Destinato a grandi polemiche, soprattutto fra il pubblico italiano, dato che descrive un “amore materno” che amore non è, il film Hungry Hearts si fa apprezzare per il ritmo, la capacità di narrare per immagini e l’attualità della storia, oltre che per la convincente interpretazione dei protagonisti, Jude (Adam Driver) e Mina (Alba Rohrwacher).
Americano lui e italiana lei, si incontrano a New York, sono attratti l’uno dall’altra e iniziano una relazione appassionata. Dato che lei rimane incinta, decidono di sposarsi, fiduciosi in una storia duratura, malgrado la scarsa conoscenza reciproca. Il generoso estroverso Jude è molto attratto da questa donna per il suo aspetto adolescenziale, che suscita in lui un senso di protezione. Appare ai suoi occhi particolarmente indifesa, visto che è in terra straniera e sola al mondo. Appena rimasta incinta, Mina mostra che sotto l’apparenza angelica si nasconde un carattere ferreo, nutrito di letture salutiste, che la spingono a rifiutare qualunque buona norma medica collaudata sul modo in cui si porta avanti una gravidanza per il benessere del nascituro. Jude media amorevolmente fra il buonsenso e le nuove teorie, dando alla moglie la massima fiducia, disponibile al massimo senza imporle niente. Incarna tutto ciò che ci si aspetta da un compagno di vita. Lei deperisce, quasi fosse infelice di questa gravidanza.
La suspence cresce impercettibilmente ad ogni nuova scena. Alla nascita del bambino la coppia scompare da ogni rapporto sociale, chiusa in un guscio sterile. Il regista riesce a farci partecipare, senza dialoghi, ma con inquadrature ardite che deformano quello che avrebbe dovuto essere un nido d’amore. Quando torna a casa Jude si deve lavare le mani per essere ammesso a prendere in braccio il bambino. Lei passa col bimbo le sue giornate, tenendoselo sul petto sdraiata per terra. Non lo fa mai uscire, malgrado lui la solleciti a non tenere il piccolo in ambiente troppo protetto. Passano due mesi, la madre di Jude passa dai neo genitori per chiedere se tutto va bene, e trova un’atmosfera preoccupante, che non nasconde al figlio. Ma lui si mostra, ancora una volta, solidale con la moglie.
Nessun pediatra deve vedere il bambino. Che ha sempre la febbre. E qui comincia a incrinarsi la fiducia di Jude per Mina. In un crescendo di situazioni e di scene da maestro, Costanzo dirige i suoi bravissimi attori, in una sorta di imparzialità verso le ragioni dell’uno e dell’altro genitore, così da rendere massimo il coinvolgimento di noi spettatori, che non riusciamo a capire fino all’ultimo se questo povero bambino, stretto in una morsa insana di possessività delirante della madre, potrà scampare alla morte (il regime alimentare che persegue per lui Mina lo ha portato a una crescita pericolosamente inadeguata).
Fino a una inaspettata conclusione. Perché, se è vero che la scena del salotto buono della madre di Jude, pieno di trofei di caccia, strizza l’occhio a lei, animalista e vegana, la canzone Tu si na cosa grande cantata da lui in italiano con amore alla novella sposa, è una scelta che, dopo la dichiarazione, la invita a uscire dal suo isolamento. Al di là dell’infatuazione, quest’uomo sensibile aveva intuito quanto problematica fosse la sua compagna.
Un’altra cosa che mi ha colpito di questo grande film è che, pur essendo tratto da un romanzo, vive una sua vita autonoma. La ragione? “Dopo averlo letto più di un anno e mezzo fa, ho continuato a pensarci. Fino a che ho deciso di farne un film” dice il regista Costanzo. A quel punto deve essere avvenuta un’elaborazione che gli ha permesso di scrivere il “suo” film e di girarlo con immagini originali.