una sindone di un corpo e Su Nar, l’uovo di piume utilizzato nella performance del 2007, capovolge il senso per un controsenso superiore. Io non parlo della carne, parlo di respiri. Non racconto della carne ma della spiritualità. Il mio lavoro può sembrare fuori dal tempo… ma è solo perché io voglio il cuore del tempo. È per questo che negli ultimi anni ho usato “porzioni di corpo”: Flyingfeet, piedi in cemento del 2008; No frontier, braccia in resina trasparente che accarezzano un muro invisibile del 2009; E lucean le stelle, braccia in ceramica sintetica che lanciano verso l’alto 300 pianeti; Sedna, piedi trasparenti che si sciolgono come ghiaccio del 2001; Un salto nel blu, piede in resina che salta dentro una pozzanghera del 2012.
Nella resa finale di un progetto artistico quanto peso hanno la pianificazione e la ricerca e quanto è imputabile, invece, all’imprevedibilità?
La ricerca e la pianificazione sono fondamentali. L’imprevedibilità va riconosciuta e gestita… e forse questa è la parte più complessa. L’artista è un professionista: il suo darci l’opera non è occasionale; il fare artistico è la manifestazione non solo di una poetica, di una pulsione interiore, di una sensibilità acuta, ma anche di un pensiero logico-scientifico che, a volte, si serve anche del caso o del caos per immettere nella creazione elementi di difficoltà enigmatica, di indicibilità. L’arte è un sapere e i saperi sono disciplinati, puliti, ricchi; è una ricchezza data dal “sapere il sapere”: dalla quantità di punti della rete toccati, di viaggi, mobili e immobili, che l’artista ha compiuto. L’artista è tale se è sempre costantemente in viaggio e la sua opera rappresenta un momento nella storia, subito superato, mai immobile. Il sapere dell’arte come il sapere della scienza è soggetto a questa legge genetica intrinseca del suo continuo superamento. Lo diceva anche Duchamp alla fine degli anni 50: “Ricordatevi, l’arte è condizione eraclitea in continua evoluzione”.
Se ti chiedo di rivolgere la tua attenzione dal cosa ricordi (il contenuto di una determinata esperienza) al come la ricordi:
• ricordi soprattutto le sensazioni?
• oppure è più forte il ricordo dei colori?
• ricordi soprattutto le voci o i suoni o il silenzio?
• oppure il volto delle persone?
• il profumo o l'odore di qualcosa in particolare?
• altro?
In realtà io sono come un cane. Ho il fiuto di un cane. Ogni cosa passa dentro di me attraverso questo senso. Il profumo mi racconta tutto di ogni cosa. Ti faccio una piccola confessione: diversi anni fa ho lavorato per uno psicoterapeuta che, resosi conto di questa specie di dote, mi chiese di dipingere per lui gli odori dei suoi pazienti. Esperienza incredibile… Quindi ciò che attrae fortemente la mia attenzione e che la associa a una memoria nitida sono proprio gli odori.
Quale dei cinque sensi utilizzi più frequentemente, più volentieri e con più familiarità quando lavori?
Quando lavoro invece il senso in assoluto che uso di più è il tatto. Tocco tantissimo il mio lavoro e chiedo alle persone di toccare le mie opere, di scrollarsi di dosso la paura di danneggiare l’opera e di sentirla sotto le proprie dita. Il mio lavoro è simile al vetro solo come estetica ma, di fatto, è fortemente elastico e strutturato grazie alla fibra di vetro che arma le opere dall’interno. È per questo che spesso inserisco porzioni di scrittura braille nelle mie sculture: amo l’idea di avere una linea diretta con il buio…
Quali delle tue opere ci proporresti come punti di snodo fondamentali nel tuo percorso?
X, inchiostro del 1999
Peter Pan, sedie sospese del 2001
Hermes, l’altalena di piume del 2004
Flyingfeet, piedi i cemento del 2008
Aqua, “il libro d’acqua” in resina e corteccia del 2010
Close to the edge, installazione 54 Biennale di Venezia del 2011
Sestante, codex del 2013
Elisir, grande orchidea che è architettura liquida prima di tutto, del 2014
Quali sono le “sfide” che proponi a te stessa come artista? Come continui a sperimentare?
Non potrei fare a meno di sperimentare: lo faccio tutti i giorni. Tutto ciò che creo è frutto della sperimentazione più spinta. Rischio di mio perché in studio ho delle vere bombe chimiche, ma, con il tempo e con l’esperienza, ho imparato a dosare gli elementi come un bravo alchimista (ora catalizzatore e cobalto sono in due armadietti ben lontani uno dall’altro… proprio per non scatenare reazioni chimiche pericolose). Le sfide quindi sono continue. Non esiste una scuola che ti insegni a usare i materiali in questo modo: quando decidi di far convivere elementi e materiali che non vorrebbero proprio saperne di stare insieme, entri in un campo sconosciuto che è eccitante e pericoloso insieme. La verità è che io non potrei vivere senza procedere in questo modo, quindi le sfide che propongo a me stessa sono moltissime, sono costanti e sono legate soprattutto a rivoluzionare la materia qualsiasi essa sia. In origine esiste la visione, l’idea di ciò che voglio realizzare poi trovo gli strumenti, i modi per metterla in forma. La maggior parte delle volte non so come fare le cose: lo scopro lavorando. Non sono una pittrice; non sono una scultrice. Sono un ibrido in sperimentazione.
Cosa vuoi che le tue opere dicano a te stessa e a chi le osserva?
Vorrei che aprissero porte, che varcassero il confine spostandolo un po’ più in là. Vorrei che l’opera mettesse un segno forte. Mettendo un segno di matita su un foglio bianco, l’artista toglie luce: disegnando oscura. L’opera dovrebbe essere questo insegnamento indiretto che avviene non illuminando ma sottraendo una luce omologante.
“Difficile imbrigliare l’arte di questa giovane artista, il cui ventennale percorso ci suggerisce un’evoluzione di sentimenti, di poetica della vita, di storie narrate e ancora da narrare, di sogni e visioni. Annalù è attenta osservatrice delle “cose del mondo”, le guarda, le studia, le fa sue, il suo animo profondo elabora, attraverso le proprie emozione, e restituisce al mondo le “cose del mondo” con un nuovo e personale linguaggio”. Così, la curatrice della Galleria Davico Arte, Carlotta Canton, introduce la personale Liquida – TransApparenze con cui hai debuttato sul territorio torinese (dal 23 ottobre al 22 novembre 2014, Galleria Davico Arte, Galleria Subalpina 21) e a sottolineare l’eccezionalità dell’esposizione, il 31 ottobre Luca Beatrice ha illustrato, al Circolo dei Lettori di Torino, la monografia Showing Monograph, Annalù 1994-2014, edita dalla Silvana Editoriale, con cui si celebrano i tuoi 20 anni di attività... tu sei nata nel 1976 e da 20 anni sei attiva sulla scena dell’arte contemporanea in Italia e all’estero, insomma Annalù, io lo trovo strabiliante e al tempo stesso una grande responsabilità... tu?
Mah…semplicemente ho avuto l’urgenza di lavorare presto e ho avuto la fortuna di fare la prima mostra importante nel 1995: ero in quinta superiore quando fui selezionata come rappresentante dell’Istituto d’Arte di Venezia per rappresentare la scuola in una mostra che coinvolgeva le Accademie. Mi confrontai quindi con dei ragazzi dell’Accademia di Ferrara molto bravi e fu per me un’esperienza pazzesca perché io avevo una matrice assolutamente artigiana, da Istituto d’Arte appunto, e quindi l’Arte per me era qualcosa che in realtà percepivo solamente, ma di cui non avevo piena coscienza. Ricordo ancora il titolo della collettiva Signori si pArte: quella mostra scatenò talmente tante domande dentro di me che dovetti assolutamente dare loro risposta. E sì… mi resi conto che dovevo “partire”. Capii immediatamente che le risposte alle mie domande le avrei avute lavorando. Lavorando sodo. E così è stato.
Quali sono le motivazioni, le spinte, i condizionamenti, i limiti e le conseguenze di essere un artista oggi?
Ogni artista ha le proprie spinte interiori, il proprio credo, dei punti di riferimento. Siamo sempre noi a definire i nostri limiti. Sempre. Le responsabilità dell’artista sono le stesse da secoli così come le crisi economiche e i tempi difficili. Per quanto mi riguarda, cerco ogni giorno le strategie adeguate per contrastare limiti, sovrastrutture, difficoltà.
A che cosa può aprirsi il mondo attraverso l’arte?
Alla consapevolezza. Alla sensibilità. Al rispetto.
Quanto può essere utile oggi a un artista esporre in un determinato contesto? E quanto può essere utile il loro passaggio al contesto che li accoglie?”
Certo che sono importanti i contenitori dove muovere contenuti e forme! È fondamentale selezionare bene e imparare ad avere pazienza. La fretta, la voglia di visibilità sono il male peggiore: blocca le energie, impedisce alla sperimentazione di attuarsi e al lavoro di evolvere secondo i tempi necessari. Prima ci deve essere il lavoro a parlare, poi il contenitore giusto. Mi scontro spesso con questo problema e cerco di non farmi prendere dall’affanno e nello stesso tempo mi obbligo a rallentare. In questo senso ho sempre cercato e cerco anche i miei compagni di viaggio: galleristi e curatori/critici. Io sono stata molto fortunata perché ho incontrato sempre persone che hanno capito e creduto nel mio lavoro e che, quindi, lo hanno anche promosso, presentato, venduto con questo tipo di attenzione e sensibilità.
Che progetti hai in cantiere?
Diversi… Ho in corso la mia personale a Torino alla Galleria Davico Arte e ho presentato al Circolo dei Lettori di Torino al monografia: Annalu’: works 1994-2014, un libro edito da Silvana Editoriale, con distribuzione internazionale, curato da Martina Cavallarin, presenza preziosa all’interno di questo progetto. La presentazione a Torino è stata voluta da Carlotta Canton, gallerista di Davico Arte ed è stata tenuta da Luca Beatrice e Guido Curto. Ci tengo moltissimo a questo libro e quindi lo presenterò in più momenti durante l’anno: a gennaio, durante Arte Fiera Bologna, sarò alla Galleria Forni con una personale mentre ad aprile, durante Miart, sarò in tre posti contemporaneamente: alla Fondazione Matalon a Milano, a scatolabianca Milano e alla Galleria Gagliardi, che promuove il mio lavoro da anni, con una mostra personale. A marzo 2015 presenterò la mostra personale presso la Parkview Gallery di Hong Kong, ad aprile la personale di cui parlavo poco fa alla Galleria Gagliardi e a luglio alla HoHo Art Gallery di Taichung a Taiwan. Ci sono poi collaborazioni su progetti davvero importanti: uno di questi è con la Amy d’Arte di Milano. Si tratta di un progetto che coinvolge artisti internazionali selezionati da Annamaria d’Ambrosio, titolare della galleria, per una nuova sperimentazione artistica che coinvolge Amy-d Arte Spazio e la piattaforma economART, piattaforma per un’economia di qualità. Il sogno è l’introduzione inedita e mai sperimentata in Arte Contemporanea di un nuovo materiale, definito dalla comunità scientifica il nuovo “Santo Graal”, materiale delle meraviglie e/o del futuro: uno strato spesso solo un atomo, composto di carbonio di dimensioni nanoscopiche. Si tratta del grafene. I progetti degli artisti coinvolti si svilupperanno nel corso del 2015 e ancora non sono riuscita a individuare il modo giusto per integrare questo materiale all’interno del mio linguaggio… ma sono fiduciosa che sperimentando qualcosa succederà. L’altra collaborazione è con la Galleria Mag di Como: con Salvatore Marsiglione stiamo cercando di organizzare una mostra in Giappone. Questi i progetti più avviati, ma ce ne sono altri che stanno prendendo consistenza piano piano sia in Italia che all’estero e quindi le date non sono ancora definite con precisione. In particolare esiste un lavoro in cui credo molto: si tratta di un progetto partito l’anno scorso da un’amicizia profonda che mi lega a Davide Puma e Tiziana Cera Rosco. Ci siamo dati i tempi per far maturare le cose, ed è fantastico, perché piano piano stiamo concretizzando un progetto a tre che prevede pittura, scultura e azione performativa… È un lavoro metamorfico a cui teniamo molto e che sicuramente, appena avrà preso la giusta forma, diventerà itinerante. E poi ci sono i progetti di scatolabianca cui tengo moltissimo e quelli di Frattura Scomposta e di Equilibri Arte, entrambi partner anche nella mia monografia.
Dai la risposta alla domanda che volevi io ti facessi e che non ti ho fatto...
Ho paura del buio per questo cerco di dare un volto alla luce.