Il “narcofootball” è un nuovo episodio di come enormi quantità di denaro di provenienza illecita diventino puliti nella magica lavatrice del calcio, selezionando il programma “sportwashing”.
Il calcio colombiano degli anni ’80 ne è il palco e il protagonista è nientemeno che Pablo Emilio Escobar Gaviria, noto anche come “l’imperatore della cocaina”. Nel rettangolo verde è anche il presidente dell’Atletico Nacional de Medellín, club calcistico colombiano: un negozio la cui vetrina smacchia l’immagine pubblica di Escobar e il cui magazzino diventa il luogo adatto per il riciclaggio degli ingenti ricavi del narcotraffico del Cartello di Medellín.
I narcotrafficanti in società con Escobar trovano nel calcio terreno fertile per inserirsi: Gonzalo Rodriguez Gacha, soprannominato “El Mexicano”, diventa presidente dei Millonarios, club storico di Bogotà. Eppure si sa, nello sport ci sono sempre gli avversari: i fratelli Miguel e Gilberto Rodriguez Orejuela, fondatori del “Cartel de Cali” e acerrimi nemici di Escobar, acquistano la società calcistica della loro città, l’America de Cali.
I ricavi ottenuti dal narcotraffico e da traffici illeciti vari si immergono copiosamente nella piscina delle casse dei club colombiani, sostenendo e promuovendo il movimento calcistico nazionale. I giocatori colombiani più forti tendono a rimanere in patria e a non cedere alle prestigiose lusinghe dall’estero, al punto che il Nacional de Medellín diventa la colonna portante della Nazionale colombiana. Nel 1989 diventa il primo club colombiano a diventare campione di Sudamerica, vincendo la finale di Copa Libertadores.
La risonanza si fa percepire anche al di fuori del continente: in finale di Coppa Intercontinentale, il Milan di Sacchi riesce ad avere la meglio sul Nacional solo sul finire dei supplementari. Il culmine della generazione d’oro si manifesta in nazionale, dove il 5 settembre 1993, per le qualificazioni al Mondiale Stati Uniti ’94, la Colombia batte l’Argentina al Monumental di Buenos Aires con un sonoro 0-5.
Eppure il modus operandi criminale dei cartelli non attende a manifestarsi anche nell’ambiente calcistico. Pur brillando per talento e qualità, il campionato colombiano non rimane immune alla natura violenta dei propri patron, con l’arbitro Armando Perez che viene rapito nel 1988 per 24 ore per decisioni non gradite da Escobar. Sorte peggiore l’anno successivo per il collega Alvaro Ortega che viene assassinato dai sicari del signore della droga dopo aver arbitrato un discusso America de Cali-Nacional. Non solo i direttori di gara rimangono coinvolti nelle trame dei cartelli, ma persino i giocatori: nel 1993 l’iconico portiere Higuita viene arrestato per aver mediato in un caso di sequestro di persona, al fine di indurre i rapinatori a liberare le figlie di un membro appartenente al Cartello di Medellín di Escobar.
Nel frattempo “l’imperatore della droga”, dopo lunghe trattative con il governo colombiano, è confinato nella sua prigione dorata “la Catedral” sull’altura di Envigado nei pressi di Medellín, dispone di sala biliardo, centro fitness, camere da letto lussuose, vasche idromassaggio, uffici e persino un campo da calcio dove proprio alcuni tra i più noti calciatori colombiani si prestano a partite tra vip e sicari. L’accordo con lo Stato, in cambio di 5 anni di reclusione obbligatori, prevede anche la garanzia di non essere estradato negli Stati Uniti e una distanza minima dalle guardie nazionali di almeno 3 km. Per Escobar è un po’ come “lavorare” da remoto in un hotel di lusso, controllando indirettamente i movimenti del narcotraffico del suo Cartello.
Uno degli ospiti e visitatori più abituali della Catedral è proprio Higuita, che parla con manifesta gratitudine di Escobar come “colui che ha illuminato i campi da calcio quando nessun altro lo aveva mai fatto”. Nel 1992 il governo colombiano stabilisce di spostare Escobar in un carcere più convenzionale, che però evade dalla Catedral prima che accada. La caccia delle forze armate colombiane e del reparto speciale statunitense Delta Force rende Higuita più noto per le indagini che per le prestazioni in campo, fino a perdere il posto in Nazionale.
Un anno dopo, il 2 dicembre 1993, Escobar viene ucciso da un’unità delle operazioni speciali della polizia colombiana, il cosiddetto Bloque de busqueda. La fine del cartello di Medellín non implicherà subito anche quella del violento narcotraffico, la cui mano passa per importanza al Cartello di Cali.
La Nazionale Colombiana arriva al Mondiale statunitense del ’94 sapendo di giocare nella patria della CIA, nemica più temibile del narcotraffico colombiano, e di dover rappresentare il volto più genuino di un paese dilaniato dalla violenza. Il clima è tesissimo, con la squadra che riceve costanti minacce di morte. Poco dopo la partita d’esordio, persa 3-1 contro la Romania, il difensore colombiano Luis Herrera viene informato dell’assassinio di suo fratello minore. Nei giorni seguenti, l’allenatore Maturana viene avvertito che Gabriel Gomez sarebbe stato assassinato se schierato in campo nella partita contro gli Stati Uniti. Maturana acconsente, ma ormai il climax ascendente è irreversibile.
Lo sfortunato autogol del difensore Andres Escobar (privo di alcun legame di sangue o di amicizia con l’omonimo Pablo) sancisce la vittoria degli Stati Uniti per 2-1 e l’eliminazione della Colombia dal torneo. Il risultato inaspettato causa ingenti perdite a diversi gruppi criminali colombiani coinvolti nell’ambito delle scommesse clandestine. La maggior parte dei giocatori non rientra in Colombia, eccetto Escobar. Il 2 luglio 1994 viene assassinato dai Los Pepes, un violento gruppo paramilitare che aveva già tinto la Colombia di rosso nella guerra contro il Cartello di Medellín.
L’assassino di Andres Escobar è solo il culmine dell’ingerenza del narcotraffico nel calcio colombiano, da sempre patrimonio di talento. Negli anni successivi, Maturana parlerà così a proposito del narcofootball: “La nostra società pensa che il calcio abbia ucciso Andres. Non è vero. Andres era un calciatore ucciso che è stato ucciso dalla nostra società”.