Nel novembre 2014 sono trascorsi venti anni dalla prematura scomparsa di Lorenzo Bonechi, uno dei più significativi artisti toscani che, nonostante la breve parabola dell’attività artistica, ha impresso un segno indelebile nell’arte dell’ultimo scorcio del XX secolo. Viene ricordato ora con un convegno e delle mostre a Figline Valdarno, suo paese natale, e a Urbino.
Durante questi anni l’attenzione alla sua opera è ininterrotta, testimoniata da studi critici e rassegne postume, già a partire dalla Biennale di Venezia del 1995, l'edizione del centenario diretta da Jean Clair, alla quale era stato invitato nel novembre del 1994, appena prima del decesso, dove gli saranno dedicate due sale del padiglione italiano. L’anno successivo segue l’esposizione di opere grafiche, curata da Giovanni Agosti, al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, a partire dalla consistente donazione fatta dall’artista e con il contributo di molti collezionisti. Nel 1997 la prima mostra complessiva che raccoglie una selezione di dipinti, disegni e incisioni, è realizzata a València, in Spagna, curata da Carles Marco; nello stesso anno, in occasione del terzo anniversario della morte, l’Amministrazione comunale di Figline Valdarno gli dedica una piazza cittadina. Tra il dicembre del 2004 ed il febbraio dell’anno successivo nel Palazzo Pretorio di Figline e in Palazzo Strozzi a Firenze viene allestita la significativa retrospettiva, a esclusione dell’opera grafica e delle sculture, Lorenzo Bonechi 1955-1994 Pittore di Luce, per la cura di Moreno Bucci e Carl Brandon Strehlke.
Nuovamente a Valencia nel 2007, questa volta al Museo di Belle Arti, viene presentata l’esposizione di grafiche Lorenzo Bonechi. Els Gravats, a cura di Maria Esteras Ribera e Carles Marco. Nel 2008 viene prodotto I luoghi dell’anima. Lorenzo Bonechi, cofanetto che racchiude l’opera musicale, Poema. In cinque atti del maestro Orio Odori, l’antologia di saggi a cura di Daniela Matteini e le video interviste Conversazioni – Tracce di Cristina Bonechi, coordinatrice dell’intero progetto. Nel 2009, invece, in seguito all’acquisizione di un’opera per la collezione del Museo Pecci di Prato viene allestita una personale, mentre a Palazzo Concini di Terranova Bracciolini, è la mostra Lorenzo Bonechi. Sculture e paesaggi, a cura di Moreno Bucci e Carles Marco, dove viene proposto per la prima volta il catalogo completo delle sculture e un florilegio di foto. L’ultima retrospettiva Lorenzo Bonechi. Viaggio terrestre e celeste è realizzata nell’estate del 2013 dalla Soprintendenza aretina e curata da chi scrive, nelle due sedi del Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo, dove sono esposte pitture e sculture, e della medievale abbazia di Soffena in Castelfranco che vede l’allestimento delle grafiche. Ciò per ricordare solo le personali mentre numerose sono le partecipazioni postume a collettive e rassegne sull’arte non solo italiana.
A un ventennio di distanza, l’opera di Lorenzo Bonechi, nata nella stagione artistica tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, si pone ancora come esemplare modello di un linguaggio straordinariamente raffinato e gentile, germogliato dall’humus di una rinnovata traduzione della pittura antica, tra bizantino, gotico e protorinascimento, tale da acquisire un carattere di universalità da farla sembrare immobile nel tempo. Il fermento artistico della fine degli anni Settanta ritrova nel ritorno alla pittura, sia come opposizione sia come ripensamento dei modi dell’arte povera e concettuale, un nuovo slancio operativo: la figurazione viene coniugata in senso nomadico-sciamanico dagli artisti della Transavanguardia oppure guardando al passato, come nei citazionisti, anacronisti e pittori colti, definizioni dietro le quali si raccolgono artisti di aspirazioni e soluzioni diverse, alcuni intenti all’integrale recupero della pittura quasi come reperto archeologico, altri a cercare l’accesso al mito per una koinè contemporanea di superamento delle neoavanguardie.
L’interessamento di importanti gallerie e l’apprezzamento dei collezionisti fa sì che Bonechi sia assimilato all’ambito della Pittura colta, etichetta che allora trova un ampio consenso, ma i suoi esiti si presentano abbastanza distinti. Il distacco si sottolinea fin dall’inizio ma si registra quando l’artista decide di affrontare la copia dal passato, indirizzandosi allo studio dei pittori bizantini e trecenteschi. In realtà, più che di copia, è proprio un calarsi nell’identità pittorica, ovvero una tensione più profonda, a coinvolgere la dimensione psicofisica del dipingere. Quindi non l’imitazione per fini di seduzione estetica, quanto piuttosto la volontà di impadronirsi degli stessi segni e gesti, riconquistando in tal modo la disposizione d’animo, l’atteggiamento mentale e la visione degli antichi maestri.
La sua attività inizia molto prima, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, l’esordio pubblico è del 1979 al Palazzo Pretorio di Figline con lavori di pittura e di grafica. Alla grafica si dedicherà con impegno parallelo negli anni e da questa, che godrà sempre di autonomia rispetto alla pittura, arriveranno i primi riconoscimenti. Partendo dalla frequentazione della Calcografia Studio dei fratelli Carini a San Giovanni Valdarno, Bonechi muove i primi passi, entra in rapporto con Italo Mussa che lo presenta al gallerista romano Pio Monti, e dove conoscerà Gian Enzo Sperone e gli artisti Carlo Maria Mariani, Roberto Barni, Carlo Bertocci con i quali, nel 1983, partecipa a Prato alla sua prima importante collettiva dal titolo Picturae. Seguiranno nel 1984 le personali alla Carlsson Gallery di Goteborg, alla ABC Fine Art di Londra e l’anno successivo inaugura la nuova sede della Galleria Carini a Firenze, poi sarà a Londra alla Fabian Carlsson Gallery, alla Deborah Sharpe Gallery di New York, città in cui tornerà nel 1993 per una delle sue ultime mostre alla Galleria Sperone-Westwater.
L’attività espositiva non lo distoglie dal costante impegno per la ricerca, e non si fa distrarre dal mercato che in quegli anni è molto lusinghiero, così da prendere le distanze dalla corrente della Pittura colta e i dal 1986 si lascia alle spalle un tratto commercialmente riconoscibile e apprezzato ma che già avverte come limite. Nel corso di un quindicennio la sua pittura fluisce dal caratteristico segno filiforme e “arruffato” ad una pennellata che si distende a distribuire superfici compatte dove la luce definisce contrasti cromatici netti ed il colore guadagna tonalità accese. Gli sfondi dei paesaggi, aerei e celestiali, si consolidano in spazi monocromi di rossi, di blu, di gialli, coesi e piatti, ma talvolta le figure si illuminano di frequenze acide, colori pop dalla fluorescenza del neon. Le figure si allungano e si irrigidiscono in pose ieratiche a toccare come cariatidi i confini interni del quadro. Strutturando nuovi ordini compositivi, scandiscono la distribuzione dei piani e impongono ritmo seriale all’incedere processionale dei cortei muliebri, si articolano negli spazi aperti degli edifici e dei loggiati nei convivi, si offrono nelle docili pose teatrali delle conversazioni. I vestiti e gli attributi sono ridotti all’essenziale, una tunica per le donne, pantaloni e golf per gli uomini. Pochi eloquenti gesti, rendono i personaggi anonimi e non collocabili nel tempo, fuori dalla storia conversano nel giardino pittorico dell’immaginario collettivo, figure platoniche che abitano la dimora filosofica dell’arte.
Questa idealizzazione della classicità è conseguita attraverso un processo di riduzione generale - segno, colore, tematiche, paesaggi, personaggi - che rivoluziona la volontà conoscitiva, trapassando dalla visione raffigurativa alla rappresentativa, dal reale al simbolico. Uno scarto notevole che si consolida a partire dall’interesse per la costruzione formale dell’icona perché - come afferma Pavel Florenskij ne Le porte regali. Saggio sull’icona - questa stessa apre alla conoscenza del mondo soprannaturale. Egli si rende conto che per penetrare il “segreto” della pittura deve sciogliere questo nodo. L’arte bizantina e gotica divengono paradigma formale dove calarsi per attingere al senso del sacro. Studiando la concisione e sintesi del linguaggio dell’icona è attratto dall’impersonalità del segno della pittura medievale e orientale, secondo cui l’artista rinuncia al suo tratto distintivo, per fluire in un segno collettivo, per uniformarsi alla tradizione ed essere canale del divino, un atto di umiltà e non di esaltazione delle proprie capacità. Infatti, prendere a modello i suoi favoriti, da Duccio a Sano di Pietro, a Sassetta all’Angelico, risponde anche all’esigenza di rifondare la pittura, dandole un nuovo valore etico che non può non partire da una riflessione essenziale, la bellezza è davvero tale se non è fine a se stessa ma esprime la dimensione trascendentale dell’esistenza.
Nel ciclo delle città celesti convergono gli esiti ultimi dell’immagine simbolica, dell’impersonalità del segno, del rigore etico della sperimentazione. Queste originano dai paesaggi di fondo dei dipinti con figura, acquistando sempre più autonomia, diventano protagoniste della scena: il cielo, gli edifici, le mura sono campi monocromi, piani riquadrati di colori alternati in cui si aprono finestre lunghe come feritoie, su cui germogliano rami vegetali come emblemi di rinascita. Volge verso il limite dell’astrazione geometrica, si compie la congiunzione tra occidente e oriente, tra figurazione e decorazione, tra cortine bizantine e tavole miniate, ricongiungendo le decorazioni paleocristiane a Mondrian.
L’opera di Bonechi percorre due orientamenti, una tensione religiosa che non è meramente confessionale ma è agnizione del sacro che considera la pittura come mezzo e strumento di “rivelazione”, ambisce al contatto con l'Assoluto, prospettandone la restituzione nel panorama dell’arte contemporanea del Novecento. L’altro è invece la riscoperta delle forme dell’Umanesimo, nel senso di humanitas, che si manifesta negli ultimi anni in una diligente pennellata, accurata e fine, delle figure che acquisiscono una solidità tridimensionale muovendosi nell’aria cristallina. Richiamandosi alle analoghe sacre conversazioni medievali e rinascimentali, le conversazioni accompagnano l’artista negli anni. E’ una comunicazione fatta di mani che accennano, che indicano, di sguardi sognanti, fissi su un altro piano di esistenza e sebbene esibiscono l’intimità di un dialogo in realtà sembrano fuggirlo, percorsi da una impalpabile attesa di annuncio, di una fatale rivelazione.
Assimilata la lezione bizantino gotica, Bonechi riconquista la visione dell’Umanesimo, ritrova nei dipinti solidità strutturale e prospettica, pervenendo infine all’armonia tra realismo, simbolismo e astrazione. E’ ciò che esprime la cultura figurativa del primo Quattrocento, momento storico di ineffabile equilibrio, tra rigore medievale e sontuosità rinascimentale ed è, infine, ultimo approdo dell’artista di Figline, diretto erede di una terra ineguagliata di artisti che, rivivendone le radici, è riuscito a rinnovare il più puro spirito dell’arte classica nella pittura figurativa contemporanea.