La Fabbrica del vapore, a Milano, è un vasto complesso di palazzine industriali, basse e lunghe, distribuite a rettangolo intorno a un ampio cortile interno. Furono costruite alla fine del diciannovesimo secolo ed erano la sede dalla Ditta Carminati, che produceva materiale per la costruzione di ferrovie e tranvie. Il processo di deindustrializzazione ha fatto di quest'area uno dei tanti non luoghi che si formano all'interno delle grandi città europee, vere e proprie voragini aperte nel tessuto urbano, spesso riempite dalla speculazione edilizia. Non in questo caso, fortunatamente, perché l'area è stata bonificata ed è diventata la sede di un progetto giovani che ha visto il coinvolgimento di istituzioni pubbliche e private, divenendo un luogo di produzione artistica, di allestimento di mostre e altro.
È in questo complesso di edifici che si è svolta la seconda edizione di Itfestival, nei giorni 2,3 e 4 maggio scorsi. La rassegna ha confermato che nel teatro italiano, oltre che nel cinema, qualcosa di buono continua a muoversi, a crearsi e a ricrearsi e che vi è un fermento di giovani, un proliferare di compagnie e iniziative che si muovono in controtendenza rispetto ad altri settori artistici. L'idea nacque, come recita l'opuscolo di presentazione del programma di quest'anno, “da un gruppo di artisti e organizzatori che ha avuto la voglia di provare a dare visibilità al mondo dell'underground teatrale milanese.”
Gestito dall'associazione IT che sta per Indipendent Theatre il festival ha visto la partecipazione di 100 compagnie per un coinvolgimento di 450 persone che hanno dato vita a una tre giorni molto intensa di spettacoli che si avvicendavano dalle ore 18 fino a mezzanotte. Le serate si concludevano sempre con un confronto finale cui partecipavano autori, critici e pubblico: una specie di microfono aperto che costituiva pure un momento di critica estemporanea e di confronto, sempre assai stimolanti. Gli spettacoli erano distribuiti in molte sale, il biglietto di 5 euro copriva l'intera programmazione di una serata.
Gli elementi maggiormente caratterizzanti sono stati a mio avviso tre, di cui il primo e cioè il coinvolgimento di operatori e addetti al lavoro, era presente anche nella prima edizione. Diversamente dal secondo e cioè un originale modo di fare critica teatrale; infine, la scelta di mettere in scena lavori che non andassero oltre i venti minuti. La presenza degli operatori ha sgomberato il campo da un rischio: quello di una passerella che desse visibilità al lavoro artistico delle compagne, ma senza nessuno sbocco possibile, oltre la rassegna stessa. Per gli artisti coinvolti, invece, è stato un momento di primo confronto con il pubblico, ma anche di possibilità di uscire dal circuito dell'underground. La scelta di corti teatrali, obbligata per allargare il numero delle presenze e delle proposte, ha una tradizione di tutto rispetto (si pensi alle fulminanti commedie in poche battute dei Achille Campanile) e viene rilanciata oggi sempre di più, anche ragioni di bilancio.
Infine la critica, coinvolta anche in passato, ma cui quest'anno si chiedeva di lavorare su due piani diversi. Una prima recensione dello spettacolo appena visto, di non più di cento parole, veniva inviata subito, per mezzo di cellulari, alla redazione, che provvedeva a inserirla nel sito della rassegna. Tale scritto orientava il pubblico che non aveva ancora visto la rappresentazione, in attesa della replica. A fine serata, i critici venivano invitati a produrre, entro il mezzogiorno successivo, due recensioni più ampie (2000 battute), dedicate ai due lavori che avevano maggiormente apprezzato. Pubblico e operatori che vogliano ancora oggi visitare il sito di IT trovano un ampio ventaglio di riflessioni critiche e possono farsi un'idea della rassegna.
Dal teatro danza al teatro di parola, fino all'opera totale
La scelta compiuta dagli organizzatori non ha privilegiato alcuna poetica teatrale, ma lasciato spazio a ogni genere. Tuttavia, un'analisi dettagliata del programma, mi induce a considerazioni intorno ad alcune tendenze. Prima di tutto la forte presenza di un teatro di parola, in alcuni casi di classici del secondo '900 come Il calapranzi di Pinter e Le serve di Jean Genet, oppure ispirati da testi letterari come Animal Farm di Orwell o addirittura dalla poesia di Andrea Zanzotto e Amelia Rosselli. Per chi scrive è una buona notizia che anche compagnie giovani si rivolgano a questo genere di teatro, spesso con esiti felici; in particolare alcuni lavori comici al femminile, capaci di drammatizzare la condizione sociale delle donne, oppure di mettere alla berlina pregiudizi e cliché, ma anche di prendersi in giro (Barbie è morta, Tra mozziconi e reggiseni).
Tutto ciò che non aveva al centro la parola lo dividerei in due grandi categorie: teatro danza e opere totali. Chiarisco subito che l'uso di questi due termini è mio e non degli organizzatori che usano invece la parola inglese body per indicare i lavori teatrali con una forte presenza del movimento corporeo, mentre il secondo termine non compare in alcuna forma. Eppure, non saprei come definire diversamente lavori in cui l'interazione fra espressioni artistiche diverse come musica, video, danza e addirittura il computer, talvolta con esiti notevoli come per We Bulli, Darkroom, Mi e ti, era il dato stilistico saliente.
I temi più fortemente presenti, al netto di alcuni lavori onirici e visionari, come Arie di carta, giravano intorno alle difficili relazioni fra i generi, il degrado della vita sociale osservato e indagato spesso con le lenti del grottesco. Il linguaggio dei testi privilegiava la presa diretta, il registro colloquiale più comune oppure rifaceva il verso agli stereotipi televisivi o a quelli frequenti nelle comunicazioni nel social network. Il corto circuito fra realtà virtuale e reale è stato particolarmente felice in alcuni casi, come il già citato We Bulli. La cronaca è stata un'altra fonte ispiratrice per molti lavori, mentre la crisi economica e morale italiana entrava di striscio in alcune rappresentazioni, ma soltanto Darkroom (fra gli spettacoli che ho potuto seguire) mi è parso convincente nel trattarne tutti gli aspetti, mescolando abilmente reale e surreale.
Il tipo di rassegna non si prestava a invenzioni registiche di particolare interesse: gli spazi utilizzati erano più adatti in generale a una mise en scene piuttosto che a una rappresentazione vera e proprio e il rapido avvicendarsi delle compagnie non consentiva l'allestimento di macchine teatrali complesse. Eppure, in alcuni casi come in Mi e ti e alcuni altri lavori già citati, tale vincolo non è parso un limite, ma una risorsa. Non è un caso che si tratta di testi pensati ad hoc per il festival, oppure preesistenti, ma scritti e pensati per una durata di venti minuti. Sono apparsi meno convincenti in generale quei lavori che erano una via di mezzo fra il promo di una rappresentazione più ampia, oppure la riduzione a venti minuti di spettacoli più lunghi. Infine gli interpreti. La natura del festival non permetteva a chi si occupava di critica di vedere se non una porzione limitata di spettacoli, ma a meno di essere stato particolarmente fortunato, le prestazioni fornite degli attori sono state l'aspetto più convincente perché assai omogeneo nel livello, dell'intera rassegna.
Un bilancio complessivo
Il Festival è stato un indubbio successo, testimoniato anche dall'attribuzione del Premio-Hystrio-Provincia di Milano, proprio a IT Festival e alla Compagnia Teatrale FavolaFolle. Chiedo a Maddalena Giovannelli, che ha coordinato il lavoro della redazione critica, qualche lume in più sui programmi futuri:
“Mi pare che l'idea di continuare ci sia senz'altro!” risponde prontamente Giovannelli e conclude: “si tratta solo di riflettere sulle modalità: ma per questo immagino ci sarà uno spazio di riflessione da settembre.”
Naturalmente, come tutto, si può migliorare e ben venga una riflessione comune. Per chi si è occupato di critica, per esempio, non è stato facile confrontarsi con lavori così diversi in una stessa serata, dal momento che valutare uno spettacolo completo, pur nel limite dei venti minuti, è assai diverso che esprimersi su un promo, oppure su lavori che erano più vicini al cabaret che al teatro, o video che presentavano degli spettacoli piuttosto che rappresentarli. Forse, un'attenzione maggiore a questo aspetto va presa in considerazione; anche un giorno in più di festival, senza però alzare il numero delle rappresentazioni, potrebbe aiutare a seguire meglio il tutto. Il valore del festival, tuttavia, va anche messo in relazione con lo stato del teatro e in generale del modo in cui viene trattata la produzione culturale nell'Italia odierna.
Questo tema è stato largamente trattato nei dibattiti serali. Il festival, come ha più volte sottolineato Arianna Bianchi, fra le responsabili dell'intero progetto, è nato anche dall'esigenza di “fare rete” in una situazione di difficoltà che è comune non solo a compagnie teatrali, ma anche a orchestre e artisti singoli. È su questo che si sofferma la riflessione di Bianchi, che infatti così prosegue:
“Proseguiamo l'anno prossimo con l'idea di fare meglio, con la speranza di avere al nostro fianco un sostegno comunale più solido e con la voglia di creare un evento ancor più coinvolgente tanto sotto il profilo della proposta artistica, quanto dal punto di vista dell'impatto sulla città (e in ottica Expo, il tema del rapporto con Milano e con la cittadinanza diviene particolarmente sensibile). A dire la verità, i lavori alla prossima edizione sono già cominciati, e con entusiasmo! E bisogna ammettere che la recente vittoria del Premio Hystrio ha contribuito ha consolidare il buonumore e la spinta all'operosità!
L'accenno al sostegno comunale è un passaggio chiave. Guardando alla situazione nel suo complesso, abbiamo da un lato le grandi istituzioni che sono una specie di area blindata, un bunker che arranca anch'esso sotto il peso di tagli di spesa e mancanza di investimenti, ma che anche in tempi migliori non sempre ha svolto il ruolo di filtro necessario a favorire l'ingresso di compagnie giovani e testi contemporanei; dall'altro un proliferare caotico, magmatico, fatto di attori che escono da accademie e scuole, compagnie che nascono e cercano di farsi largo fra le mille difficoltà. Quello che manca è un livello intermedio fra la grande istituzione e tutto questo. Il festival è un pezzo di tale cammino che però deve prevederne altri.
Ciò che serve non è sempre e solo il denaro, gli investimenti possono essere di altra natura: per esempio, mettere a disposizione spazi inutilizzati e degradati senza oneri generali per un lasso di tempo ragionevole, in cambio del loro risanamento, lasciando poi a chi lo fa di autogestirsi e rendersi autonomo anche da un punto di vista economico. In altri paesi europei tutto questo è largamente praticato. Anche i privati però possono avere un ruolo se per esempio verranno introdotte norme chiare sulla defiscalizzazione degli investimenti in campo culturale: così come sarebbe opportuno capire che finanziare con cifre anche modeste un gruppo di giovani che vuole fare e ha i titoli per farlo, è più conveniente a lungo termine, che spendere cifre ingenti per una solo grande evento prestigioso. Alcune iniziative più spontanee tuttavia, sono altrettanto apprezzabili: per esempio la diffusione di concerti e spettacoli che si tengono in spazi domestici.
Infine, il ruolo degli artisti che non possono sempre accontentarsi della cosiddetta visibilità. Il principio che l'artista come qualunque altro lavoratore della cultura debba essere pagato, va difeso anche da loro, da un lato; dall'altro, diventare imprenditori di se stessi, o meglio autonomi gestori della propria creatività, è altrettanto necessario.