Lo sport è un grande maestro di vita. I tifosi, quelli accecati dalla profana religione dell’appartenenza ad una bandiera, spesso lo dimenticano. L’11 luglio 2021 è stato un esempio impareggiabile, giusto per usare un aggettivo tipicamente agonistico.
Questa fatidica data ha rappresentato una giornata eccezionale per lo sport mondiale, ancor di più per quello italiano. A volte il destino presenta appuntamenti che sembrano andare ben al di là delle coincidenze. Esattamente 39 anni prima a Madrid, in occasione dei Mondiali di calcio organizzati in Spagna, si svolse quella famosa finale Italia e Germania finita 3 a 1, che ridiede fiato e speranza ad un intero Paese, dal punto di vista morale, sociale ed anche economico. Così è successo nel 2021, in occasione dei Campionati Europei di calcio organizzati nelle sue fasi finali in Inghilterra: la nazionale italiana sconfigge ai rigori proprio quella inglese, a casa loro, di fronte ai loro tifosi, una squadra che inventò le regole stesse del football e che è a digiuno di vittorie importanti da oltre mezzo secolo.
La reazione per la sconfitta è stata quanto di più sbagliato sia dal punto di vista sportivo, etico e morale sia per quanto riguarda la negatività mostrata dai giocatori e dai tifosi inglesi: una frangia di questi cosiddetti supporters ha attaccato i propri stessi giocatori di colore, rei d’aver fallito i rigori, con frasi immonde e razziste; i giocatori hanno platealmente rifiutato la medaglia d’argento durante la premiazione; i tifosi inglesi, che rappresentavano il 90% del pubblico di Wembley, hanno abbandonato lo stadio prima della cerimonia di premiazione; bandiere italiane calpestate prima dell’incontro; decine di migliaia di fischi a sovrastare l’inno della squadra ospitata; raccolte di firme successive alla partita per annullarla e ripeterla accusando gli italiani d’aver giocato in modo scorretto e violento, avendo trattato i propri giocatori come “schiavi”. Questi sono solo alcuni dei comportamenti vergognosi di una parte della tifoseria inglese. Dispiace. Perché l’Inghilterra è ben altro. E perché il danno vero lo ha subìto l’Inghilterra stessa.
Poche ore prima e sempre a Londra, altra coincidenza che ha dell’incredibile, Matteo Berrettini, venticinquenne romano ormai stabilmente tra i primi dieci tennisti al mondo, gioca la sua prima finale in un torneo dello Slam, il più storico, il più prestigioso, il sogno per antonomasia per ogni tennista: Wimbledon. Si trova di fronte Novak Djokovic, il più vincente tennista della storia, colui che inseguendo pazientemente per anni ed anni le già incredibili vittorie di Federer e Nadal, ha l’occasione che sembrava impossibile solo fino a pochi anni prima di raggiungerli per poi superarli. La qualità numero uno di Djokovic, oltre a tutte quelle sportive? La costanza e l’aver imparato dalle sconfitte, continuandosi a migliorare, psicologicamente e tecnicamente, anno dopo anno. Dopo una lunga battaglia di 3 ore e 24 minuti, combattuta a suon di colpi spettacolari da una parte e dall’altra, Djokovic sconfigge Berrettini in quattro set e vince il suo terzo Wimbledon consecutivo.
La sconfitta di Matteo Berrettini è amarissima da un punto di vista sportivo e lui lo sa. Eppure, si trasforma nella sua vittoria più grande. O meglio, lui è capace di renderla tale. Al termine dell’incontro Matteo, pur con gli evidenti segni, sul volto e nello sguardo, della disillusione, dello sconforto e della fatica, abbraccia il vincitore e alla cerimonia di premiazione ritira e mostra con orgoglio il trofeo conquistato come secondo classificato, il piatto d’argento di Wimbledon. Berrettini, nel suo discorso di fine torneo a battaglia appena terminata, mostra tutta la sua stima e il suo rispetto nei confronti del suo avversario ma anche verso il pubblico, le istituzioni e gli organizzatori. Berrettini sa di aver dato tutto, si rende conto di aver fatto un’esperienza straordinaria. Già guarda al futuro, annunciando la sua speranza di tornare a lottare per il titolo più prestigioso del mondo quanto prima.
Gli occhi di Berrettini e quelli dei giocatori inglesi, alla fine dell’incontro, ci dicono tutto, ci raccontano dove è la differenza tra un uomo già maturo, benché giovane e tanti uomini ancora ragazzini, incapaci di guardare avanti, di sentire che c’è bisogno nella vita di prendere lezioni e di soffrire prima di poter anche solo sperare di vincere.
Matteo Berrettini ha concluso il suo discorso col sorriso e la serenità di chi sa bene d'aver dato tutto.
Soprattutto ha mostrato un’eleganza d’altri tempi, che ha conquistato tutto e tutti. Saper perdere; accettare le sconfitte; comprendere che per vincere occorre prima ulteriormente migliorare anziché prendersela con il “nemico” di turno o con il destino avverso, è un segno di maturità evidente, che solo i grandi campioni hanno nello sport e che solo i grandi uomini hanno, nella vita.
Chi impara dalle sconfitte non è più solo uno stupido simbolo nazionalista ma può andare oltre i confini unendo italiani, inglesi, americani, cinesi, argentini, russi: non ci sono limiti.
La sconfitta è la più grande maestra che ci sia concesso di avere.
Chi sa perdere, di fatto, ha già vinto.