Ultimamente si parla spesso di Gino Bartali1 , il ciclista che appassionò gli italiani per circa un ventennio imprimendo le sue gesta nella memoria indelebile degli sportivi.
È celebre per il suo trionfo al Tour de France del ’48, dopo 10 anni dal primo successo in maglia gialla. De Gasperi in persona lo esorta a compiere quell’impresa sulle Alpi per contribuire a rasserenare gli animi degli italiani scossi dall’attentato a Togliatti. Sebbene l’opinione pubblica lo consideri troppo vecchio per vincere un Tour così duro, Bartali, prima di partire per Parigi, dichiara alla stampa: “Loro (i francesi) non lo sanno ancora, ma hanno disegnato una corsa perfetta per me”.
La conquista del Tour, in un’Italia in cui la bicicletta rappresenta il principale mezzo di locomozione, ha un risvolto commerciale di rilievo. La bicicletta di Bartali, infatti, marca Legnano, è come un grande spot per la casa costruttrice: negli anni ’40 – ’50, la vittoria non è legata solo alla forza e resistenza dell’atleta, ma anche all’efficienza e affidabilità della bici e degli pneumatici. Le vendite di biciclette Legnano, infatti, schizzano in alto non solo in Italia, ma anche in Francia (nei due mesi successivi vengono vendute 50.000 biciclette), Belgio e Olanda.
Bartali, dunque, diventa famoso: ma le corse, le sfide con il rivale Fausto Coppi, le vittorie, la forza nell’affrontare le scalate delle montagne, la solidarietà con gli altri atleti, sono solo alcuni aspetti della sua stoffa di grande campione.
La sua figura rappresenta per le nuove generazioni un modello di Uomo che si è dedicato allo Sport coinvolgendo la struttura unitaria della persona fatta di corpo, anima e spirito. Bartali sottolinea la centralità dell’Uomo nello Sport, capace di rivelare la persona dietro al personaggio, il volto dietro la maschera, l’uomo al di là dell’atleta nella sua apertura all’Assoluto. Di Gino è celebre la frase: “L’è tutto sbagliato l’è tutto da rifare” con la quale esprime la necessità di ritornare ad uno Sport legato a valori come lealtà, collaborazione, crescita personale e sociale.
La protagonista della sua vita è stata senza dubbio la bicicletta - la sua storica Legnano - che mi immagino nello spazio indefinito della cantina dei ricordi come una sagoma sbiadita in un soffuso gioco di luci. Essa rappresenta metaforicamente lo Sport stesso, perché per il campione, l’atleta e l’uomo Bartali di volta in volta si fa compagna di strada e allo stesso tempo di vita quasi confondendosi con la moglie Adriana Bani; ma mentre Adriana entra ed esce dalla scena, la bici resta sempre con lui, anche di notte, quando è lontano da casa per le gare.
Mi immagino Gino mentre se ne prende cura: la ripara, la lucida, la accarezza, ci dialoga, le racconta i suoi sogni, i suoi dubbi, le sue delusioni. La bici diventa uno strumento educativo che accoglie, orienta, allena, accompagna, dà speranza… in una sorta di matrimonio spirituale che consente al nostro eroe un ottimo collegamento tra Cielo e Terra. Si fa testimone della sua esistenza fin da quando suo padre gli regala la prima ‘due ruote’ per recarsi a scuola a Firenze, non sapendo che quel dono sarebbe diventato una vera missione, un mezzo attraverso cui poter scalare le vette del mondo. Da quell’andare e venire Gino impara a stare sulla sella, a rendersi conto dei tempi a disposizione, sperimenta la regolarità della pedalata, il respiro lento e sereno, la resistenza alla fatica, comincia a capire il suo talento.
Inizia quindi la sua avventura ciclistica e nel 1936 avviene il passaggio alla Legnano diretta da Eberardo Pavesi e capitanata da Learco Guerra. La squadra si rende subito conto della stoffa di Bartali, infatti, Guerra accetta di fargli da gregario per consentirgli di trionfare nella Corsa Rosa. Bartali vince tre tappe, ma pochi giorni dopo queste vittorie, c’è un momento drammatico: Giulio, suo fratello minore, ha un incidente in una gara di dilettanti e perde la vita. Gino è così sconvolto che pensa di ritirarsi dal ciclismo, ma poi decide di affrontare anche questo dolore e resta in sella alla Legnano. Nonostante il suo impegno ciclistico, Bartali riesce comunque ad avere un felice legame con sua moglie Adriana Bani cui rimane fedele per tutta la vita.
Forse il suo legame con quel giocattolo metallico a due ruote su cui dover trovare incessantemente l’equilibrio gli consente di trovare armonia anche nella vita, in famiglia, con gli amici, con i tifosi e con il suo eterno rivale, Fausto Coppi, con il quale instaura una relazione di fratellanza nonostante la competizione alla quale sono assoggettati durante le sfide.
C’è poi un’altra faccia della sua personalità che merita di essere messa in luce: il suo bisogno di salvare gli oppressi, la sua intensa Fede Cristiana, il suo spirito di sacrificio in gara ma anche nella lotta contro l’ingiustizia. Lo vediamo legato, infatti, da un rapporto di amicizia e collaborazione con l'arcivescovo di Firenze Elia Angelo Dalla Costa grazie al quale salva, nel corso del secondo conflitto mondiale, 800 ebrei. Costretto, infatti, dal settembre 1943 e il giugno 1944, a riparare biciclette con la divisa della Guardia Nazionale Repubblicana, Bartali diviene membro dell'organizzazione clandestina DELASEM per la quale compie una quarantina di viaggi in bicicletta dalla stazione di Terontola-Cortona fino ad Assisi, con l’unico scopo di trasportare documenti e foto tessere per una stamperia segreta, nascosti nella canna della bicicletta perché potessero essere falsificati e consentire la fuga di molti ebrei rifugiati. Per questo suo compito eroico, nel 2006, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, gli conferisce la Medaglia d'Oro al merito civile.
L’Uomo Bartali, al di là dello sportivo - che di questi suoi atti eroici non parla nemmeno alla moglie - probabilmente confessa le sue gioie e amarezze, le sue vittorie e sconfitte, le sue paure e drammi interiori alla sua inseparabile bici, forse con quella sua parlata toscana condita di sottile ironia e di sferzante sarcasmo. Gli rivela quel personaggio vissuto nel rispetto di sé, degli altri, della sua famiglia e dello Sport stesso. Del resto la sua grande personalità composta di spirito di sacrificio, altruismo, generosità e lealtà, interpreta lo Sport come forma di solidarietà e di educazione alla vita come sostiene con questa storica frase: "Se lo sport non è scuola di vita e non è solidarietà, non serve a niente".
Egli è un Uomo che ama la lentezza del viaggio in bicicletta, la pedalata attiva dello sportivo, la fatica nell’affrontare ogni salita e ogni discesa e il mistero che si snoda dietro ogni curva, fattori che in realtà rappresentano il cammino indispensabile a ogni Uomo per riconnettersi con la Verità, la Bellezza e la Pienezza dell’Intero Creato. Sembra che la bicicletta di Bartali potesse davvero illuminare il suo percorso dall’alto, come un angelo custode che educa e incoraggia, senza giudizio alcuno, a voltare pagina agli errori del passato per provare a ridisegnare un presente di nuovi e più profondi valori.
E tutti questi valori devono di certo provenirgli dalla famiglia d’origine, che ha una parte importante nella sua formazione.
Da suo padre Torello apprende tutta la fierezza della cultura contadina. Egli, infatti, predica quotidianamente il piacere dell’essere onesti: “Della verità non si deve mai avere paura”. Torello è imbevuto di quella cultura cattolica che Gino assorbe convinto che “il rispetto per i Dieci Comandamenti, vale più di qualunque vittoria” e che il vero Mito della Storia sia Gesù di Nazareth. “Considerava Gesù il più grande dei rivoluzionari. Così come trovava straordinario l’ammonimento divino: Ama il prossimo tuo come te stesso”. Così Gino si iscrive ad Azione Cattolica a soli 10 anni e ogni volta che raggiunge il traguardo di una vittoria “ringrazia sempre Dio e la Madonna…”. Infatti Bartali è un idolo del popolo, vince “per gli ultimi e per gli umili servitori di Dio”.
Nel 2013, il Museo Yad Vashem di Gerusalemme lo proclama “Giusto tra le Nazioni” e per questo fa piantare nel ‘Giardino dei Giusti’ un Albero di Carrubo in sua memoria. L’Ente nazionale ebraico per l’Ambiente, gli intitola una pista ciclabile di 14 chilometri nella foresta di Haruvit, in Giudea, poco lontano da Gerusalemme.
Indro Montanelli diceva di Bartali: “Non è ‘un campione’, è ‘il campione’, l’unico che concepisca la corsa come una missione sacerdotale cui occorre sacrificare ogni altra attività e diletto”. Scrisse sul Corriere della Sera:
Bartali è il De Gasperi del ciclismo, non perché appartenga allo stesso partito politico, ma perché è fatto della stessa stoffa umana. Rincagnato e per nulla pittoresco, senza voli lirici, senza retorica, egli segue nel pedalare i calcoli pazienti e tenaci cui De Gasperi si ispira nel governare. Non attacca l’avversario, lo aspetta. Ma prima di affrontarlo ne distrugge le alleanze, ne logora l’impeto, ne deprime il morale, gioca col tempo...
Segue e precede il rivale di una ruota, di due metri, ma non di più. Tiene la contabilità dei secondi. Non scherza. Non parla. Nessuno lo ama. Tutti lo temono. È un risparmiatore taccagno delle proprie energie…
In realtà: “La sua forza è qui: nel saper non stravincere”.
Non ci sarebbe niente altro da aggiungere se io non avessi sempre trovato sulla mia strada “una bicicletta”, per cui voglio dedicare queste parole del nostro campione al suo stesso personaggio e forse anche a me stessa:
Ti ho conosciuto per sbaglio, ma è stato lo sbaglio più bello della mia vita!
1 Maggiori dettagli sulla vita del campione toscano si possono trovare nella biografia Gino Bartali, mio papà (Tea), scritta da suo figlio Andrea e ristampata nel 2018 con la prefazione firmata dalla nipote Gioia.