In Italia, e non da oggi, si parla molto di cultura, ma si produce poco. Attorno alla famosa frase “con la cultura non si mangia” si è dibattuto per anni, e ancora si continua a parlarne benché l’autore sia da tempo uscito di scena. Ma la drammatica realtà è che tutto questo parlare non produce poi alcun cambiamento, in una situazione stagnante - anzi, spesso di autentico declino.
A non cambiare, sono ovviamente le politiche culturali, ovvero il modo in cui si legifera (a livello nazionale e a livello locale), e il come e il quanto si investe nel comparto. A partire dal fatto - per un verso simbolico, ma per un altro concettuale, indice del tipo di approccio mentale - che si continua ad abbinare la cultura con il turismo, finendo inevitabilmente per considerare la seconda come funzionale al primo. Il che è anche vero, ma varrebbe per tante altre cose, a partire ad esempio dai trasporti. Sarebbe invece più corretto considerare il turismo come parte delle competenze del ministero per lo sviluppo economico.
Com’è noto, uno dei problemi che deve affrontare il comparto culturale è, paradossalmente, la sovrabbondanza di beni culturali. Se si pensa al patrimonio artistico e architettonico che così densamente popola le città italiane, si comprende facilmente come questo - già di per sé - tenda ad assorbire una considerevolissima quantità delle risorse disponibili. Questo argomento viene spesso utilizzato per giustificare, da un lato, la scarsità degli investimenti in altri segmenti diversi dalla conservazione, e dall’altro la necessità di mettere a reddito il patrimonio culturale. Cosa questa, ancora una volta, anche giusta ma parziale; sarebbe infatti più corretto parlare di messa in valore, laddove l’aspetto della redditività economica è importante ma non il più importante. La valorizzazione dei beni culturali dovrebbe innanzitutto significare la riattivazione di un rapporto tra questi e i cittadini, la riscoperta da parte di questi ultimi del valore e del significato del proprio patrimonio culturale nazionale. Anche perché dalla qualità di questo rapporto discende non solo l’attenzione, ma anche la cura e il rispetto che ciascuno ha nei confronti di tale patrimonio. Diventa quindi necessario affrontare, in una prospettiva complessiva, la questione del patrimonio culturale italiano. Che non può essere considerato meramente come un onere, né per converso come un bene da sfruttare (l’ancora una volta famoso “petrolio dell’Italia”...).
Tale questione deve essere dunque affrontata secondo due assi: il cosa e il come. Fondamentalmente, abbiamo da un lato - come già detto - il problema della tutela e della conservazione di una immensa quantità di beni culturali storici; ma dall’altro (purtroppo spesso sottovalutato) abbiamo anche il problema di favorire la produzione di nuovi beni culturali, a meno di non volerci rassegnare all’idea di essere una cultura morta, e fare di questo paese un cimitero museale. Ugualmente, abbiamo la necessità di investire risorse su entrambe i versanti, e quindi quella di reperirle.
Questo è a sua volta un paese in cui il rapporto pubblico/privato è storicamente infelice. Le istituzioni pubbliche tendenzialmente diffidano dell’impresa privata, mentre questa guarda al pubblico con altrettanta diffidenza e (spesso) con voracità predatoria. Il risultato è che il più delle volte i trasferimenti - di risorse economiche e/o di beni in concessione - si traducono in uno spreco senza esiti positivi. L’unico modo per sbloccare questo impasse è ovviamente per via legislativa. E' necessario ridisegnare le regole che determinano questo rapporto, così come è necessario ri-definirne le finalità. Che devono essere, necessariamente e reciprocamente, convenienti e compatibili. Fermo restando che solo la ripresa di un dialogo tra questi soggetti diversi potrà, alla distanza, appianare le diversità di approccio.
Quello che manca non sono le buone pratiche, ma l’attitudine a considerarle. Si prenda ad esempio il caso Matera, appena nominata Capitale Europea della Cultura 2019. Se ne è parlato un po’ sui media, anche mainstream, perché in fondo nessuno avrebbe scommesso che a prevalere sarebbe stata una cittadina marginale, dovendo oltretutto competere con le più note e ricche Lecce e Siena. Ma difficilmente se ne studierà il modello. Come dice Joseph Grima, direttore artistico del progetto, “Si tratta di trovare altri metodi per produrre cultura, per attivare i luoghi al di fuori delle istituzioni”.
Ma in Italia prevale l’approssimazione, la reiterazione di modelli consolidati spesso soltanto dalla prassi e non dal successo; del resto, qui la pratica della valutazione ex-post è pressoché sconosciuta... Il successo di Matera, invece, ci indica innanzitutto come una diversa impostazione concettuale sia alla base di esiti positivi. Persino partendo da condizioni svantaggiate. Una cittadina di 60.000 abitanti, nemmeno collegata alla rete ferroviaria nazionale, priva di particolari beni artistici - i famosi sassi hanno infatti un valore storico-culturale, ma non sono monumenti in senso stretto. Anche il budget (54 mln, a fronte di circa 500 spesi da Marsiglia...) è in scala. Perché, come dice ancora Grima, “crediamo che avere un grande impatto non sia una questione di grandi risorse, è una questione di come vengono implementate”.
Sempre nelle parole del direttore artistico si ritrova quella impostazione concettuale di cui sopra, e che fa la differenza: “c’è questa idea della cultura che attiva l’economia, ma non attraverso semplicemente l’affidarsi ai beni storico-culturali e a quello che è stato il turismo di massa. La monetizzazione del turismo, che è stato il modello adottato da alcune città come Assisi, (...) non ci interessa. Vogliamo trovare un nuovo modello in cui la cultura fa parte dell’economia, della vita quotidiana e non sia disconnessa, come una sorta di entertainment, uno svago che si fruisce solo nel tempo libero, ma sia parte integrante del nostro modo di guardare la città e la vita quotidiana”. Ancora nelle parole di uno degli altri protagonisti di questo successo, Agostino Riitano: “La cultura, mai fine a se stessa, è l’unica chiave d’accesso per uno sviluppo finalmente postmoderno. Siamo quasi nel 2015 e sarebbe ora di abbandonare idee del primo ‘900”. Non a caso, la candidatura ha scelto come slogan Open Future.
All’opposto, e non a caso con esiti opposti, abbiamo il modello napoletano del Forum Universale delle Culture. Trasformato prima in terreno di scontro tra fazioni politiche, gestito per anni in modo confusionario e dilettantesco da una politica che non ha mai voluto passare la mano alle competenze vere, sino a partire (nel più assoluto silenzio mediatico) un anno dopo il previsto. E dopo il suo stentato avvio, si svolge nell’indifferenza della città - rimasta pressoché totalmente estranea - secondo un canovaccio assolutamente frammentario, privo di una identità e di un senso unitario, senza un vero direttore artistico, e con le valutazioni sui progetti da inserire nella manifestazione effettuate da un comitato inter-assessorile! Insomma, gli assessori comunali che valutano le proposte artistiche e culturali... E se pure il budget è ridotto (11 mln, a fronte degli oltre 100 inizialmente previsti), la questione è, ancora una volta, come si impiegano le risorse, ancor più di quante siano.
Sarebbe quindi davvero opportuno - e interessante... - far tesoro della lezione positiva di Matera; così come di quella negativa di Napoli. Le chiavi per il successo sono semplici, a volerle vedere, e soprattutto a volerle applicare. Innanzitutto, il ruolo della politica deve fermarsi all’assunzione delle decisioni generali, e poi al supporto istituzionale dell’iniziativa. Deve essere formata una squadra cui affidare la preparazione e la gestione degli eventi, scelta sulla base delle competenze e non della prossimità agli amministratori, e va lasciata lavorare in autonomia sino al compimento del progetto. La partecipazione attiva della cittadinanza, già nella fase progettuale, deve essere uno degli asset fondamentali, e va perseguita con determinazione e intelligenza.
Sapremo raccogliere la sfida di Matera? O continueremo a recitare il trito copione di Napoli?