Molti credono che chi sorride con dolcezza e si comporta in modo tranquillo e prudente sia di fatto un debole. Negli Usa chiamano "looser" (perdenti) quelli che scelgono la strada della dolcezza e della misura, perché nei modelli mentali occidentali quasi sempre si associa l'idea di dolcezza ad atteggiamenti remissivi, di debolezza, di arrendevolezza e di subordinazione. Soprattutto le donne subiscono questi pregiudizi, da parte di una cultura che le vuole legate a sentimenti di prudenza e di autocontrollo in tutto il loro vissuto, sul luogo di lavoro, tra gli amici e nelle sue relazioni affettive e amorose.
Non parleremmo di “pregiudizi” se questa visione remissiva - non solo del ruolo della donna (infagottato di dolcezza e moderazione) ma anche del comportamento di tutte le persone miti - non si scontrasse poi con ambiti sociali e istituzionali dove invece si preferiscono rapporti a muso duro, e relazioni in cui prepotenza e prevaricazione trovano ampio spazio. Riscoprire moderazione e pacatezza, sul lavoro ma soprattutto in famiglia e con i proprio figli, consente infatti di ottenere straordinari successi di comunicazione e di relazione. Certi pregiudizi hanno radici profonde e lontane. Alcuni si legano a codici comportamentali patriarcali, in vigore anche in occidente sino a pochi decenni fa, che volevano la figura paterna legata a un ruolo di stretta severità, e che la dolcezza fosse unico patrimonio del ruolo materno.
Sia nella cultura cristiana che in quella ebraica è stato forte per secoli, del resto, una visione del Dio Padre (soprattutto quello dell'Antico Testamento, ovviamente) come figura severa, vendicativa, giudice inflessibile e disumano. Eppure, nelle pagine dei profeti, molto spesso questa stessa severità divina è avvolta nella più profonda dolcezza. Il Dio della Torah, per descrivere la sua potenza, non disdegna di usare la figura del miele: “Io come una vite ho prodotto germogli graziosi e i miei fiori, frutti di gloria e ricchezza. Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei prodotti. Poiché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele. Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me, avranno ancora sete”.
Anche la rivelazione e la parola di Dio ha il sapore del miele: “Mi disse: "Figlio dell'uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va e parla alla casa d'Israele". Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: "Figlio dell'uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo". Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele”. Esemplare l’inno che Ezechiele dedica a Gerusalemme: “Così dice il Signore Dio a Gerusalemme: Tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita. (…) ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo: misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo. Così fosti adorna d'oro e d'argento; le tue vesti eran di bisso, di seta e ricami; fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo; diventasti sempre più bella e giungesti fino ad esser regina”.
Lo stesso ricordo di un caro amico, nella Bibbia, ha il sapore del miele:“Il ricordo di Giosia è una mistura di incenso, preparata dall'arte del profumiere. In ogni bocca è dolce come il miele, come musica in un banchetto. Egli si dedicò alla riforma del popolo e sradicò i segni abominevoli dell'empietà”. Addirittura negli ultimi capitoli dell’Apocalisse leggiamo: “Mi avvicinai all'angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: "Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele". Presi quel piccolo libro dalla mano dell'angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l'ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l'amarezza” .“Non mi allontano dai tuoi giudizi – recita il Salmo - perché sei tu ad istruirmi. Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca”. Forte, nella Bibbia, la dolcezza della sensualità, esemplare quella del Cantico dei Cantici: “Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c'è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano”. E, poco più avanti: “Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari”.
Cristo stesso, nell’intervento profetico di Isaia, diventa “colui che mangia il miele”: “Pertanto – scrive il profeta - il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene. (…) Avverrà in quel giorno: ognuno alleverà una giovenca e due pecore. Per l'abbondanza del latte che faranno, si mangerà la panna; di panna e miele si ciberà ogni superstite in mezzo a questo paese. Avverrà in quel giorno: ogni luogo, dove erano mille viti valutate mille sicli d'argento, sarà preda dei rovi e dei pruni. Vi si entrerà armati di frecce e di arco, perché tutta la terra sarà rovi e pruni. In tutti i monti, che erano vangati con la vanga, non si passerà più per paura delle spine e dei rovi. Serviranno da pascolo per armenti e da luogo battuto dal gregge”.
Anche in molte antiche mitologie non ebraico-cristiane il miele è definito “cibo degli dei”, simbolo della Terra Promessa, la più dolce delle metafore poetiche, fino a diventare spesso importante fonte di allegorie dove la gioia eterna è simboleggiata dall’abbondanza di latte e miele. Se la figura del miele è così costante in queste pagine lo si deve al fatto che ogni metafora, anche quelle sulla dolcezza, nascono dalla realtà tangibile: ogni simbolo si sviluppa da un'esperienza concreta. Se nel linguaggio quotidiano ogni sensazione gratificante si è potuta definire "dolce", ciò vuol dire che, a gratificarci, è sempre il sapore dolce, e che solo la dolcezza del dolce rende plausibile la dolcezza del resto. A volte in modo così forte da poter assumere, nelle principali religioni monoteiste, stretti connubi, come abbiamo visto, con la figura dell’Assoluto. Non è che la conseguenza del fatto che, fin dai primi istanti di vita, ogni essere umano inizia un percorso che gli consente di distinguere i sapori e di apprendere i riti del cibo.
In questo processo uno degli incontri più fulminanti è quello con la dolcezza, che nulla ha a che fare col latte materno (del tutto insapore), ma con tutto ciò che rimanda alla delicatezza della frutta matura e dei suoi succhi, del miele e dello zucchero. E la dolcezza è, prima di tutto, un sapore che è stato capace di diventare sinonimo di tutto ciò che è sicuro da ingerire, ma anche di alimento ricco di energia. Nutrirsene ha significato, per millenni, avere più probabilità di sopravvivenza e poter trasmettere alla discendenza i caratteri più solidi. La dolcezza - uno dei culmini del piacere dei sensi - è diventata così, per estensione, il termine per definire tutto ciò che è gradevole ai sensi, non solo alla gola ma anche alla vista, all'udito, all'odorato. O quanto, in una persona, appare piacevole e di temperamento mite. O un suono che ci sembra amabile.
Si è usato per secoli il termine “dolcezza” anche per definire la caratteristica di un’acqua con quantità minime di carbonati di calcio o di magnesio. Così, per ulteriore ampliamento, diventano dolci anche i climi tiepidi, i paesaggi privi di asprezze, le relazioni che rallegrano, i sentimenti che commuovono e tutti coloro hanno verso di noi atteggiamenti affettuosi e gentili. Definiamo quindi “dolce”, in generale, tutto ciò che, in un modo o nell’altro, si lega al piacere fisico, ideale o sentimentale.