Come praticante di Kōdōkan jūdō, ho letto molto sulla sua origine e sulla sua utilità come forma di educazione. Si è tentati volentieri di considerare il Kōdōkan jūdō come l’opera di un genio venuto dal nulla, ma la realtà dei fatti è che la manifestazione di qualsiasi fenomeno umano, per eccezionale che sia, è impossibile senza il presupposto fondamentale della natura umana: il nostro esistere all’interno di una cultura, di una nazione, di una famiglia. Il Kōdōkan jūdō è un’esperienza eccezionale sotto molti aspetti, ma le sue radici e le ragioni della sua origine sono rintracciabili con precisione nella Storia, nella filosofia, nel clima politico e culturale del Giappone della seconda metà dell’800.
La difficoltà con cui si scontra il pubblico occidentale quando si approccia alla complessità del Kōdōkan jūdō è dimenticare, più o meno consapevolmente, che esso è il risultato dell’opera di un maestro giapponese chiamato Kanō Jigorō. Nessuna evoluzione tecnica, nessuna modifica al regolamento arbitrale, al numero delle tecniche, ai canoni di un dato kata, nessuna rilettura contemporanea possono cancellare il fatto che i presupposti educativi del Kōdōkan jūdō sono sì laici, ma traggono origine dalla cultura giapponese, e riflettono quella visione del mondo, quell’orizzonte etico. E questo orizzonte etico esprime dei concetti che sono diversi da quelli del mondo occidentale. Non inconciliabili, ma diversi.
In Occidente, che è maturato anche attraverso l’etica cristiana, si riconosce la diversità del ruolo ma si parte dal presupposto che, alla fine, siamo tutti uguali. La gerarchia è una questione superficiale, contingente. In Giappone, no. Il rispetto dovuto al maestro, ai propri genitori, ai compagni più anziani, è parte della struttura della realtà. È così ovunque: a scuola, al lavoro, in famiglia, in palestra. Per il giapponese, la pratica del Kōdōkan jūdō conferma e rinforza quello che è un dato di fatto sociale inoppugnabile. Non è una innovazione. È parte di un discorso riproposto nella stessa maniera, anche se con manifestazioni diverse, attraverso qualunque arte tradizionale.
Questo discorso è rintracciabile nella dottrina confuciana delle Cinque Relazioni. Una dottrina rigorosamente laica, ma non per questo meno pervasiva o più aperta alle sfide e al cambiamento. In effetti, si potrebbe dire che essa non sia cambiata affatto da quando Confucio la enunciò oltre duemila anni fa. Non bisogna quindi commettere l’errore ermeneutico di interpretare il Kōdōkan jūdō come se esprimesse l’etica cristiana della fondamentale uguaglianza di ogni essere umano in quanto tale, bensì l’etica confuciana della fondamentale uguaglianza del dovere di ogni essere umano di assumere il proprio posto nella struttura della società, con la responsabilità che ciò comporta. Dove il Kōdōkan jūdō eccelle davvero a livello pedagogico è nella sua capacità unica di valorizzare il contatto fisico come strumento di crescita. In questo, il Kōdōkan jūdō è davvero senza precedenti e ancora senza eredi.
La pratica del Kōdōkan jūdō presuppone un’assunzione di responsabilità verso se stessi e verso il proprio compagno. Esercitarsi salvaguardando l’integrità di entrambi non è opzionale, è il cuore stesso della pratica. Per questo si insiste tanto sulla padronanza delle tecniche di caduta, e per controllare il movimento della proiezione per facilitare la caduta del compagno è assolutamente indispensabile. Personalmente, vedo nel controllo della caduta del compagno un’eco del pensiero buddhista che ancora permea la pratica del kendō. Nel kendō, una volta andati a segno, è necessario proseguire il movimento e rimettersi in guardia. Colpire l’avversario di per sé non è sufficiente. È necessario dimostrare lo zanshin 残心, o il “rimanere” 残 del proprio cuore/mente 心. La calma, composta attenzione, radicata nel momento presente. Per usare un termine venuto recentemente in voga, la si potrebbe chiamare “presenza mentale”.
Il Kōdōkan jūdō, in quanto disciplina laica, non ha legami espliciti con il buddhismo, ma il concetto è il medesimo. Applicare la tecnica e proiettare l’avversario va bene, ma il mio compito è concluso solo quando controllo attentamente il movimento del suo corpo e gli permetto di cadere correttamente, in sicurezza. Per questo motivo ero e rimango indifferente rispetto all’esperienza della competizione, se porta ad agire in modo tale da privilegiare la vittoria fine a se stessa a scapito della cura di sé e dell’altro. Ecco allora che tramite la pratica del Kōdōkan jūdō si può esplorare il proprio corpo e il rapporto con il corpo dell’altro con una completezza e una integrità che non hanno eguali in altre discipline. Fra giovani e adulti, fra maschi e femmine, e perfino fra persone normodotate e persone con disabilità.
In questo modo, l’essere umano può coltivare se stesso nel rapporto con l’altro dal punto di vista fisico, e di conseguenza dal punto di vista morale ed etico. Per il Maestro Kanō, questo era la premessa fondamentale perché l’essere umano potesse partecipare attivamente alla vita della propria nazione, nell’interesse della propria nazione. In altre parole, la pratica del Kōdōkan jūdō è un mediatore per il servizio dell’individuo al proprio paese, in cui l’enfasi è sull’interesse del gruppo, non dell’individuo. Ecco un’altra differenza stridente fra il modo occidentale di concepire l’azione dell’individuo nella società e il modo in cui lo intendeva il fondatore del Kōdōkan jūdō.
Naturalmente è possibile praticare il Kōdōkan jūdō per emulare atleti famosi, per vincere delle gare, per migliorare se stessi. Se però il fine rimane questo, e non il mettere a disposizione se stessi e quanto appreso nell’interesse generale, allora il Kōdōkan jūdō rimane uno sport, o una disciplina sportiva, o una fra le tante alternative. Per realizzare appieno il suo fine, il Kōdōkan jūdō necessita che il maestro e il praticante siano consapevoli del suo assioma fondamentale, quello che percorre tutta la cultura giapponese e ciò che essa esprime: l’individuo è parte di una nazione, e pur ambendo giustamente a ciò che è buono e conveniente per sé come individuo, ha la responsabilità di agire nell’interesse della nazione.