Pasadena, California, stadio Rose Bowl: era il 17 luglio 1994 e sotto il sole cocente dell’ora di pranzo, un sole che spaccava la terra e le menti di chi era in campo, si giocava la più importante delle finali, quella del Campionato del Mondo di calcio. Le squadre in campo, quelle che si erano guadagnate tra mille fatiche quella fatidica finale, erano Italia e Brasile, le due nazionali più titolate della storia. La posta in gioco era altissima per entrambe le nazionali plurititolate: la quarta vittoria nel massimo trofeo del globo, quello che ti riporta per sempre nei libri di storia, quello che fa gioire, ballare e urlare di gioia a squarciagola il popolo di un’intera nazione.
La partita di per sé raccoglie così tante paure tra i contendenti che non solo arriva ai tempi supplementari dopo un’interminabile situazione di parità ma addirittura ai rigori. Giocarsi il 4° titolo mondiale ai rigori, giocarsi la storia con 5 tiri dagli undici metri è un po’ folle ma tant’è: le regole sono queste e le regole, si sa, sono figlie indirette del dio del calcio, non degli uomini.
Fino a quel momento le strade per la conquista della finale aveva rappresentato in pieno lo spirito delle due nazionali, peraltro le favorite fin dall’inizio del torneo: il Brasile un rullo compressore di campioni che si era classificato primo già nel girone di apertura e l’Italia, con il tipico inizio di torneo stentato e con le vittorie successive eclatanti trainate dal fenomeno mondiale di quel periodo, Roberto Baggio, fresco pallone d’oro e talento eccezionale, decisamente più brasiliano dei brasiliani in campo.
La nazionale italiana è diretta dal Mr. Arrigo Sacchi, colui che aveva portato la rivoluzione calcistica mondiale con il suo Milan negli anni precedenti: il suo gioco non era fatto certo di individualismi e di fantasia ma di tattica, gioco di squadra e strategia. Non fosse stato però per Baggio e per i suoi incredibili gol da cineteca, quel mondiale sarebbe finito in fretta per gli azzurri. Ma Sacchi è un freddo, le sue scelte non provengono mai dal cuore ma dal cervello e, a volte, il cervello è più cieco del cuore. Fosse stato per lui e fosse stato il commissario tecnico non dell’Italia ma dell’Argentina, neanche Maradona avrebbe fatto giocare se nei suoi meandri encefalici il Pibe de oro non lo avesse convinto fino in fondo nei suoi tatticismi estremi. Quei giocatori, quei funamboli del pallone, quegli artisti dal piede fatato, per il buon Arrigo, son proprio quelli che facevano saltare meccanismi e geometrie prefissate. Peccato; i Mondiali si vincono proprio con i Maradona e con i Pelè. Le squadre cosiddette totali (vedi l’Olanda, il modello calcistico preferito da Mr. Sacchi) arrivano al massimo seconde. Con tanti applausi ma al massimo seconde. Il suo Milan aveva vinto tanto grazie alla presenza dei vari Van Basten, Gullit, Donadoni: gente che salta l’uomo, che inventa l’impossibile, che cambia improvvisamente le partite con un’accelerazione imprevedibile, con un tiro impronosticabile. E’ proprio come il destino degli uomini: non si eccelle con la sola strategia ma con il genio.
Per tutto il mondiale americano, quindi, si respirò evidente e invadente questo attrito in campo tra Sacchi e Baggio, una filosofica dicotomia tra il concetto di armata uniforme e fantasia creatrice. E non fu certo solo Baggio a farne le spese: anche quell’altro genio italico che portava il nome di Gianfranco Zola (divenuto in seguito uno dei più grandi giocatori di calcio della storia del campionato inglese) trovò spesso le porte sbarrate dal fatal Arrigo, al punto di esser costretto a scaldar la panchina quasi ad ogni partita. Diciamo pure che in tutta la sua storia mai l’Italia ha avuto l’opportunità, come in quel fatidico mondiale, di essere rappresentata dai più grandi campioni del periodo (ricordiamo giusto Maldini e Baresi ma anche quella macchina da gol che era Signori e poi lo stesso Donadoni ecc). Insomma, vedere l’Italia era come vedere Mastroianni e la sceneggiatura di un film di Fellini in mano a Steven Spielberg: ottimo regista, perfezionista come pochi, personalmente lo amo parecchio ma forse non il più adatto a descrivere il mondo onirico, esoterico e fluttuante del Genio riminese.
Torniamo alla fase finale di quell’incredibile partita del ’94, ai rigori che dovevano decidere il titolo: Franco Baresi e Daniele Massaro, proprio due dei fieri gladiatori del Milan di Sacchi, due dei suoi fedelissimi insomma, sbagliano il loro rigore. Così capita anche a Marcio Santos per il Brasile, che comunque resta in vantaggio. Sul dischetto sistema la palla Roberto Baggio, reduce dall’infortunio che ha fatto tremare un paese: il suo rigore non è dunque quello decisivo ma, in qualche modo, quello a cui restano appese le speranze della squadra azzurra per restare in gara per non consegnare ai giallo verdi sudamericani la quarta coppa del mondo. Baggio è uno specialista dei rigori, così come delle punizioni e dei tiri da fermo in generale. Le possibilità di un suo errore sono pochissime, quasi nulle. Roberto trattiene il respiro, guarda per un attimo Taffarel, breve rincorsa e…
…e il pallone si alza in maniera improvvisa, in modo razionalmente inspiegabile, finisce ben al di sopra della traversa. Lo sguardo di Baggio è terrorizzato. Lo sguardo degli italiani pure. Un secondo di metafisico silenzio soverchia lo stadio incredulo, come increduli sono i milioni di telespettatori collegati da tutto il mondo. Rigore sbagliato. Mondiale ai brasiliani. Scoppiano urla frastornanti e fischi di gioia come immensi fuochi d’artificio dei tifosi brasiliani. Scoppia la festa incredibile in Sudamerica, deflagrano pianti e disperazione in sud Europa, tra gli emigrati italici svizzeri, tedeschi, argentini, americani in genere.
L’angelo ha sbagliato un rigore; l’eroe, il migliore al mondo ha fallito e il dio del calcio, imperturbabile e solenne, ha deciso che quello doveva essere il finale epico di un incontro storico. La carriera di Roberto Baggio, in quel preciso istante, trova una linea di discontinuità che lo segnerà per tutta la vita. Anche la sua vita, perché da quel momento qualche minuto di orrore Baggio lo proverà tutte le notti, sotto forma di un incubo straziante e inevitabile. Non sto esagerando anche se amo le iperbole: in un’intervista di qualche anno fa Baggio ammise: «Ancora oggi non dormo bene per l’errore dal dischetto contro il Brasile. Ormai purtroppo è successo, sono situazioni spiacevoli che possono servire da lezione. Sin da quando ero bambino avevo sempre sognato di giocare una finale dei Mondiali contro il Brasile per poter vendicare quella persa nel 1970. Ma un contro è sognare, un altro conto è la realtà. Io avevo sempre sognato una finale differente». Per comprendere la psicologia del Genio vicentino è utile, anzi è indispensabile rammentarne la sua conversione religiosa, pensiero spirituale che aveva portato Baggio a sopportare dolori indicibili causati da infortuni che avrebbero fatto terminare in anticipo la carriera di qualunque altro calciatore: Roberto Baggio infatti, già da qualche anno, aveva deciso di intraprendere la via del Buddhismo.
“È il mio karma. Ho dovuto e devo combattere ogni volta che sono arrivato e arrivo vicino a qualcosa che desidero, poi per fortuna tanti anni fa ho incontrato il buddhismo”. Grazie alla forza che la meditazione buddhista aveva portato nella sua vita, Baggio imparò negli anni precedenti a superare i momenti più difficili per uno sportivo. Ora, in qualche modo proprio il Buddhismo, con cui Baggio aveva poi raggiunto gli apici delle ambizioni calcistiche mondiali, chiedeva al campione italiano la prova sportiva più grande: accettare di essere ad un centimetro dalla più grande delle vittorie possibili ed essere determinate nel non raggiungerla, causando la sofferenza e la disperazione dei milioni di tifosi azzurri in tutto il mondo.
Non tutto è perfetto. Tutto è migliorabile, anche e soprattutto l’uomo stesso. Non possiamo certo avere la prova dell’affermazione che sto per fare ma se Roberto Baggio non avesse raggiunto questo livello di saggezza e di sopportazione del dolore, è probabile che da quella che per uno sportivo consiste in una vera e propria tragedia non ne sarebbe uscito come un uomo integro, moralmente e psicologicamente. Baggio è rimasto una persona umile, gentile, cordiale, timida, in armonia con il mondo che lo circonda, con la natura che ha sempre fatto parte del suo percorso umano.
Uno dei più grandi cantautori italiani, Francesco De Gregori, scrisse in una sua storica canzone: “ Non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia ”. La canzone, intitolata “La leva calcistica del ‘68”, era stata pubblicata nell’album Titanic nel 1982, ben quattordici anni prima del fatidico errore dal dischetto di Baggio e nello stesso anno dell’altrettanto storica vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio in Spagna.
A volte gli artisti sono profetici, a volte vanno a descrivere poeticamente ciò che la gente non coglie. In questo caso possiamo tranquillamente dire che De Gregori vide che prima del giocatore (e metaforicamente prima di qualsiasi ruolo lavorativo omologato dalla società) viene l’uomo. Roberto Baggio, lungo tutta la sua biografia umana, ha dimostrato di esserlo, nel senso più profondo del termine. Roberto Baggio è e sarà sempre un vincente.