Come può nascere in un bambino il senso di colpa? Come può aleggiare il fantasma del “peccato”? Le mie trimestrali vacanze a Ravenna, luogo delle origini, me ne diedero l’occasione.
Fino a quell’estate avevo vissuto nella più beata incoscienza felice, i miei genitori, a Milano, di idee più che aperte, non avevano mai voluto calcare la mano su un moralismo precettistico o inquisitorio. Avevo avuto sì la mia buona educazione cattolica, ma senza paure o sensi di colpa, la preparazione alla cresima e alla comunione erano stati più che altro l’occasione per andare all’oratorio nel periodo delle lezioni di catechismo, e farmi delle scalmanate partite di calcio e anche la prima confessione, data la comprensiva bonomia del sacerdote, non aveva avuto nessun risvolto traumatico o colpevolizzante.
Mi piacevano le bambine e m’innamoravo sempre, ma mi piacevano ancora di più le “donne”, soprattutto quelle dai seni prosperosi, sodi e nutritivi, che davano un senso di pace e appagamento. Ricordo che veniva in casa nostra una giovane signora, chiamata la “Lina delle bambole”, perché riparava le bamboline delle mie sorelle e io, tutte le volte che la vedevo, cercavo di arrampicarmi sulle sue stupende protuberanze, carezzandole candidamente. Nessuno mi diceva che era peccato o che non si doveva fare, perché il mio gesto era talmente spontaneo e liliale che la stessa signora Lina ne sorrideva con aria materna. Ma, arrivato a Ravenna, lontano dalle ali comprensivamente protettrici della mamma, la musica non poteva essere che diversa. Bisogna dire che i miei zii ravennati erano ansiosamente assillati dalla mia salute fisica e morale; per la prima mi mandavano a fare una bella visita dal loro pediatra di fiducia, che mi dava una serie di regole e prescrizioni severe che cozzavano con la mia visione di medico bonario, che per me era quello che quando avevo l’influenza o qualche altra malattia infettiva, mi consentiva di stare a casa da scuola: giorni di vacanza insperata, che poi, con la complicità materna, prolungavo tra dormite e giochi…
Ma la loro primaria preoccupazione per me, bambino “viziato”, era la saluta morale e religiosa: più di una volta mia zia Angelina mi aveva sorpreso mentre sfogliavo qualche rotocalco illustrato in contemplazione di bellissime attrici “tettute” e mi aveva violentemente strappato il foglio lubrico, gridandomi che era “peccato”. Rimanevo sbalordito! Peccato di che? Il ripetersi degli episodi convinse i miei tutori ad affidarmi ad un padre spirituale, confessore nella chiesa di S. Maria in Porto. Ma il rimedio fu, apparentemente, peggiore del male, perché, mentre aspettavo di essere accompagnato a lavarmi delle mie colpe, giocherellando sulla scalinata della basilica, notai una meravigliosa, svettante, scultura femminile che rappresentava non so quale virtù o opera di carità, provvista di due magnifici seni, resi ancora più palpabili dal raffinato panneggio che li voleva nascondere. Però, entrando nella chiesa, dopo le visioni orrorose di supplizi dei quadri delle cappelle laterali, ecco emergere il biancore trasparente e ipnotico della “Madonna Greca”, che m’impressionava nella sua posa ieratica. E nella mia mente di bambino, allora, ecco insinuarsi una domanda inquietante e il primo dubbio sull’ “eterno femminino”. Qual era la vera “donna”?
Come si potevano conciliare la scultura della facciata con l’immagine della Vergine? E già questa prima avvisaglia inquietante mi predisponeva male alla confessione di un padre spirituale che non conoscevo e che sarebbe stato già prevenuto sulla gravità del mio caso. Nel buio del confessionale barocco fui bersagliato da una serie di domande che non capivo, indagando sulle mie letture, le mie amicizie ecc. L’austero sacerdote mi chiese a un certo punto se frequentavo la parrocchia e il catechismo almeno la domenica, e al mio diniego mi chiese, sospettoso, “Allora cosa fai?”. Io, ingenuamente, risposi: “ A Milano, vado al cinema con una ragazza”, cosa effettivamente veridica, perché la mia giovane “tata” mi accompagnava tutte le domeniche a vedere qualche cartone animato o “western”. “E qui a Ravenna?”, incalzò, “Vado ai giardinetti”, “A giocare coi tuoi amici?”.
“No, faccio la guardia alle mie sorelle, mentre loro siedono sulle panchine coi loro morosi, le avverto se si avvicinano i vigili!”. Il buon prelato non seppe più trattenersi e sbottò in una serie di giaculatorie che culminarono in una penitenza di non so quanti paternostri e avemarie, prospettandomi altri più crudi castighi se avessi perseverato su quella pericolosa strada di perdizione. Uscendo dalla basilica, fui ancora di più colpito da quei quadroni bui che rappresentavano donne suppliziate, uomini squartati, anime dannate nel fuoco eterno… e pensai tra me, che, forse, se non avessi dato retta al mio confessore avrei fatto la stessa fine. Così, cominciai a capire che anche a un bambino non tutto era lecito, c’erano dei divieti da rispettare, andare al cinema con una ragazza poteva essere disdicevole, così come baciarsi sulle panchine dei giardinetti. Perché… mah…
Si avvicinava la fine dell’estate e anche la fine del verde paradiso dell’incoscienza felice. Ormai, mi si diceva, sei diventato un ometto e, allora, addio a quei bei seni e a quelle belle carezze senza senso del peccato… avrei dovuto sfogliare le riviste senza farmi vedere e guardare le amiche di mia madre senza far notare dove si posavano i miei occhi…