Il calcio non è razzista. Perché lo sport non è razzista, per definizione: non può esserlo. Però. Però, recenti e meno recenti episodi dentro e fuori gli stadi, sarebbero lì a testimoniare il contrario, avendo a supporto filmati, foto e dichiarazioni di interpreti, protagonisti, spettatori, cronisti, commentatori, tutti pronti a dire che lo sport non è razzista e a testimoniare con il proprio comportamento che invece lo è. Ne sono lampante conferma gli ululati e i buuu che con frequenza sempre più insistita riecheggiano negli stadi. E nei confronti dei quali non sembrano bastare le reprimende degli organi di stampa, né i provvedimenti sanzionatori degli organi di disciplina sportiva.
Non c’è dubbio che siamo di fronte a una questione di cultura, cultura tout court non solo di cultura sportiva, e nei cui confronti è lecito pensare che un antidoto possa essere la promozione dell’inclusione sociale proprio attraverso il gioco del calcio. La Federcalcio, infatti, si è chiesta se esista uno strumento migliore del football per promuovere l’inclusione sociale. E la risposta è venuta dai sorrisi dei ragazzi del Roma Club Gerusalemme, giovani calciatori di fede musulmana, ebraica e cristiana, che sono stati ricevuti nella sede del Consiglio della FIGC a Roma dal presidente federale Gabriele Gravina in quella che negli ultimi anni è diventata una visita ormai abituale nella sede della Federcalcio.
La squadra, accompagnata dal presidente del Comites di Gerusalemme Beniamino Lazar e dal vice presidente della società Samuele Giannetti, ha incontrato il numero uno della FIGC, ricevendo in regalo alcuni gadget della Nazionale e donando a sua volta al presidente federale una copia della Coppa del Mondo, con l’auspicio che l’Italia possa presto alzare al cielo il trofeo originale: “Siete portatori di un messaggio di pace e fratellanza – ha detto Gravina ai ragazzi – la vostra presenza in Federazione è motivo di gioia perché testimonia come la passione per il calcio sia concreto veicolo di dialogo e di amicizia. Racchiudete quelli che sono i veri valori del calcio, un gioco di squadra fondato sul rispetto reciproco e in cui la diversità non rappresenta un ostacolo, ma un arricchimento”. Ecco, cominciando dai ragazzi, con intensità, con convinzione, con atti concreti, ma coinvolgendo anche i genitori, sarà possibile quell’arricchimento personale, culturale, che porterà il pubblico degli stadi, di tutti gli stadi, al rispetto dell’avversario, al rispetto dell’altro.
Dei cori razzisti nei confronti di Koulibaly durante lo svolgimento dell’incontro Inter-Napoli ha parlato lo stesso presidente della FIFA, Gianni Infantino. "Noi continuiamo a lavorare – ha detto - per risolvere la situazione, la prima reazione da presidente è di tristezza, di sdegno, oltre che di solidarietà nei confronti del giocatore. Quando sono stato eletto presidente ho proposto come segretario generale e per la prima volta nella storia una donna senegalese, questo perché bisogna trasmettere il messaggio, con atti concreti, che nel calcio non c'è posto per il razzismo. Gli ululati? Vanno condannati con la massima severità, ma devono essere uno stimolo per tutti i dirigenti del calcio ad abbassare i toni, altrimenti fomentiamo l'aggressività che c'è in giro e che a volte sfocia in razzismo e in altre violenze. Il calcio è un mondo tollerante, dove violenza e razzismo non devono trovare posto", ha concluso Infantino.
Il colore del dominio
Sembrava non aspettare altro, il calcio italiano. Sembrava non aspettare altro che un ennesimo casus per accapigliarsi su quel friabile crinale delle discussioni da bar. E che c’è di meglio di un giovane calciatore, Moise Kean, subito etichettato con l’appellativo di predestinato ma che veste la maglia della Juventus, la squadra più titolata ma anche la più contestata, in Italia? Che c’è di meglio di un giovane calciatore italiano di colore? Eccoli, dunque, gli ingredienti utili a vivacizzare il copione calcio che alla voce interesse mostra in questo finale di stagione la corda di una storia, quella che maggiormente interessa, la conquista dello scudetto, che da un paio d’anni almeno ha il sapore e il gusto (gusto?) di una minestra riscaldata. Anche perché, come è stato giustamente osservato, uno scudetto vinto con così tanto anticipo è la chiara dimostrazione che dopo la Juventus in Italia c’è poco o nulla, confermando per di più che, al netto di aiuti arbitrali utili a interessare le abituali diatribe del bar sport, la dirigenza bianconera guidata da Andrea Agnelli è riuscita a monopolizzare il calcio italiano in maniera inossidabile, per un dominio che presumibilmente andrà avanti incontrastato per molto tempo, attesa soprattutto l’attuale impalpabile pochezza di rivali alle prese, pare, di ben altri problemi.
L’ultimo volo per il Grande Torino
Settant’anni. Sono passati 70 anni da quel tragico 4 maggio del 1949 che inviò nel cielo della memoria il Grande Torino, la squadra degli Invincibili, che il destino decise di rendere Immortali. Tra le cerimonie (glissiamo sulla penosa querelle sulla data della disputa del derby della Mole che il calendario ha improvvidamente assegnato proprio al 4 maggio) merita che si citi la mostra L’ultimo volo per il Grande Torino, visibile a Grugliasco fino al 14 luglio e che approfondisce il profilo storico e personale dei componenti dell’equipaggio del Fiat G.212 scomparsi insieme ai componenti della squadra granata. Il Sindaco di Grugliasco, Roberto Montà, ha infatti ricordato che: “Al di là dell’appartenenza calcistica, questo è un patrimonio del calcio italiano e della Torino calcistica; nel secondo dopoguerra la rinascita del Paese passava anche dai divi dello sport. Noi ci ricordiamo sempre dei campioni, ma è giusto ricordare chi aveva meno qualità sportive ed anche chi dava una mano per far sì che quei campioni potessero giocare. Il Museo finché vorrà potrà stare a Grugliasco. Sappiamo che il luogo giusto è un altro, spero che città e società vogliano investire in questo progetto. Una società che non guarda alla memoria va poco lontano”.
Ci sembra appena il caso di ricordare che quella di Superga non è stata solo una tragedia sportiva, e non solo del, e di, Torino. È stata una tragedia italiana, che ha unito nel cordoglio un intero Paese uscito da poco dalle macerie della guerra e che in quella squadra vedeva un simbolo di forza, di qualità, di valori, di rinascita. La sua ricorrenza, dunque, non riguarda solo i tifosi granata, che ovviamente la celebrano ogni anno con enorme commozione passando di generazione in generazione il ricordo di quella squadra mitica, ma riguarda tutti gli sportivi. Ci sono date che non si dimenticano nella storia di un Paese. Alcune per la felicità che hanno generato, altre per le lacrime. Il 4 maggio è una di queste.