Tra filmati d’epoca e passa parola di appassionati non più così giovani, rimane intatto al tempo l’apprezzamento per Lev Yashin, le cui doti atletiche e la forte personalità lo hanno condotto a diventare una leggenda del mondo del pallone.
Come in tutte le grandi storie di successo, ci sono precedenti storie di fallimenti. Le primissime apparizioni da portiere della Dinamo Mosca di Yashin sul manto erboso sono costellate da episodi sfortunati, tra cui papere e scontri fortuiti con i propri difensori. “Contro terra cela la faccia, a non veder l’amara luce”, scriveva Umberto Saba per raccontare la solitudine e la responsabilità dell’essere portiere. Ma Yashin è una luce che nasce dall’ombra, seppur con i suoi tempi. Le prime incerte prestazioni lo conducono a cambiare campo ma non ruolo, aggregandosi alla squadra di hockey sul ghiaccio della Dinamo, con cui per altro vince la 1° Coppa Sovietica nella storia del club.
L’opportunità si ripresenta quando Aleksej Chomič, storico portiere della squadra, accusa un infortunio particolarmente grave. Yashin viene richiamato dalla sezione calcistica e da lì in poi è un climax trionfale: solo tre anni dopo, con la sua nazionale vince l’oro in occasione delle Olimpiadi di Melbourne del 1956 e nel 1960 vince l’Europeo in Francia, subendo solo due goal nell’intera edizione.
Tuttavia, ciò che lo consacra definitivamente nell’Olimpo dei grandi è il Pallone d’Oro assegnato dalla rivista francese France Football nel 1963, rendendolo tutt’ora unico portiere della storia del calcio ad aver vinto il prestigioso premio. Yashin esce sia in uscita alta che bassa, facendo dell’area di rigore il suo fortino e diventandone il vero padrone di casa. Sia chiaro, non rappresenta il precursore dello "sweeper keeper”, ossia il portiere libero di cui Manuel Neuer ne è il più grande esempio, ma rispetto ai suoi colleghi dell’epoca interpreta il ruolo in maniera più coraggiosa, dinamica, fuori dagli schemi e dai pali che tracciano la porta.
Yashin è un noto para rigori, ma la storiografia calcistica dell’epoca e le scarse fonti primarie attendibili non ci concedono la presunzione di conoscerne il numero esatto. Alla domanda su quale fosse il segreto, il n° 1 russo risponde con la semplicità di chi lo fa apparire facile: “Mi gonfio il petto e mi faccio più alto, così il rigorista vede una portiere sempre più grande e una porta sempre più piccola, il che mi diverte”. In occasione di un Italia-Unione Sovietica, rimane ipnotizzato persino il nostro Sandro Mazzola: “Sul dischetto feci l’errore di incrociare il suo sguardo. Parato. Rimasi sotto shock per tutta la partita”.
Jonathan Wilson, colonna divulgativa della storia della tattica calcistica con “La Piramide Rovesciata”, spiega come Yashin diventi così iconico nel mondo e nel suo paese al punto che tutti i bambini russi ambiscono a diventare portiere. Ma non era il ruolo del più scarso? In Unione Sovietica il ruolo del portiere vanta una maggior considerazione che altrove non trova: essere l’estremo difensore rappresenta nell’immaginario collettivo sovietico l’ultimo baluardo della patria, complice anche una retorica propagandistica che vedeva l’URSS in piena Guerra Fredda.
Yashin blocca tutto, ma non il tempo, o per lo meno lo para in calcio d’angolo: nel 1971 appende i guantoni a 41 anni con una partita d’addio assistita a Mosca da 103.000 spettatori e con sette volte tanto il numero di richieste per un biglietto. La sua iconica maglia nera e i suoi gesti atletici esplosivi lo renderanno noto agli amanti del pallone come “Black Spider” e si sa, quando un uomo è associato a un animale, nell’immaginario collettivo diventa molto più di un uomo. Sarà stato anche un ragno, rapido quanto piccolo, ma nessun altro è altrettanto ricordato come così grande nel suo ruolo.