Le chiacchiere distratte rapiscono l’attenzione dei viaggiatori, ma quando improvvisamente cambia il vento e un’inebriante ondata di aromi selvatici sovrasta il traghetto, trascinando verso l’alto il naso di tutti, nasce sul ponte un ammirato silenzio, interrotto dal rimbombo di un solo comune pensiero: “Eccoci, stiamo arrivando a Capraia”.
Capraia, isola vulcanica, è una delle perle dell’arcipelago toscano; tanto piccola che anche il brutto tempo fatica a trovarla, è conosciuta per lo più dai numerosi subacquei che popolano i fondali e dagli intrepidi skipper che durante le traversate necessitano di rifornimenti. Un entroterra tutt’oggi selvatico, privo di costruzioni a eccezione di qualche casolare della ormai abbandonata colonia penale che emerge solitario dalla macchia, suscitando fantasia e curiosità degli esploratori di ogni età.
Camminando sui sentieri tracciati dal passaggio degli antichi romani, vengo sorpresa da gallerie di ulivi selvatici, che cantano e danzano al passare dell’ormai tipico libeccio, dinamizzando un paesaggio prevalentemente brullo che farebbe invidia ai migliori quadri impressionisti. Qui assaporo la terra, iniziando a degustare mirto selvatico, elicriso, rosmarino, menta, finocchietto e lentisco; i profumi dell’isola che vivaci mi spingono nel loro vortice accrescendo il mio appetito.
La maestria delle cuoche locali trasforma anche il pesce più umile in superbi piatti a cinque stelle in grado di ammaliare anche il palato più viziato. In primis le boccacce: (almeno qui le chiamano così) piccoli pesci che vivono sugli scogli, i cui filetti non mancheranno mai di apparire sulle tavole più tradizionali dell’isola; per non parlare dei ricci (prelibati per molti, me compresa), che da sempre costellano i fondali e che solo pochi golosi osano assaggiare.
Una vera e propria “spremuta di mare” dagli effetti quasi afrodisiaci, un equilibrio perfetto tra sapidità e dolcezza, che lascia sul palato un eco indimenticabile, tracciandosi nella mente non come gusto, ma come esperienza. Una ricchezza marina a cui pochi hanno accesso e che consiglierei (a chi ne ha la possibilità) di consumare al naturale, appena pescata con solo qualche goccia di limone, eliminando ogni dettaglio superfluo.
Dentici, tonni, saraghi, paraghi e numerosissime altre razze da sempre arricchiscono le tavole dei ristoranti che si sfidano incessantemente tra loro servendo leccornie sempre più irresistibili e accattivanti per suscitare l’acquolina dei commensali. Sughi rossi, bianchi e verdi di pesce creano banchetti patriottici che silenziosi attendono l’entrata in sala del piatto forte: il pescato fresco. Tra le tavole serpeggia orgogliosa la scia quasi palpabile delle portate che si susseguono reincarnando la soddisfazione dei fortunati degustatori. Le ricette tradizionali da sempre sono il pilastro della cucina locale. Sono gli sceneggiatori delle nostre tavole, controllano il debutto dei piatti da dietro le quinte, e come madri orgogliose godono degli applausi finali delle mandibole.
Capraia è un viaggio, è una lezione di vita.
E’ quello che serve per ricordarsi cosa significhi davvero “mangiare pesce”; non è lo spada, il tonno o la ricciola, è il rispetto per ogni piccola secondaria razza che a volte riesce a soddisfare anche più di un bel trancio; mangiare pesce più di qualsiasi altro alimento significa confidare nella maestria delle mani che prepareranno quel pasto.
Infine, ripartendo a quell’unica ora, con quell’unico traghetto ho compreso due cose: la prima è che non esiste modo migliore di accomiatarsi da un tale paradiso nascosto, che non sia guardarla sparire silenziosa nel blu del cielo; la seconda, è che forse la vera stagione delle piogge inizia a settembre, dopo il saluto dei suoi innamorati visitatori. Capraia è un’isola aspra: o la si ama o la si odia.