Appena ebbi modo di leggere l’opera prima di Luciano ne riportai subito la sensazione che in paese stesse per nascere una nuova “penna”. Lessi con interesse Il Tiranno e l’Ignoranza 1 che, in un paese “difficile” com’è Galati Mamertino, era stato subito interpretato come un “libro contro”: contro, ovviamente, l’amministrazione comunale di turno.

La vita della comunità galatese da tempo ha perduto la capacità di guardare oltre la contrada Paraturi e si è fossilizzata nelle piccole faide verbali politiche paesane. Il primo commento che mi fu esternato a proposito di quest’opera, tornato in paese, fu: Ce l’ha con il sindaco! Allora, subito curioso, lo lessi: me ne aveva fatto omaggio l’Autore appena ci eravamo incontrati. Ne resi pubblico il mio parere nel volume che avevo in preparazione2 :

In un intenso e coinvolgente incontro con una comunità galatese particolarmente attenta, nellʼaula magna del complesso scolastico intitolato al poeta “Nino Ferraù” piena sino allʼinverosimile, è stato presentato Il Tiranno e lʼIgnoranza, opera prima di Luciano Armeli Iapichino; padrona di casa la dirigente scolastica prof. Marinella Lollo. Il giovane scrittore, nato a Galati Mamertino (ME) e ivi fedelmente residente, è laureato in Filosofia presso lʼUniversità di Messina ed è docente di Lettere: raro, fortunato e invidiato nativo, non costretto dal destino a imbracciare una valigia per avviarsi verso la frustrante enucleazione. Nel secondo risvolto di copertina lʼAutore si presenta come “agguerrito sostenitore della teoria secondo cui la conoscenza ‒ ricerca inesauribile del sapere ed unico lusso nella consumistica e fallita società contemporanea ‒ sia il rimedio principe ai mali sociali”: giudizio che approvo in pieno. Lʼopera è stata presentata, con una appassionata e dotta disamina, da Luigi Chies, professore associato presso lʼUniversità Mediterranea di Reggio Calabria e a sua volta portatore ‒ come ha tenuto a precisare ‒ del 50% di DNA galatese per linea materna; lʼoratore, momento dopo momento, è penetrato con raffinata sequenzialità nella filosofia dellʼArmeli, evidenziandone il tormento ‒ non davvero ingiustificato ‒ che pervade il testo. Affinché il lettore di questa breve nota possa comprendere il turbamento, il travaglio psicologico che ancora non trova una sistematizzazione nella sua personale maniera di leggere il “perché” della vita, amo segnalare la citazione di Karl Kraus che lʼArmeli stesso pone a pagina 7: diavolo è un ottimista se crede di poter peggiorare gli uomini. Luciano ‒ data la giovane età, ma ha sufficiente tempo per una ulteriore riflessione ‒ vive lo sconforto del “giusto”, ispiratogli dal dipinto secentesco La morte del giusto di ignoto autore siciliano, posto su uno degli altari della antica chiesa di S. Caterina del paese nativo. “Vive” lo strazio delle coscienze anagraficamente più giovani, teoricamente motore di speranza per loro stessi e per gli altri, strutture portanti e guide responsabili della futura società; constata però in controluce lʼirrealtà di questo sogno, commentando che lʼunica considerazione possibile sul loro attuale modus vivendi ‒ con qualche fievole eccezione ‒ ed il loro più aberrante modus pensandi sia quella pagina del libro volutamente priva di testo per sottolineare lʼassenza del pensiero critico nelle nuove generazioni (pp. 84-85). Conclude l’analisi con una frase apparentemente senza speranza: Il Creatore e la sua creatura uniti in unico destino finale: la morte (p. 84). Scrivo “apparentemente” poiché lʼA. nella pagina successiva intravede uno spiraglio nel pensiero di Dietrich Bonhoffer: Lʼessenza dellʼottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sé. Per lʼArmeli però questa concezione non solo non dona sostegno ma si rivela una continua e disattesa verità.

Ho letto con vero piacere questo testo poiché mi ha confermato che lo studio nei licei classici della Sicilia3 sia ancora in grado di fare redigere ai discenti ‒ divenuti docenti ‒ prose quasi musicali, grammaticalmente e sintatticamente pressoché ineccepibili.

Sono però costretto a dissociarmi dalla catastrofica visione filosofica ivi teorizzata. La società infatti è sempre stata variegata e con metodi diversi è andata e continua ad andare alla ricerca della via 4 . Ciascuno ha sempre pensato che quella da lui indicata fosse la migliore: lo pensavano i mercanti nel tempio e il Cristo che li cacciò via, Francesco dʼAssisi che si spogliò di tutto e re Creso che ambì che ogni cosa da lui toccata divenisse oro, Galileo e gli inquisitori, il vincitore e il vinto, quello ritenuto giusto e l’altro ritenuto ingiusto. Tutta questa varietà di pensiero e di azione “è la vita di questo mondo”, partito dalle caverne, sceso sulla luna e aspirante a dominare lʼuniverso: e tutto questo avverrà ‒ indipendentemente dagli umori e dagli amori degli abitatori pro-tempore del globo terraqueo ‒ sino al giorno dellʼapocalisse, sino al giorno in cui questa pallina che chiamiamo “terra” verrà risucchiata, per l’inalienabile legge universale, in un buco nero per dare vita ad altra energia cosmica, poiché almeno questo è certo nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma.

Dopo questa fatica, Luciano ha ripreso la penna e ha dato alle stampe Le vene violate 5 ; ha evidenziato la storia di una delle tante facce della malavita organizzata, la più odiosa, quella che conduce ad appropriarsi, come “diritto”, di quanto la società possa offrire di meglio per la salvaguardia della propria salute. È accaduto che un “mammasantissima”, malato di una forma morbosa ritenuta incurabile, abbia scoperto che un corregionale fosse l’eccellenza nel campo del morbo che l’affliggeva. Ritenne fosse giusto farlo irretire tramite le mille braccia del malaffare, sfruttare la sua scienza chirurgica e, lui ormai salvo, condannarlo a morte. Lo fece ‘suicidareʼ. Il truce episodio, tema per un libro che purtroppo non fa più vergognare poiché la parola “vergogna” è stata cancellata dal vocabolario della criminalità organizzata, è già ben lumeggiato dalle considerazioni di Luciano che nella “presentazione”, come su pagina bronzea, ha inciso a lettere di fuoco una lunga epigrafe funeraria per la popolazione di una intera regione, condannata a non vedere, non parlare, non sentire… o a morire:

Questo libro, questa storia, giunge da una terra. Una terra “babba” . Una provincia “babba”. Ma che in realtà “babba” non è! È semplicemente uno spazio in cui la distinzione tra il bene ed il male non è più percettibile e che si erge oramai a baratro esistenziale di mattanza, regìa incontrastata del malaffare internazionale, cappa massonica e necropoli del pensiero: questa è Messina. Il popolo di questa terra è rassegnato, svuotato di tutto, sconfitto, nel senso non del piangersi addosso, né dellʼaccettare passivamente, ma semplicemente, nellʼavere acquisito la sicura consapevolezza che la lotta al sistema è impari, inconveniente, inutile. In altre parole, nel coltivare la convinzione che per garantirsi la sopravvivenza (che è nemica della civiltà ed amica delle illusioni) è necessario farsi sistema, pensare come il sistema, ubbidire al sistema. Si nasce dunque già segmento del sistema. La percezione che ne discende è quella di parassitare nella periferia della periferia del mondo, eretta a Golgota delle speranze e a stasi coltivata. Ci si muove né avanti né indietro. In altri termini si è tagliati fuori, da tutto! E tutto si mostra ‘inquinatoʼ, lacunoso, ristagnante, soffocante. Quasi un inferno di rifiuti umani che, amalgamati con quelli materiali, partoriscono un business fetido che non conferisce all’esistenza senso né alcuna qualità. Organico e inorganico insieme, vincenti nell’affare, che è malaffare.

L’episodio truce del quale l’autore tratta nel libro, quindi, non è un singolo caso: è norma! Mentre scrivo questa pagina, giorno 23 di maggio dell’anno 2012, si celebra il ventennale della strage di Capaci, la data dell’ufficiale ‘presa di potereʼ del sistema criminoso siciliano, nato dalla antica mentalità ‘maffiosaʼ, nella gestione degli affari della “terra bbabba”.

Nella presentazione l’Autore tiene a raffrontare ‒ a scanso dell’equivoco proverbio: Una rondine non fa primavera ‒ che quello trattato nel testo non è caso singolo bensì norma; cita infatti un altro caso, fra i mille, che decenni prima aveva offeso la sensibilità di un popolo, ancora non totalmente assoggettato. Richiama alla memoria un altro reato nel quale la sofisticata criminale messinscena organizzata dai carnefici per il dottor Attilio Manca non era stata ancora ideata, e si fece quindi ricorso ai processi che nell’immediatezza dell’emotività collettiva condannavano e poi, stratificata la polvere dell’oblio, assolvevano: intendo qui ricordare la sentenza già passata in giudicato dell’assassinio di Salvatore Carnevale6 .

Questo è il quadro nel quale si muove la puntuale ricerca di Armeli che, in un gioco di specchi, mostra tutte le incongruenze di un processo contro una “eccellenza” medica, Attilio Manca, sacrificato sull’altare della sopravvivenza di un essere che se non fosse mai nato nessuna lacrima avrebbe versato una intera regione; ma soprattutto non avrebbe fatto trascorrere una vecchiaia lacrimevole a una famiglia siciliana che, con l’orgoglio del lavoro onesto, aveva messo a disposizione del progresso della scienza uno specialista d’avanguardia.

Non voglio togliere al lettore il desiderio di scoprire una trama che sembrerebbe romanzesca, se non fosse crudelissima realtà, ma non posso esimermi dall’evidenziare lo stile raffinato, l’accorta sequenza con cui il testo si snoda, l’uso del periodo, stringato, sintatticamente ineccepibile, il ricorso a similitudini non routinarie.

Una bella invenzione letteraria poi è la parte seconda: la vita del “dottore” vista “da vivo” nelle pagine pari e “da morto” nelle dispari; truculenza del malaffare a parte, insomma, le pagine si sfogliano con insolito piacere.

Stile diverso ha adottato Armeli nel lavoro fresco di stampa7 che ricostruisce la “vicenda esistenziale e la parabola criminale di Antonino (Tony) Lombardo, dagli anni dellʼinfanzia e dellʼadolescenza trascorsi tra duro lavoro nei campi e vita grama nel paese dʼorigine siciliano, Galati Mamertino (ME), sino al ‘saltoʼ negli Stati Uniti, con unʼascesa impressionante che lo avrebbe portato a diventare nel giro di pochi anni, da oscuro droghiere allʼingrosso, a potente uomo dʼaffari a Chicago nel clima del proibizionismo e fidato consigliere di Al Capone”8 .

Il libro, scrive Antonio Baglio, è “frutto di unʼaccurata ricostruzione basata sullʼattenta compulsazione di fonti giornalistiche, di testimonianze orali e sullʼutilizzo della vasta letteratura bibliografica di marca statunitense; il volume di Armeli ha il pregio di coniugare il rigore della ricostruzione storica con una narrazione agile e avvincente, facendoci rivivere le scene come in una sorta di thriller letterario o cinematografico. Ormai avvezzo nel suo lavoro di scrittura a raccontare casi di cronaca esemplari, con uno stile personale che mescola, allʼesposizione dei fatti, riflessioni filosofiche e figurazioni letterarie, questa nuova ‘fatica’ di Armeli ha tutti gli ingredienti, in relazione all’eccezionalità della storia narrata e al suo carattere di ‘romanzo criminale’, per stimolare interessi e curiosità di quella fetta di lettori sensibile ‒ adoperando le parole di Svevo ‒ a un passato che è sempre nuovo”.

In questo terzo lavoro a stampa siamo davanti a un saggio storico rigoroso di una faccia particolare della società di ogni tempo. Iniziò, a sentire la tradizione, già quando sul globo vi erano due soli nati da coppia, Abele e Caino: la criminalità.

La mia sensazione a caldo la restringo in poche frasi. Sempre rigoroso (e a me gradito, poiché provengo dalla stessa didattica classica siciliana) il periodare, complesso, ciceroniano. Oggi i figli di una certa corrente letteraria post bellica ce lo contestano, legati al primo ‘periodare’ vittoriniano, quel momento letterario nel quale “lʼimmediatezza del contenuto portava Vittorini a estreme crudezze verbali”.

La presentazione di Antonio Baglio, per suo conto, è un saggio storico che condivido perché fa parte del mio retaggio culturale: non mi trovo in sintonia – ma forse per mio difetto! – solo con la parola “mafia” che a mio parere è morta a Portella delle Ginestre (era la ‘mafia agricola’ e in un certo senso ‘paternalistica’). Dopo – era quella partorita nel ‘20 in USA – sbarcò in Sicilia la filosofia americana che non aveva più nessun carattere della vecchia “maffia”, trasformata in criminalità organizzata, per nulla differente da quella delle tante regioni italiane nelle sue varianti ma pure delle tante nazioni sparse per il mondo.

Nella introduzione, nel capitolo I e nelle conclusioni ho letto lo stile e la filosofia di cui ho scritto, elogiativamente, in precedenza per l’opera prima: anche qui si percepiscono le aspirazioni, i desideri inconsci, ma pure le ansie dell’Autore. I quattro capitoli centrali invece, a mio parere, lo collocano in un campo nuovo: la ricerca storica pura. Non una frase viene tramandata senza il documento di riscontro.

A questo punto sono d’obbligo le considerazioni sullo squallido scenario di questa società siciliana che, a parere dell’Armeli, avrebbe acquisito la sicura consapevolezza che la lotta al sistema sia impari, non conveniente, inutile. Accettare ciò come un dato di fatto però corrisponderebbe certo alla morte sociale: i siciliani avrebbero perduto pure la speranza!

Non v’è dubbio che la lotta al sistema sia impari. Ma non è il caso di capirne il “perché”? A me sembra che ciò sia dovuto al tipo di armi che i due contendenti – Stato e criminalità – hanno a disposizione, ciascuno nel ruolo che si sono ritagliati nel ‘vivere sociale’: - lo stato democratico “deve” rispettare delle leggi rigide, non sempre facilmente intelligibili, statuite dalla “civiltà” che impone il rispetto della vita e della proprietà del cittadino9 ; - la malacarne questi obblighi non li prende neppure in considerazione, poiché è sprofondata nell’abiezione più ignobile e baldanzosa per la sicurezza che “nessuno possa e debba toccare Caino”. Al Caino di turno – secondo la legge vigente – può solo essere comminato qualche anno di arresto ma in ambiente confortevole e con gli agi di un buon albergo: il superaffollamento carcerario infatti è solo per i “ladri di biciclette”. Per i 41 bis – i veri “malacarne” – vi sono camere singole, ben guardate da “aguzzini” importuni e, per fortuna di rado, corruttibili: alla genia malavitosa non manca davvero lo “sterco del diavolo” per circuire dei poveri cristi.

Il “malacarne” di spicco (ovviamente sfrontatamente danaroso) – per tornare al tema – che, da malato, “vede” il suo tragico traguardo, non ha remore a chiedere per sé il meglio messo a disposizione dalla scienza medica e poi, restituito alla vita, ne ha ancora meno, remore, nel sacrificare – per la salvaguardia della sua sicurezza – quella del suo salvatore: leggi Attilio Manca.

Ovviamente i fiancheggiatori del “nessuno tocchi Caino” si batteranno sempre per la salvaguardia della vita dei caini, solleticando la società democratica con la speranza del loro recupero alla retta via (per costoro, gli “abeli” seguano il loro destino! Un Abele più, un Abele meno). Ma quanti 41 bis sono rientrati nella retta via?10 .

Ora però allargherei il discorso su la lotta al sistema impari, non conveniente, inutile sopra citato. Mi viene, a proposito, di tornare su un mio intervento di un quarto di secolo addietro11 , in occasione di un incontro rotariano.

In quel Congresso si era tanto parlato della Costituzione, della Società nel prossimo futuro, della Scuola: tante belle “frasi fatte” dei singoli oratori seguite da scroscianti applausi. Dopo ore di ascolto la mia curiosità mista a nervosismo era all’acme e non ho resistito, pur essendo rotariano solo da due anni, all’impulso di porre agli applauditissimi oratori una breve serie di domande, quesiti che tuttora mi frastornano e ancora tormentano l’odierna vita politica nazionale12 .

Dissi al tempo:

Sono rotariano di recente cooptazione e senza la vostra esperienza; sono socio del club Monterotondo-Mentana e non ho preparato una relazione: ma dopo queste tre interessanti relazioni sento il bisogno di porre delle domande nella speranza di avere risposte.

La magistrale relazione del Prof. Roehrssen mi ha fatto riflettere su una Carta Costituzionale da troppi ormai giudicata appena sufficiente e invece ora capisco “a torto”. Infatti lʼoratore dice testualmente “è nata una Costituzione che in complesso ha risposto alle esigenze della nazione e può ancora essere utile se applicata secondo i suoi presupposti e le sue generalità”.

Ecco la prima domanda. Perché gli articoli 39 e 40 e soprattutto lʼ81 ‒ quello che impone la copertura finanziaria delle leggi prima della loro promulgazione ‒ sono completamente rimasti negletti per oltre 40 anni? Né il tutore pro-tempore della Corte Costituzionale che ad ogni investitura ha giurato di farla rispettare è mai riuscito ad ottenerne rispetto, con tutte le conseguenti risultanze sulla vita economica e giudiziaria della nazione? Sembra che il mancato rispetto dell’art. 81 sia il responsabile del debito pubblico italiano che ogni anno lievita a dismisura! Più avanti lʼillustre oratore dice: “…lʼimparzialità dei giudici soggetti solo alla legge e costituenti ordine autonomo e indipendente, ribadisce che lʼimparzialità è un aspetto dellʼuguaglianza e della ragionevolezza nonché della legalità”. Parole autorevoli, inequivocabili ed ecco la seconda domanda: “Non le sembra una contradictio in terminis questa premessa di imparzialità con lʼappartenenza dichiarata dei giudici a una corrente politica? Un uomo ‘di parteʼ cioè come può essere imparziale?”.

Poi una domanda al Prof. Augenti che è stato illuminante sulla scuola del lontano futuro. A me però sembra che futuro sia anche il domani. Non sembra allʼoratore che nella logica programmatica del domani oltre il 2000 sia anche giusto pensare al domani più prossimo?

Esemplificando, da questo Congresso non può venire una indicazione a pensare solo a scuole superiori e universitarie, fabbrica di medici, avvocati, tanti architetti, ragionieri, geometri etc., candidati alla perpetua disoccupazione ma è necessario pensare anche a scuole stabili artigianali dellʼobbligo che preparino per la generazione attuale e anche per la successiva, falegnami, ebanisti, sellai, idraulici, buoni mastri insomma per le necessità dellʼoggi e del domani. A mio parere basterebbe che le ore del sabato delle scuole medie fossero programmaticamente dedicate all’insegnamento delle arti e dei mestieri, ciascun discente con le singole propensioni: la frequenza presso le botteghe artigiane diventerebbe scuola per quei giovani che sui libri si addormentano. Costringere alunni che non provino diletto a maneggiare libri a mio parere vuol dire creare, per il domani, disoccupati. Costringerli poi a sedere sui banchi di scuola sino a sedici anni mi fa porre una ulteriore domanda: a 16-17 anni chi riuscirà più a mettere in mano a questi alunni una cazzuola o un badile o un’ascia?

Ed infine al prof. Cianci ‒ che ci ha presentato con una certa amarezza i limiti della futurologia esemplificando con lʼerrata diagnosi emessa nel rapporto ‘I limiti dello sviluppo del 1972ʼ e ricordando che il MEIC scivola su un mare di burro, (io aggiungerei che lʼintero occidente naufraga in una spropositata pseudo-prosperità che conduce alla distruzione di enormi quantità di alimenti già arrivati a maturazione e pronti al consumo) ‒ al Prof. Cianci chiedo: “Quale logica perversa può giustificare tanto offensivo spreco quando, a poche ore di volo dalle nostre terre, milioni di fratelli muoiono di fame? Dico, tutta questa grazia di Dio è giunta a maturazione anche e soprattutto per l'opera insostituibile delle irradiazioni solari. E il sole non è di tutti!!? Grazie”13 .

Gli applausi seguirono pure al mio intervento: ma li sentii indispettiti. Quelle domande poste nel lontano 1987 sono le stesse che ancora oggi non ricevono risposta: politici, magistrati, caste, organizzazioni sindacali di destra, di centro e di sinistra, … organizzazioni criminali … hanno tutti altro a cui pensare!

Note:
(1) Luciano Armeli Iapichino, Il Tiranno e l’Ignoranza, Brolo, Messina, 2009.
(2) Vicario, S. G. (a cura di), Quaderno Mamertino, 2009, pp. 93-94.
(3) In terra di Sicilia decisamente guasta è solo la politica e la criminalità organizzata, due autentiche palle al piede di una comunità che tanto avrebbe da dire e da produrre.
(4) Vicario, S. G., La preparazione globale al parto, dalla fecondazione al puerperio, Roma, 1993, pp. 153-155.
(5) Armeli Iapichino L., Le vene violate, Brolo, Messina, 2011. Cfr. pure Valerio Barghini, La storia di Attilio Manca approda alla Camera. Troppe coincidenze si annidano dietro la morte dellʼurologo siciliano Attilio Manca, Il Giornale.it, Mer. 25/09/2013.
(6) Salvatore Carnevale (Galati Mamertino, 23 settembre 1923 – Sciara, 16 maggio 1955) fu un sindacalista italiano che la criminalità organizzata della Sicilia occidentale giudicò scomodo e quindi da eliminare: per gli assassini non vi fu neppure il 41 bis.
(7) Armeli Iapichino L., L’uomo di Al Capone, Brolo, Messina, 2014.
(8) Antonio Baglio, “Prefazione” al saggio storico dell’Armeli (pp. 11-17).
(9) Lo Stato ha in ogni campo una serie di remore che impediscono una “logica” risposta a ogni singolo reato. L’eccessiva prudenza spesso spunta le armi al raggiungimento della cognizione che ‘commesso un certo reato si andrà sicuramente incontro a una pena certa’. L’induzione al reato – così come impostato nei singoli articoli del codice penale – infatti ha una contorsione dispositiva che alla fine consente, con abilità oratoria, la possibilità di dimostrare tutto e il contrario di tutto. Sulla “induzione” infatti si legge: La combinazione degli artt. 110 ss c.p. con la norma incriminatrice di parte speciale dà luogo ad una nuova ed autonoma fattispecie plurisoggettiva, alla stregua della quale è possibile punire (a titolo di concorso) anche quelle condotte agevolatrici che risultano atipiche rispetto alla norma incriminatrice monosoggettiva. Nasce, cioè, un nuovo concetto di tipicità rapportato allʼintero fatto realizzato in concorso: ciascuna condotta sarà considerata tipica o atipica (non più rispetto alla fattispecie di parte speciale, ma rispetto alla nuova fattispecie concorsuale). La norma sul concorso risolve, quindi, il problema del fondamento tecnico della punibilità delle condotte di partecipazione. Resta invece insoluto il problema dei criteri idonei a stabilire la rilevanza di tali condotte alla stregua della fattispecie concorsuale: la norma sul concorso non dice, cioè, quandʼè che una condotta di partecipazione, atipica rispetto alla fattispecie monosoggettiva, è da considerarsi tipica rispetto alla fattispecie plurisoggettiva e quindi punibile a titolo di concorso… Chiaro, noh? È logico infatti, tanto per portare qualche esempio alla mia tesi, che nella commercializzazione della droga debba essere punito solo lo spacciatore senza penalizzare pure chi ne fa uso? Andare ad acquistare la droga non è, in fin dei conti, una “induzione a commettere il reato di spaccio”? Per quale motivo quindi la legge persegue lo spacciatore e non pure il consumatore? Altra induzione immanente e incontrollata è l’induzione al furto. Mi sono sempre chiesto perché sia lecito spendere dieci, venti o cinquanta mila euro per acquistare un’automobile e poi, al momento della mancata utilizzazione, non si debba proteggere – come per ogni oggetto di possesso – nel proprio garage. Abbandonare diecine di migliaia costose o meno costose automobili per strada non è una “induzione al furto”? Perché non esiste l’obbligo, per chi ne acquista una, di doverla proteggere in posto proprio, garage privato o pubblico? Sono del parere che solo nel caso in cui il proprietario abbia posto in luogo protetto, un furto sia effettivamente tale e senza il concorso dell’acquirente, quindi senza, per quest’ultimo, il reato di “induzione”.10 Quando, nel 2012, mi occupai di questo argomento scrissi: A conferma di tanta vana illusione – a sentire gli oratori del ricordo del ventennale della strage di Capaci – pare che i caini del 41 bis la stiano ormai facendo da padroni. Ancora oggi – e sono scandalizzato – un oratore ha gridato da un canale televisivo: “La Sicilia prima con Salvatore Cuffaro e poi con Raffaele Lombardo è stata ed è governata da mafiosi”. Se così fosse pure i cento e cento politici-collaboratori – non dovrebbero avere le mani pulite: da tutti costoro aspettiamo tante querele a seguito dell’infamante accusa! Ovviamente nessuno adì la magistratura come nessuno lo fece contro l’autore del libro-denunzia Nomenklatura di Sebastiano Messina nel1992.
(11) XXX Congresso Distrettuale del Rotary International, 208° Distretto (oggi 2080), S. Felice Circeo, 8-10 maggio 1987, sul tema Il cittadino nella società italiana del futuro. Erano presenti l’on. Mauro Bubbico, Sottosegretario di stato alla Presidenza del Consiglio e tante Autorità civili della Regione; insigni relatori erano: S. E. Gr. Cr. Prof. Dott. Guglielmo Roehrssen di Cammarata, giurista e costituzionalista; il Cav. Lav. Prof. Ernesto Cianci, presidente nazionale della Confederazione Generale dell’Industria Italiana; il Prof. Dott. Antonio Augenti, già Direttore generale del Ministero della Pubblica Istruzione e attualmente docente di Educazione Comparata del Diritto dellʼUnione Europea.
(12) Lo scorso novembre 2011 questa classe politica ha dovuto abdicare al suo potere democratico in favore dei “professori” (Giuliano Ferrara, Mario Monti, Un mondialista alla guida dell’Italia, Il Foglio, 2011).
(13) Intervento del dott. Salvatore Giuseppe Vicario, “Atti del Congresso”, Roma 1987, pp. 57-58.