Ho rubato il titolo di questa riflessione rapsodica sul calcio e i mondiali appena conclusi a uno degli scrittori più grandi che di questo gioco ha scritto: Osvaldo Soriano, una perdita gravissima per la letteratura mondiale, tanto più dolorosa perché avvenuta in età giovane e nel pieno della sua creatività, il 29 gennaio del 1997. Un ricordo personale mi lega alla sua morte.
Nel 1996, pochi mesi prima del suo decesso, partecipai insieme a mio figlio Ulisse al primo incontro Intercontinentale per l'Umanità e contro il Neoliberismo che si tenne nelle zone della guerriglia zapatista del Messico. A quell'incontro parteciparono anche molti artisti, pittori, scrittori e mi colpì l'atteggiamento di rispetto che quelle popolazioni avevano, con tutti i loro problemi, nei confronti delle arti. La musica, in particolare, essenziale in qualunque momento della vita e a qualunque prezzo. Ci raccontarono delle fughe notturne inseguiti dall'esercito, ma sempre trascinandosi dietro la marimba, lo strumento prediletto dalle popolazione indigene del centro America: e non è come dire, fuggire nella giungla con una marimba in spalla, che assomiglia a un piccolo, ma pur sempre ingombrante, pianoforte!
Che anche la letteratura godesse dello stesso credito e rispetto non lo sospettavo, però: fra tutte le arti, è la meno avvicinabile per popolazioni con un tasso così scarso di alfabetizzazione. Certo, il sub comandante Marcos, di recente ritiratosi dalla vita politica, era ed è anche uno scrittore, pubblicava racconti con lo pseudonimo da tutti conosciuto di Don Durito della Lacandona, ma sembrava più un suo vezzo che altro. Mi accorsi che non era così quando morì Soriano: ero tornato da mesi dal Messico e la notizia del suo decesso fu un fulmine a cielo sereno. E quello che più mi colpì fu il lutto dell'intera America Latina e quello delle comunità zapatiste. La guerriglia si era fermata, tutti si erano fermati e Marcos aveva parlato dello scrittore argentino nel cordoglio unanime di una comunità di indios, spesso analfabeti o quasi, esclusi da tutto, ma che piangevano la morte di uno degli ultimi cantori dell'America latina.
Avendoli conosciuti, la vista di quelle donne e di quegli uomini immobili, raccolti in un silenzio teso, mi commosse quanto mai. Nessuno scrittore europeo potrà mai avere un cordoglio così unanime e sentito. Lo ebbero in passato i grandi maestri della narrativa (i funerali di Victor Hugo per esempio), oppure i jazzisti statunitensi di colore (Charlie Parker), ma non possono più averlo da noi dove da tempo non interpretano più i sentimenti profondi di un popolo. Le ragioni sono tante e non è il caso di parlarne in questa sede, se non per tre di esse che ci riportano anche al tema di queste riflessioni. L'America Latina, pur con tutti i contrasti fra i diversi popoli, ha, fra gli altri, due fortissimi legami comuni, la lingua e... il calcio. Recentemente, anche grazie agli zapatisti messicani, ne è stata riscoperta una terza: l'identità india. Nel vivere collettivamente, in una grande cerimonia corale, il lutto per la morte di Soriano, c'era tutto questo.
Pensare con i piedi è il titolo della sua raccolta di racconti più famosa, con una sezione finale interamente dedicata al calcio. Vorrei però iniziare da un altro racconto, contenuto in un'opera forse meno nota, dal titolo Artisti, pazzi e criminali. Il libro raccoglie una miscellanea di scritti che stanno sul crinale fra giornalismo e narrazione. Nella prefazione al racconto di cui parlerò, Soriano lo spiega. Si tratta di testimonianze in diretta, pubblicate nel supplemento del quotidiano l'Opinion, che si chiamava La Historia de vida. Come si intuisce dal titolo dell'inserto, il materiale era costituito da testimonianze di vita, raccolte con il registratore. Soriano le trasformava in racconto, cercando il più possibile di rimanere fedele al personaggio intervistato. È un genere che lo scrittore medesimo definisce assai difficile perché, come nel caso in questione, i testimoni non sempre hanno capacità linguistiche e narrative, tali da interessare un lettore; ma nello stesso tempo, lo scrittore non può manipolarle più di tanto, ma piuttosto lavorare di cesello sul materiale che ha.
Il racconto in questione s'intitola Il riposo del re del centrocampo e il personaggio che rende la sua testimonianza, è Obdulio Varela, un nome che starebbe benissimo in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez. Anche chi, come il sottoscritto, è un grande appassionato di calcio, forse non lo ricorderà, ma sicuramente non gli saranno estranei altri suoi due connazionali, Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino, gli autori dei due gol che diedero all'Uruguay il titolo mondiale nel 1950 e che hanno ispirato anche una famosa canzone di Paolo Conte: Sudamerica. Obdulio Varela era il capitano di quella squadra, un gigante buono del centrocampo, abituato alla fatica e condannato a Una vita da mediano, come recita la canzone che Ligabue ha dedicato al centrocampista dell'Inter e della nazionale Lele Oriali. In quella memorabile finale del 1950, Obdulio fu cattivo e lucido quanto bastava per mettere paura ai brasiliani. Non si può raccontare con altre parole un brano struggente e perfetto come questo, se non segnalandolo ai lettori di questa rivista. D'altro canto, non potevo che partire da questo racconto, visto come sono andati il mondiale del Brasile e quello della nazionale italiana!
Il calcio e il suo mito
Me lo sono chiesto molte volte in che cosa consista il fascino del calcio e perché è diventato lo sport della globalizzazione come nessun altro, tanto da coinvolgere persino gli Stati Uniti, la nazione fino a pochi anni fa più lontana da questo sport, quella dove sono state inventate discipline sportive che fanno molta fatica ad ambientarsi da noi, come il baseball o il football americano, che nulla ha a che vedere con il calcio. Provo a suggerire qualche ragione. Il football è lo sport moderno, democratico e di massa per eccellenza, legato alla fisicità del corpo, senza protesi. Vi è un altro aspetto della modernità nello sport, costituito dalle discipline motoristiche, che sono un altro mondo a se stante.
La parola democratico forse stupirà, ma proverò a dimostrarlo. Altri due sport condividono lo stesso appeal, il ciclismo e un tempo anche il pugilato, ma il secondo è caduto molto rispetto a decenni fa nella popolarità. Il ciclismo mantiene la sua capacità di mobilitare le folle, ma solo in certi momenti. Soltanto il calcio raduna intorno a sé masse di spettatori impensabili per qualunque altro sport ed è il più planetario di tutti, anche da un punto di vista mediatico. La modernità è il tempo in cui le grandi masse possono accedere a tutto: alla democrazia (non importa quanto messa in mora oggi dai poteri finanziari), allo sport, allo spettacolo. Il paragone con le olimpiadi della Grecia antica è proponibile solo per l'atletica leggera, perché la distanza fra gli atleti e l'uomo o la donna comuni è tanto grande quanto lo era nell'antica Grecia. Vedendo correre Usein Bolt, si può rimanere stupefatti, ma la distanza che ci separa da lui è incommensurabile. Sembra di vedere il ritratto di un Apollo nero in movimento, assomiglia di più al dio di un moderno Olimpo che non un uomo come noi: può suscitare ammirazione ma rimane là, lontano come un'icona, un po' come il pilota o il torero.
Gli atleti del calcio, sono diversi da tutti gli altri. Abituati anche per via della pubblicità, ad ammirare i bicipiti di Cristiano Ronaldo, ci sfugge che il calciatore medio è un atleta in fondo modesto, a volte bruttino, persino con difetti fisici e quindi assai comune. Alcuni esempi. Maradona ha lottato per l'intera sua carriera con il mal di schiena e ha un piede del 37; questo spiega anche perché riusciva a imprimere al pallone traiettorie impensabili per altri. A Messi, il campione vivente fra i più grandi, fu diagnosticata all'età di 11 anni, una grave deficienza nella secrezione dell'ormone della crescita. Fu proprio il Barcellona a contribuire alle sue cure; oggi Messi è un campione anche perché la bassa statura gli consente una rapidità di movimenti che gli permette di essere sempre in vantaggio sul difensore.
Il caso più eclatante, dolce e tragico al tempo medesimo, però, è quello di uno dei più grandi calciatori di sempre: il brasiliano Manoel Francisco dos Santos, detto Manè Garrincha. Nato nello stato di Pau, egli era un bambino della giungla, che viveva fra fiumi e foresta tropicale. Ingenuo fino poter sospettare una psicologia mai divenuta veramente adulta, fin da bambino fu afflitto da diversi difetti congeniti dovuti alla malnutrizione e addirittura – secondo alcune fonti – a una leggera forma di poliomielite. Oltre allo strabismo, Garrincha aveva la spina dorsale deformata da uno sbilanciamento del bacino, le ginocchia afflitte da disturbi congeniti e operate più volte. Infine, l'ultimo problema, addirittura stupefacente per un calciatore: una gamba sei centimetri più corta dell'altra, a causa di un'operazione! In quale altro sport, un atleta considerato normo dotato potrebbe eccellere? Eppure Garrincha fu fra i più grandi di sempre. Il soprannome gli viene proprio dal suo corpo gracile e gli fu dato dalla sorella: la garrincha è un piccolo uccello minuto e simpatico. Al campione brasiliano ha dedicato un racconto assai bello Ugo Riccarelli, lo scrittore romano recentemente scomparso, nella sua più bella raccolta, intitolata L'angelo di Coppi.
Su Garrincha esistono molti aneddoti, uno dei quali viene ripreso proprio nel libro citato. Quando il Brasile vinse il mondiale in Svezia nel 1958, fra i regali che il campione chiese c'era una radio. Sapendo della sua scarsa cultura e dell'ingenuità di quell'uomo buono ma del tutto sprovveduto, qualcuno pensò di fargli uno scherzo dicendogli: “Manè, ma cosa te ne fai di una radio che parla svedese?” e lui la lasciò lì. Un altro assai divertente accadde proprio durante la cerimonia di premiazione sempre in Svezia. Mentre sfilavano sul palco d'onore Garrincha, del tutto estraneo a quanto stava accadendo e perso nel suo mondo, si rivolse al capitano della squadra chiedendogli: “Ma cosa sta succedendo?” “Manè, abbiamo vinto il mondiale” rispose il compagno sorpreso e lui di rimando: “Sì, ma quando la giochiamo la partita di ritorno?”
L'episodio più straordinario però è un altro e accadde al ritorno in patria. Tutta la squadra fu ricevuta dal Governatore di Rio. Alla fine del discorso, il politico disse che c'era una villetta per ognuno di loro sulla spiaggia, come premio. Garrincha gli si avvicinò e disse "A me non interessa la villetta, ho un altro desiderio...". Invitato a parlare dal Governatore, Garrincha chiese la liberazione di una colomba (secondo altre fonti si trattava di un passero), che l'uomo politico teneva chiuso in un gabbia. Garrincha non smise mai di essere un ragazzo della foresta, che non seppe sopravvivere al successo e alla grande città. Morì di droga e alcolismo all'età di 49 anni, ma il riso ingenuo e solare, nel vederlo ancora oggi nelle fotografie, è contagioso. Circola un aneddoto fra i brasiliani, non so quanto vero ma certamente verosimile, che ci fa capire cosa sia stato Garrincha per i suoi connazionali. Se si parla di Pelè a un vecchio questi si toglie il cappello per un senso di gratitudine, ma se gli si parla di Garrincha, il vecchio si mette a piangere.
Il calcio come metafora
A parte qualche incursione poetica (Umberto Saba e Pasolini), anche in Italia sono stati i romanzieri a dedicarsi al calcio e direttamente sulla stampa sportiva. Memorabili le cronache di Luciano Bianciardi sul Guerin sportivo diretto da Gianni Brera e altrettanto memorabili quelle di Brera medesimo. Il fuorigioco mi sta antipatico, il titolo con cui da Stampa Alternativa, ha ripubblicato di recente le risposte di Bianciardi alle lettere dei lettori, dimostra una volta di più che il calcio non è l'ultima delle lenti attraverso le quali si può guardare a una società intera. Partendo dal gioco e dalle sue tattiche, Bianciardi metteva alla berlina i vizi nazionali, lo faceva da grande istrione provocatorio quale era, ma documentatissimo anche in materia calcistica.
Un capitolo a parte, meritano poi le radiocronache. Quelle di Niccolò Carosio erano esempi di narrazione orale, talvolta vere e proprio invenzioni che con la partita in oggetto avevano un relazione assai complessa. Carosio veniva dalla retorica fascista, che, seppure depurata, ancora si avvertiva nel tono che usava, nelle cadenze, ma anche in certi giudizi impliciti: una volta, per esempio, a fronte di una decisione arbitrale contraria alla nazionale italiana, sottolineò più volte che il direttore di gara era etiope. A lui mi lega un altro ricordo personale. Chi per primo mi avvicinò al calcio e me ne fece appassionare fu mio padre, che se ne intendeva anche non poco ed era capace di giudizi assai brillanti su tattiche e giocatori. Proprio con lui, nel 1962, ascoltai la radiocronaca della partita Cile Italia, ai mondiali che si tenevano nel paese sudamericano. Non ricordo neppure per quale strana ragione non la vedemmo in televisione, perché l'avevamo già: ma la circostanza fu preziosa per quello capii di Carosio. La radiocronaca fu un esempio di linguaggio epico moderno. L'Italia, bistrattata da un arbitraggio scandaloso e menata niente male dai cileni, perse due uno, fra gli alti lai del cronista. Purtroppo per lui, tuttavia, di quella partita il film esisteva e molti anni dopo, incuriosito, volli vederlo. Fu una grande delusione. La gara era stata certamente dura e l'arbitro non certo favorevole, ma niente a che vedere con quello che sarebbe successo molti anni dopo ai campionati mondiali del 2002, con il famoso arbitro Moreno, che peraltro fu poi accusato di corruzione ed espulso dalla Fifa.
Carosio aveva trasformato una partita combattuta e che l'Italia aveva giustamente perso, in una battaglia campale, nel racconto della quale confluivano frustrazioni che con il calcio avevano poco a che vedere! Oggi le cronache come quella di cui sopra non sarebbero più possibili: la televisione non permette voli pindarici, le immagini smascherano facilmente la retorica e tutto sommato non è un male. Tuttavia, ogni nuova tecnologia e linguaggio ha la sua retorica e quella di oggi consiste in interminabili chiacchiere sul calcio, ma senza le invenzioni linguistiche che tenevano incollati i lettori agli articoli scritti dai grandi narratori o giornalisti di un tempo. Non è vero, tuttavia, che non se ne possa più scrivere e parlare di calcio, perché questo sport non ha cessato di essere qualcosa di più di un gioco; certo bisogna avere chi lo sa fare come lo fecero negli anni '60 e '70.
Questo mi riporta al Soriano di Pensare con i piedi. È un libro complesso, che ci offre uno spaccato dell'Argentina con tutti i suoi immaginari: dal mito di Buenos Aires, al tango e naturalmente al calcio. Lo scrittore, figlio di un ispettore della rete idrica nazionale, aveva vissuto infanzia e adolescenza su e giù per il paese, perché la famiglia doveva spostarsi continuamente a causa del lavoro del padre. Il nomadismo è un tema di fondo di questo romanzo picaresco. Un altro elemento fondante è la particolarità della natura argentina, specialmente a sud, dove finisce il mondo, per parafrasare Papa Bergoglio. Proprio nella valle del Rio Negro e in Patagonia, sono ambientati i capitoli finali che danno poi il titolo all'intero libro. La premessa, che cito quasi integralmente è già in sé un piccolo capolavoro.
“Ho scritto questi racconti durante i mondiali del 1986 e del 1990 per pagina 12 di Buenos Aires e per Il Manifesto di Roma. Ho conosciuto Maradona una sera a Trigoria. Dapprima ho finto di non interessarmi a lui, per ferire il suo orgoglio... Allora, per impressionarmi, si è messo un'arancia sulla testa e l'ha fatta ballare per tutte le curve del corpo senza che cadesse una sola volta. Alla fine l'ha presa e senza badare a me si è rivolto al suo amico Gianni Minà... "Allora quante volte l'ho toccata con il braccio?" Ero sbalordito "Mai!" abbiamo detto in coro. Maradona ha sorriso e poi detto: "Una volta, ma al mondo non c'è arbitro che possa accorgersene." Aveva così ragione che me ne sono corso in albergo e ho scritto un racconto sul figlio di Butch Cassidy, filosofo e arbitro di calcio.”(1)
Sono tre i racconti più importanti di questa parte finale: Il rigore più lungo del mondo, Il figlio di Butch Cassidy e Finale con i rossi a Ushuaia, il capoluogo della provincia argentina della Terra del Fuoco. Difficile capire dove finisce la testimonianza e comincia il sogno, quando i personaggi sono inventati, oppure talmente realistici da superare ogni fantasia. Nei tre racconti succede di tutto, ma sull'ultimo in particolare vorrei soffermarmi: è la storia di un mondiale di calcio che si sarebbe svolto nel 1942, nella Patagonia argentina, giocato da fuoriusciti dai paesi in guerra, oppure da chi si trovava in Argentina per motivi di lavoro. Secondo la ricostruzione di Soriano, pare persino che gli indiani mapuche, partecipanti anche loro al torneo, approfittando di una pausa, rubassero le porte dal campo di calcio per impedire la sconfitta della loro squadra! Tutto inventato? Forse no, perché la Fifa ha dichiarato di avere avuto notizia di quello strano torneo, ma di non essere in grado di dire chi lo vinse.
Infine, i mondiali appena conclusi, i migliori fra le ultime edizioni, calcisticamente parlando; ma anche per ciò che va oltre il gioco in sé. Faccio alcuni esempi che mi sembrano emblematici. Il primo riguarda la nazionale italiana, la cui tragicomica comparsa si può riassumere nel geniale titolo che il quotidiano il Manifesto ha dedicato alla sconfitta, proprio contro la nazionale sudamericana: Uruguay ai vinti! La sconfitta del Brasile ha invece valenze diverse. La maledizione del Maracanà è stata l'ossessione che ha accompagnato i brasiliani dalla finale del 1950, avvenuta proprio a Rio. L'otto luglio scorso si è ripetuta in un'altra città (Belo Horizonte), ma con proporzioni non immaginabili: il sette a uno inflitto dalla Germania ai brasiliani farà discutere per molto tempo. Del resto, la nazionale verde oro è quella che è, come ha dimostrato anche la sconfitta con l'Olanda per il terzo posto: una squadra modesta, che ha rischiato di perdere con il Cile e che aveva vinto con la Colombia soltanto perché i pur esperti colombiani si sono comportati in campo come una classe di scolaretti in gita e quando hanno cominciato a giocare davvero era ormai troppo tardi.
Il Brasile è cambiato profondamente e anche la sua disfatta calcistica può aiutare a capirlo. Per anni è stato nell'immaginario di tutti - un immaginario ampiamente alimentato dai brasiliani stessi – la terra di Salvador de Bahia, del samba, del carneval e dei funamboli del calcio, che non avevano bisogno nemmeno del portiere per vincere. Quel Brasile non esiste più e anche le rivolte dei mesi scorsi lo stanno a indicare. Sono rivolte che nascono dai cambiamenti. Nei tre mandati elettorali di Lula e Dilma Rousseff la nazione sudamericana è diventata una potenza economica e venti milioni di persone sono state strappate all'indigenza: proprio per questo sono scoppiate le rivolte! Perché chi ha per la prima volta nella vita e da sempre un futuro davanti a sé, non si accontenta più della sopravvivenza, ma vuole scuole e sanità, meno calcio spettacolare e più sostanza. In questo senso, tuttavia, la sconfitta del Brasile mi sembra un salutare passaggio dentro un processo di crescita e cambiamento positivi.
Niente a che vedere con il caso italiano. Mi ha colpito una frase detta da Balotelli, prima della seconda partita: “Del Costarica non sappiamo nulla.” Verissimo, prima di tutto perché avrebbe dovuto dire La Costa Rica, ma non era il solo a non saperne nulla, come si è visto sul campo. Le altisonanti dichiarazioni della vigilia (“Siamo una squadra da finale”), sono perfettamente in linea con le chiacchiere altrettanto altisonanti che si recitano in altri campi, prima di tutto nel linguaggio politico, infarcito recentemente di mitologia classica mal digerita. Si parla per formule magiche, sperando che a furia di ripeterle, alle parole seguano magicamente i fatti; oppure confidando sul blasone calcistico dell'Italia e del suo grande passato come recita una pubblicità. Dietro queste esibizioni verbali, però, non c'è nulla, se non improvvisazione e sciatteria.
Infine la Germania e l'Argentina. Con i germani ha vinto la normalità intelligente, ma anche il bel gioco. Gli argentini hanno perso perché i loro fuoriclasse hanno steccato tutti. Il solo per cui mi dispiace è Leo Messi, che pare antipatico e che invece mi sembra solo un ragazzo triste. Tutto il mondo gli diceva che lui è il nuovo Maradona, ma non lo è e credo che lui lo sappia. Il Barcellona gli ha dato tutto, ma lo ha anche rinchiuso in una prigione dorata, al di fuori della quale diventa un giocatore normale.
(1) Osvaldo Soriano: Pensare con i piedi, traduzione di Glauco Felici, Einaudi, Torino 1994