Non ricordo chi l’ha detto ma sono assolutamente d’accordo. Se non si riesce a dare una risposta a una domanda non è perché la domanda sia troppo difficile ma è solo perché è posta male. Allora, se non troviamo risposta a “Cosa è l’arte?” significa che la domanda è sbagliata. Girando per le varie mostre e manifestazioni artistiche non ho potuto non sentire (anche svariate volte) quei commenti del tipo “ma ti sembra possibile? Sarà mica arte questa!” e ogni volta mi sono chiesta se in quel caso il visitatore di turno non potesse avere ragione. Certo, lo confesso, l’ho detto anche io qualche volta ma tendo a pensare che basti avere qualche informazione sull’opera e sull’artista per capire e quindi iniziare ad apprezzare. Si, perché a volte conoscere significa in fondo cominciare ad amare. Da queste considerazioni nasce A tele spiegate di cui proponiamo qui il secondo approfondimento.

Gianfranco Baruchello produce opere d’arte in senso ben poco tradizionale e per questo meritano particolare attenzione. Questo artista, nato nel 1924 a Livorno, ha da sempre usato linguaggi artistici diversi: film (anche realizzati con scarti di pellicole americane degli anni Cinquanta) testi teatrali e letterali, fotografie, produzioni di piccoli oggetti, si è perfino dedicato all’agricoltura sempre nel tentativo di rovesciare le regole imposte, di far riflettere sul valore del prodotto (agricolo o artistico che sia) realizzando un grande progetto in cui arte e natura sono strettamente relate “L’agricoltura come arte magica riservata ad un sempre minor numero di individui che resistono alla seduzione del lavoro di fabbrica?” si chiede Baruchello nel’introduzione a Agricola Cornelia S.p.a. 1973-‘81, libro stampato in occasione di una mostra nel 1981 ed elemento organico, sotto ogni aspetto, al complesso progetto artistico.

Baruchello ricrea “piccoli mondi”, riproduzioni autosufficienti in cui i dettagli dialogano con il tutto quasi come fossero stati pensati per essere allo stesso tempo autonomi e interdipendenti. Angoli di mondo che partono apparentemente dalla quotidianità ma nascondono magie. Immense biblioteche concentrate in pochi metri e lavorate minuziosamente come fossero sculture di carta. Le sue installazioni chiedono all’osservatore di avvicinarsi, di entrare in empatia, di sussurrarsi a vicenda alcuni eterni segreti. Lo sguardo si sposta rapidamente da un oggetto a un altro nelle teche, la mente crea collegamenti, interpreta e inizia a sognare.

Solo per citare l’ultima tra le tantissime in Italia e all’estero, un paio di anni fa Achille Bonito Oliva ha curato una sua mostra personale alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma intitolata Gianfranco Baruchello. Certe Idee. Tra le opere presenti ci ha colpito Maremoto nell’Arcipelago del 1973 (prezzato da Christie’s per 13.000 euro). E’ un foglio quasi bianco di un metro quadro, incollato su una lastra di alluminio su cui smalti e inchiostri creano segni, piccole figure e parole. Qui l’artista ci racconta un suo sogno. Mentre guardiamo questo lavoro è come se lo stessimo ascoltando mentre cerca di mettere insieme i pezzi di un ricordo vago, pieno di simboli elementari che derivano da una riflessione onirica. Quando ci svegliamo la mattina non facciamo lo stesso? Non tiriamo l’ultimo lembo di immagine per risalire poi alla storia più lineare che si è svolta nella nostra coscienza dormiente?

In questo caso l’arte è pensiero per immagini, per piccoli segni, paroline e frecce, disegni di montagne, un fantasma con la pipa, onde con la punta che indica la loro direzione e molti altri piccoli indizi. L’artista ci dice “Va bene, vi racconto cosa ho pensato, ho un arcipelago di idee, di fantasie ma è successo qualcosa (un maremoto?) che me le ha scomposte tutte”. E ride. Tutto quel bianco che c’è intorno è quello che non vuole dire, che non si ricorda, che censura alla nostra comprensione. Se chiudiamo gli occhi, non è proprio così che vediamo il sogno che abbiamo fatto l’altra notte? Cambiamo la domanda: non “Cos’è arte?” ma “Ci vuole arte per disegnare un sogno?” Noi, spesso e volentieri, non siamo nemmeno in grado di raccontarlo…

Articolo di Chiara Casarin