Immaginate di vivere in Serbia, più precisamente a Belgrado, dopo le guerre jugoslave e con tutte le criticità annesse che solo i più sanguinosi conflitti possono provocare. Siete un uomo comune e come ogni europeo vivete la passione per il calcio: nella capitale serba si gioca Partizan contro Stella Rossa, è il večiti derbi, il derby eterno. Tuttavia, eterno non sarà mai un goal o una giocata spettacolare, bensì una serie di violenze prodotte da quello che è riconosciuto come il derby più pericoloso e caldo d’Europa. Fumogeni e bengala colorano coreografie e bandiere. Più che una partita di calcio appare una guerra: ed è proprio dalle ceneri di un conflitto, la Seconda Guerra Mondiale, che nascono Stella Rossa e Partizan.
La primogenita è la Stella Rossa, fondata nel marzo del 1945 in qualità di polisportiva, sorge da una corrente antifascista degli studenti dell’Università di Belgrado: una squadra che nell’intenzione iniziale rappresenta il popolo e gli umili, i cui colori sociali diventano rosso e bianco.
La secondogenita di Belgrado, questa volta bianconera, nasce nell’ottobre dello stesso anno: il Partizan nasce da un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito serbo che prima hanno combattuto il fascismo di Franco in Spagna tra il ’36 ed il ‘39 e poi l’occupazione nazista nei Balcani tra il ’41 ed il ’44. Se da una parte il Partizan si appoggia per il suo funzionamento quotidiano all’esercito partigiano serbo, dall’altra la Stella Rossa individua i suoi legami più profondi nella polizia serba.
Rappresentando l’unità nazionale uno dei capi saldi dell’esercito jugoslavo, il Partizan vanta la possibilità di ingaggiare giocatori un po' in tutte le province jugoslave, mentre la Stella Rossa predilige per lo più giocatori locali e definendosi perciò più “autoctona” rispetto alla rivale (ammesso che l’autoctonia fosse possibile in una tale eterogeneità di etnie e culture come quella presente nell’Europa del XX secolo).
Dall’altra parte di Belgrado invece i tifosi del Partizan fanno dello sfottò avversario un orgoglioso marchio di fabbrica: sono canzonati come “grobari”, ossia becchini, i cui colori sono proprio il bianco ed il nero.
Negli anni Ottanta la campagna nazionalista serba promossa dal presidente Slobodan Milosević – noto per i vari crimini di guerra commessi contro tutte le altre etnie balcaniche- permea il tifo organizzato della Stella Rossa: Slobo, la Serbia è con te
accompagna cori cetnici durante le partite, a cui seguono atti di vandalismo nei confronti di negozi e attività albanesi.La Stella Rossa viene quindi definitivamente plasmata e strumentalizzata per veicolare il nazionalismo serbo e nuovamente il calcio diventa politica.
La Stella Rossa rappresenta un tale capo saldo della politica nazionalista di Milosević, al punto che il capo militare “Arkan” Željko Ražnatović, noto per atroci crimini di guerra, ne diventa il capo ultrà. Individuare uomini arruolabili tra i Delije (“giovani coraggiosi”, soprannome degli ultrà della Stella Rossa) ed assicurarsi che nel tifo organizzato non ci siano correnti antigovernative diventa una delle priorità di Arkan e del governo di Milosević. Salvo le frange più radicate, oggi gli ultras della Stella Rossa e del Partizan hanno generalmente perso la loro inclinazione verso l’estrema destra. Anzi, per ironia della sorte, saranno proprio i Delije ad essere i primi in patria a criticare apertamente Milosević e a chiederne le dimissioni dopo i bombardamenti della NATO nella Guerra del Kosovo del 1999-2000.
Dal punto di vista sportivo, i successi calcistici più noti delle due squadre si incanalano nella vittoria della Coppa dei Campioni- l’odierna Champions League - da parte della Stella Rossa nel 1991 con giocatori universalmente apprezzati del calibro di Dejan Savićević e Siniša Mihajlović: finale vinta ai calci di rigore al San Nicola di Bari contro il Marsiglia, con quindici giocatori di nazionalità jugoslava sui sedici convocati, sempre in tema nazionalista.
Oggi, lo spettacolo in campo non replica quello dei campioni d’Europa e il derby di Belgrado rimane tutt’ora una partita che si “gioca” più sugli spalti che sul prato d’erba. Nel dubbio, munirsi di un casco potrebbe essere il minimo indispensabile.