Ai tempi di Laozi in Cina o di Gautama Siddhartha in India mancavano conoscenze sulla struttura del cervello e le prerogative funzionali della mente. Si erano sviluppate tecniche di concentrazione, di controllo del respiro e di alchimia interiore, si osservava come si pensa, si sente, si agisce meditando in modo lucidamente imperterrito. L'impostazione dualistica in Occidente considera 'irrazionale' e dunque poco affidabile un'esperienza acquisita nel silenzio contemplativo, quello ad esempio dei mistici attecchiti in ogni tempo e in ogni luogo di questa turbolenta Terra.
A seconda delle concezioni religiose in cui ognuno di loro si è formato, la prospettiva cambia non poco. Ad esempio, se per un cristiano il sopra e il sotto, l’alto e il basso delimitano i piani di realtà tra terra e cielo, creatura e Creatore, per un buddhista trascendenza e immanenza coincidono in interiore homine ossia dentro di noi, il che è riconoscibile da chiunque, credente o laico che sia. Il laico a sua volta, se appena si sofferma sulla questione, non avrà difficoltà a constatare che noi, ciascuno e tutti insieme, si è parte di un sistema prevedibilmente sconfinato: terra, sole, luna, altri pianeti, altri satelliti, altri soli, cielo profondo.
E se taluno per puro caso ha sentito parlare del dao cinese, saprà che dao, alla lettera “cammino”, non distingue il sopra e il sotto, il dentro e il fuori. Nella prospettiva della mente taoista dao è il corso perpetuo delle cose. Fin qui, niente di astruso e non occorre avere studiato chimica, matematica, biologia o astrofisica per constatare che le cose stanno così. Se poi si è disposti a scavare un tantino addentro in ciò che siamo, ci viene incontro l’idea buddhista che a reggerci ‘siamo’ in tre: corpo-parola-mente.
“Corpo” è bìos, la struttura biologica: ci è data in affitto e occorre tenercela cara; “Parola” è voce, il potere di esprimersi. Tutti gli esseri senzienti ce l’hanno: un miagolio, un belato, un barrito, il grido delle gru in volo, l’urlo delle scimmie saltatrici non equivale alla ‘nostra’ voce ma esprime lo stesso qualcosa. Quanto a “Mente”, essa è l’officina non esclusivamente cerebrale (a detta di taluni esperti del campo), che vede e provvede a tutto, incluso il ragionamento elementare che veniamo facendo.
Negli ambienti buddhisti la triade di “corpo-parola-mente” riassume la condizione umana con un’aggiunta decisiva: siamo “coscienti” e l’esserne “consapevoli” fa sì che l’esistenza acquisti un diverso spessore non appena invece di ‘usare’ corpo-parola-mente come meccanismi automatici provvediamo a “educarli” in modo deliberato. Loro sono “me” e se li lavoro a puntino, il mio sarà un cammino più lucido e meno arrischiato.
É evidente che l’impegno e lo sforzo personale non vanno lesinati: dall’India, al Tibet, alla Cina, alla Corea, al Giappone, le discipline che aiutano ad una deliberata educazione del tre-in-uno sono note da qualche millennio, e non occorrono titoli di studio speciali: la schiera sterminata di individui che si regge a malapena sulle proprie gambe e patisce in continuazione potrebbe, volendolo, senza spesa, praticare gli allenamenti sottili del tre-in-uno con qualche evidente vantaggio.
Ne sono prova i circensi: equilibristi sulla fune, trapezisti, lanciatori di anelli e piattini, pagliacci travestiti da idioti che attirano risate divincolandosi in un sacco a capitombolo, mostrano così esibendosi che chiunque può farlo: l’allevatore di armenti, il commerciante di spezie, il pescatore, il giocatore di go, il cuoco, il venditore ambulante, la levatrice, il becchino, il raccoglitore di stracci e nondimeno i tanti che simulano furbizia e tessono inganni.
Corpo-parola-mente sono gli ‘indivisibili’ coi quali vedersela nella buona e nella mala sorte come si diceva un tempo. In estremo Oriente ci sono società che li tengono d’occhio da sempre. Tanto per cambiare l’origine storica dell’attenzione ai tre-in-uno attraverso l’India, il Tibet, la Corea e la Cina è buddhista ma la ricetta dello zen (cin. Ch’an) è tutta nipponica: contemperare lo sforzo personale (giap. ji) all’evenienza di un dono dall’Alto (‘cielo’ giap. ta).
Se ji indica quel che si può fare grazie allo sforzo personale, ta è qualcosa di simile all’idea cristiana di Grazia, capace di dare un soccorso in più chiamato da quelle parti ‘risveglio’. Le ‘vie’ giapponesi al ‘risveglio’ ossia al controllo efficace di corpo-parola-mente sono in alternativa ji-riki e ta-riki. Senonché la flessibilità connaturata alla forma mentis nipponica che è altresì imperativa (si pensi all’auto-sacrificio dei kamikaze) - tende a evitare che la pratica convinta dell’una, poniamo ji, escluda perentoriamente l’evenienza dell’altra: sarebbe infatti bizzarro rifiutare un soccorso in sovrappiù dalla parte di ta.
Ciò farebbe pensare a una trascendenza e Jodo Shinsu, la Scuola buddhista della Pura Terra effettivamente vi si affida; tuttavia, il ‘credere’ per fede non ha il pathos presente nel Credo cristiano o islamico. Se per i monoteismi emersi dalla radice ebraica, l’investimento di fede è essenziale a giostrare tra basso e alto, creatura e Creatore, nella visione buddhista puntata sul ‘dentro’, il lavoro autonomo dei ‘tre’ compagni si compie proprio lì!
Quanto al taoismo, ogni direzione inscritta nella rosa dei venti non è che il ‘cammino’ stesso: assieme a falene, megattere, oceani, vulcani e microparticelle produttrici del Tutto, ne siamo volenti o no compartecipi lastricando le strade che è la Vita stessa. Attenuare la boria invadente dell’‘io’ tiranno, se appena ci si riesce, è il suggerimento valido in tutti i casi.