Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero
(Atto I - scena III)
Opera. Lirica. Bel canto e musica. E’ tale il fascino incantatorio di tale abbinamento che chi l’ascolta spesso sorvola sulle parole e persino sulla comprensibilità del testo e chi lo conosce non è abituato comunque a valorizzarlo autonomamente dal fraseggio musicale e dalle abilità canore. L’interpretazione della narrazione viene sostituita dall’interpretazione vocale. Il mio interesse invece si è concentrato semplicemente sull’opera lirica quale fatto narrativo e quindi il libretto deve essere posto quale dimensione genetica e fondante e non più considerato quale mero accidente e occasione per la manifestazione del genio musicale. Lo richiede la prospettiva ermeneutica quando supera lo storicismo e si concentra sui fondamenti di un'analisi che non può che svilupparsi in una declinazione “psicostrutturale”.
In questo senso è proprio la limitatezza del testo, le sue rime, il suo incedere compositivo, la sua asciuttezza congiunta a un'ampiezza ritmica malleabile a rappresentare un fattore di condizionamento e di ispirazione per la sua musica, che, in ogni caso, non verrà in questa analisi considerata. Solo con un buon libretto il genio musicale poteva raggiungere il suo acme. Il risultato lo anticipiamo: l’opera lirica resta tale anche a livello meramente testuale quale fattore linguistico ed espressivo dotato di efficacia mitopoietica, complessità e profondità. L’opera lirica quale fatto narrativo è opera lirica in primo luogo nel suo libretto, al di là di ogni discorso o prova di precedenza cronologica.
Nella Traviata il valore delle parole si impone fin dalle prime righe e addirittura nella descrizione fisica della prima scena del primo atto: “Violetta, seduta sopra un divano, sta discorrendo con il Dottore.” La stessa posizione d’ambientazione della protagonista nel chiacchiericcio festivo pone un’ombra di morte sull’opera che ritornerà ciclicamente fino al suo drammatico epilogo e che rappresenta uno dei suoi tratti salienti simbolico-narrativi. La Traviata è un viaggio dentro la Morte, nel quale l’amore al massimo può assurgere a destino e a sacrificio. Quest’aura sinistra si allunga anche sull’altro protagonista: Alfredo. Da accenni impliciti come l’autoparagonarsi di Violetta a “Ebe che versa”, rinviando a una prospettiva di felicità non terrena, all’emergere esplicito del tema della morte, del destino e della sorte nell’allusione mitologica all’autosacrificio fatale di Heracle. Nella risposta di Violetta al brindisi di Alfredo si accenna malinconicamente al godimento fugace dell’amore quale “fior che nasce e muore, né più si può goder”, mentre Alfredo iniziando a svelare il suo amore per Violetta ne parla in modo serioso, sofferente, drammatizzante.
E’ un’idea di amare simile alla percezione leopardiana dell’innamoramento quale drammatico sconvolgimento che toglie la pace e la serenità. Alfredo contesta a Violetta che se avesse un cuore non potrebbe scherzare sulla sua dichiarazione d’amore. Un'ombra scura sembra accompagnare lo svilupparsi della loro dinamica amorosa. Se Violetta manifesta subito ad Alfredo il suo “manifesto di vita” incentrato all’ebbrezza (la vita è nel tripudio) Alfredo vi contrappone l’amore quale antitesi alla spensieratezza e quale “destino” che lui subisce. Questa concezione “passiva” del predominare dell’Amore su chi ama viene celebrata da Alfredo nella celebre aria “un dì felice, eterea” che non a caso sostanzia anche l’ouverture dell’opera e rappresenta il manifesto d’amore di entrambi in quanto viene presto ripresa e cantata dalla stessa Violetta. Un amore che è già strutturalmente tragico in quanto cosmica potenza che usa i suoi attori che appaiono più sue vittime e maschere che consapevoli protagonisti di una scelta di vita.
La dinamica psicologica si declina all’interno di coordinate già date che pre-programmano la conclusione finale. Alfredo infatti in questa struggente aria canta l’amore quale forza cosmica, “altera”. Un amore “ignoto”, quindi inconsapevolmente subìto ("Io v’obbedisco, parto"), quasi prepotente nel suo imporsi, che sembra molto simile al concetto di destino che infatti ritornerà più volte nella narrazione. Un’eco della spiritualità cortese, decontestualizzata e individualizzata dal nuovo corso borghese? Il canto dell’amore quale “croce e delizia” non a caso è preceduto dal quasi svenimento di Violetta e dal suo improvviso pallore che a lei si rivela allo specchio, altra allusione a una morte che avanza, ed è seguito dal suo presentimento: “sarìa per me sventura un serio amore?” La prorompente dichiarazione d’amore di Alfredo produce un effetto di smascheramento nell’autocoscienza di Violetta. Parigi le sembra ora un deserto e l’ebbrezza di una vita dissipata viene percepita quale follia “arida” e non più solo piacevole. Mentre Flora è l’alter ego di Violetta, refrattario all’interiorizzazione, alla metanoia, Violetta si rispecchia in Alfredo e si scopre esistenzialmente “pallida”.
Quel carattere “etereo” che Alfredo idealizza e mitizza in senso ancora dolcestilnovistico nel rapporto di Violetta con Violetta fa emergere la sterilità dell’assenza di una vita di relazione affettiva e sentimentale. Ma il cambiamento richiede e produce sofferenza. Violetta fugge dai pensieri cupi che l’amore di Alfredo le induce in merito al rapporto con se stessa tornando per un momento a cantare la “follia” del vivere quale opzione positiva, quasi necessitata, come un destino di vita. “Nasca il giorno o il giorno muoia”. Qui Violetta sovrasta iperuranicamente il sinusoide del mutevole, partendo da un centro d’esistere che non vuole sopportar alterazioni di scambio. La fierezza quasi epica di questo canto di Violetta rinvia a una concezione ciclica, greca, dell’esistenza che stride con la concezione progressivamente lineare di Alfredo, implicitamente cristiana.
Violetta diventa incerta sulla sua concezione di destino. Violetta accenna al fato (Signor dell’avvenire) verso la fine del primo atto e parla dell’amore quale “divino errore”, quale eccessiva follìa. Il tema del destino tornerà con forza più avanti in più occasioni: nella prima risposta di Violetta alla richiesta di Giorgio Germont (ero felice troppo) dove sembra emergere il concetto greco di ybris, e di conseguente vendetta divina, nel richiamo al destino nell’aria Di Provenza il mar il suol, nel coro delle zingarelle della scena decima del secondo atto. Il senso del dramma e della tragedia veicola echi addirittura mistici e cosmici nell’immagine che Violetta percepisce di se stessa quale donna sola e abbandonata in un deserto.
Ebbene questa immagine non può non ricordare quella della prostituta dell’Apocalisse e della sua terribile fine. Biblicamente il deserto è segno di elezione, ma anche di esilio quale condanna divina per l’adulterio/tradimento. Altri due temi antichi possono essere scorti nella narrazione. Il tema del locus amoenus e della felice vita di campagna e il tema del sacrificio. Per il primo basti notare che il coronamento della passione amorosa porta Alfredo e Violetta a lasciare Parigi, simbolo della vita folleggiante e notturna, per una villa di campagna dove la vita trascorre serena, quieta come in quello che Germont padre stigmatizza quale “sogno seduttore”. Si tratta dell’immagine archetipale dell’età dell’oro saturnina, cronia, dove i ruoli sociali si dissolvono e domina un presente immoto e agreste. Non a caso all’agosto del primo atto, segno della canicola violenta dello scatenarsi della passione amorosa, segue il gennaio sobrio e asciutto del secondo atto, dove un po’ di dolce luce solare entra in una narrazione quasi tutta notturna.
Luce senza fiamma. Gennaio segno di Giano, alter ego di Saturno, il nume del capovolgimento, dell’occultamento e della trasformazione. Notti estive e giorni di gennaio. Alfredo decanta questo tempo quale dimensione di felice oblìo dove l’amore soddisfatto lo (e li) rende dell’universo immemore. Curioso che l’amore quale potenza cosmica, quasi impersonale nel suo imporsi, universale, produca poi nelle sue vittime un’inconsapevolezza altrettanto universale. Violetta e Alfredo vivono come “in trance”. Nello stesso tempo questo gennaio amoroso è tempo di nuova nascita interiore che sembra accordare i moti dell’animo ai moti della natura: "Io rinascer mi sento". Il secondo atto è la narrazione dei movimenti nascosti, silenziosi, simulati, saturnini. Il primo sembra un segno quasi autodistruttivo imposto da Amore a Violetta: l’alienazione di tutti i suoi beni. L’età dell’oro quale archetipo implica infatti un felice nascondimento apparentemente povero in quanto spogliato di tutte le apparenze. Il cielo in terra è libero da vincoli e pesi. Questo movimento induce un “risveglio” in Alfredo da uno stato di “turpe sonno”. Ma può esserci sogno senza sonno?
Il tema antico dell’oro e dei campi felici balugina un ultima volta in un suo mascheramento imprevisto, effimero, paradossale, quando uno sconvolto Alfredo, giocatore audace e temerario, sfida la sorte e dichiara: "Oh vincerò stasera e l’oro guadagnato poscia a goder tra’campi ritornerò beato!". Il tema del sacrificio, come quello della morte, è un filo rosso che accompagna tutta la narrazione. Il gioco d’azzardo è la versione borghese ed effimera della sostituzione essenza del sacrificio. E questo tema viene rafforzato da immagini antiche come quella dei fiori, che non a caso cingevano il capo delle vittime sacrificali nei riti precristiani. Fin dall’inizio il segno del fiore sottolinea lo snodo decisivo della vicenda quando Violetta offre ad Alfredo un fiore che decora il suo decolté, promessa che apre la speranza d’amore per Alfredo e produce un processo di relazione destinato a crescere. Il gesto ricorda quelle antiche ritualità che legavano la dama medioevale al suo cavaliere e campione. Ma un’ombra mortifera e sacrificale oscura questa bella immagine della scena terza del primo atto in quanto l’associa immediatamente al suo effimero appassire, accostando quindi un idea di morte con il pensiero del ritorno di Alfredo da Violetta, nome floreale.
Il tema del sacrificio viene poi posto esplicitamente dal padre di Alfredo nella sua drammatica richiesta di rinuncia all’amore per salvare il matrimonio della figlia in una logica sostitutiva tipica di ogni sacrificio. La sostituzione è perfetta in senso simbolico in quanto alla figlia pura siccome un angelo corrisponde Violetta vista da Alfredo: un dì felice etera mi balenaste innanzi. Violetta subisce un trasfert indotto da Germont e intercorrente fra la propria nuova autocoscienza e l’immagine integra della sorella di Alfredo nella quale Violetta proietta i propri sogni di redenzione. La figlia di Germont è una Violetta inviolata. A questa richiesta Violetta tenta tuttavia di sottrarsi rispondendo con la sua drammatica dichiarazione: "colpita d’atro morbo è la mia vita". E’ come se Violetta tentasse di liberarsi dall’esigenza di sacrificio che incombe con il carattere già tragico e sacrificale della sua stessa esistenza. Ma non serve. Morte e sacrificio appaiono intrecciate inestricabilmente. Nella logica solare, razionale e lineare di Giorgio Germont è proprio la malattia a dover rendere per Violetta più accettabile il suo sacrificio di rinuncia all’amore.
Con Alfredo invece il padre utilizza due tecniche retoriche sinergiche: l’appello agli elementi della natura quale metafore di armonia e serenità e quali archetipi di stabilità, (il mare, il suol, il natio fulgente sol) e l’introduzione dell’immagine di Dio. Di fronte all’Amore quale energia cosmica che Alfredo subisce in modo passivo, lunare e femminile (all’inizio del secondo atto computa il tempo in senso lunare) Giorgio si appella all’opposto archetipo della luce diurna, della terra paterna e natale e dell’idea di Dio. Tre aspetti complementari che spingono la psiche verso un atteggiamento virile, controllativo e attivo. Ancora una volta torna l’immagine dei fiori associati al sacrificio, a una Violetta ormai vittima sacrificale: sarò là tra quei fiori, presso a te sempre. Il tema dell’eroismo e del sacrificio emerge poi nel racconto recitato e festivo dei Mattadori.
Come sintetizzò Nietzsche nella Genealogia della Morale: ci può essere festa senza crudeltà? Il racconto è semplice ma non banale. Il torero dovette uccidere cinque tori per provare il suo amore e coronarlo. E’ prova simile a quella che cerca Alfredo nel suo disperato gioco d’azzardo. La prova sacrificale della sorte. Avrà conferma dell’amore di Violetta ma a prezzo della sua infamia e del suo pubblico svenimento, anticipo dell’imminenza della sua morte. La scena dei Mattadori sembra continuare in quella finale del carnevale dove compaiono ancora i fiori in modo tragicomico e drammaticamente beffardo. I tori del racconto e delle maschere sono preceduti e seguiti dal canto del bue grasso, cinto di fiori quale bestia sacrificale. Al sacrificio gaudente del Carnevale si svolge in parallelo il sacrificio già quaresimale di Violetta la quale non a caso accenna al Tempio: "a un tempio Alfredo andiamo, del tuo ritorno grazie rendiamo". Il sognato ritorno ai felici campi e l’auspicata definitiva uscita da una Parigi che appare simbolicamente quale mortifera Babilonia, si risolve metafisicamente nel ritorno di Violetta alla casa del Padre. Nell’ora settima scende la pace quale immoto centro attorno a cui impazza la follia del mondo.
La purificazione propria del tempo di febbraio, il tempo del terzo atto, è ora compiuta. La Redenzione è possibile ma solo quale varco verso la vita oltre la morte. Nella vita terrena l’amore non sfugge alla complementare polarità della morte e del sacrificio. Se l’amore è potenza cosmica il mondo è dominato però dall’alternarsi fra la follia del piacere e la follia dell’amore. Entrambe queste follie richiedono sacrifici e il sacrificio appare lo stabile motore cosmico che gira la ruota dell’esistenza. Al de-lirare spietato carnevalesco corrisponde la piena consapevolezza tragica di Violetta che riesce eroicamente a distaccarsi da se stessa nel suo “addio alla vita” chiamandosi per due volte "traviata". Alla fuga da se stessi nell’accecamento derivante dalla possessione del piacere corrisponde dialetticamente la liberazione da se stessi nella purificazione spirituale indotta dalla malattia accettata quale destino e sacrificio. Violetta ha raggiunto una saggezza superiore di fronte alla quale piacere e dolore appaiono sullo stesso piano quali realtà fragili, illusorie ed effimere. Questo libretto non è indegno della meravigliosa musica di Verdi.