Ci sono due modi di diffondere luce: essere la candela oppure essere lo specchio che la riflette
(Edith Wharton)
Edith Newbold Jones è nata a New York il 24 gennaio del 1862. E’ figlia dell’alta società, cresce in ambiente aristocratico ma soffre di appartenere a quel limitato circolo culturale, perché lo sente come un limite alle sue aspirazioni di libertà. L’ambiente mondano a cui fin da bambina deve obbedire le è proprio stretto. E’ ribelle, è curiosa di tutto quello che esiste fuori della cosiddetta “gabbia” dorata. E’ fortunata poiché dall’età di quattro anni viaggia già in Europa: vedrà Roma, Firenze e poi Parigi, la Spagna e la Germania. Questo è il suo imprinting. Impara il francese, l’italiano e il tedesco. In seguito il suo maestro e amico scrittore Henry James la chiamerà “donna pendolo” tanta la sua smania di viaggiare e spostarsi continuamente.
Come era logico per l’epoca una promessa della buona società americana deve sposarsi molto giovane, così a soli ventitré anni va in moglie a Edward Wharton, originario di Boston. La sua “sete” di viaggi, come lei stessa afferma, non si placa e comincia a girovagare per l’Europa ma soprattutto in Italia. Per capire l’indole eccentrica, vitale e anticonformista di Edith basta riportare le sue parole con cui si definisce sentendo già di appartenere alla categoria di espatriati :“noi siamo le sventurate piante esotiche prodotte in una serra europea!”. Di questa distanza che prende dal suo paese ho appreso anche con la lettura fortuita di un libro regalatomi da un libraio che voleva disfarsene poiché ormai nei remainder: L’usanza del paese (1) pubblicato nel 1913. Qui è evidente la critica sottile, ironica ed efficacemente cinica verso l’avanzare di una nuova classe agiata, quella dei “nuovi ricchi” con grandi ambizioni di rango che si contrappone a quella depositaria della tradizione colta anglosassone che non ostenta benessere né smanie di successo.
La fama di scrittrice arriverà più tardi, anche se fin da giovane si era dedicata a scrivere poesie e brevi racconti. Quando scrive A Backward glance, sua autobiografia pubblicato nel 1933 (2) ed edito in Italia nel 1984 da Editori Riuniti, confessa che da ragazzina passava intere giornate nella biblioteca del padre ed è lì “che si spalancarono per me i cancelli del paradiso e, da allora in poi, non mi capitò mai più di sentirmi sola o triste”. Ciò che l’ispirava di più era l’avventura, lo scoprire nuovi luoghi soprattutto in Italia e nel Mediterraneo (3) dove alla fine del 1800 era davvero difficile spostarsi: mezzi scomodi come carrozze e lenti vagoni di treni a vapore la accompagnarono tra ville e giardini: le sue mete preferite.
Ama a tal punto la natura che in ogni modo cerca di trasmettere questo sentimento nelle sue opere che ne sono pervase, ma soprattutto di condividerlo con gli altri; fu così che appena conobbe un'altra straniera come lei in terra italiana, Vernon Lee, scrittrice anglo-fiorentina, capì che con lei avrebbe potuto iniziare un'entusiasmante amicizia. Anche lei infatti era una grande appassionata e studiosa di giardini e paesaggi italiani. Poi conobbe il grande scrittore americano Henry James con il quale fece escursioni nelle campagne dell’Italia centrale per scoprire i più sconosciuti tesori del paesaggio: parchi abbandonati, ville in rovina, castelli, borghi medievali, montagne e orridi a precipizio sul mare. Edith non si accontentava di osservarli e conoscerli, voleva riuscire a sentire quegli spiriti del luogo, quella “magia”, così la chiamava, che si sprigionava dall’erba calpestata, dallo strusciare una frasca piena di rose e bacche rosse scintillanti, nell’entrare in un parco desolato e dimenticato dal tempo e dagli uomini. Solo così riusciva poi a farne dei racconti, anche un po’ misteriosi, gotici, sorprendenti per il lettore che secondo lei doveva appassionarsi fino al punto di sentire i fruscii delle foglie al vento, di soffrire il caldo afoso sotto i pini marittimi e patire il vento gelido sotto le Alpi!
Entrando nel merito della sua prospettiva sul paesaggio italiano, Edith Wharton entra nel novero delle scrittrici di genere odeporico, possiamo definirla "travelling lady" e involontariamente diventa autrice di uno dei testi chiave sulla storia delle ville e dei giardini Italiani, un libro, al contrario di altri, ancora adottato in molte scuole inglesi e americane dove si impara l’architettura e la storia dei giardini italiani (4). Aveva appena pubblicato The Valley of decision (1904) il suo primo romanzo, quando l’anno seguente la rivista Century Magazine le chiede – “con mio grande piacere” lei afferma – di scrivere il testo di accompagnamento agli acquerelli di Maxfild Parrish raffiguranti delle ville storiche italiane, essendo considerata competente nel campo dell’architettura italiana. “Partii con mio marito nell’inverno del 1903 alla volta di Roma e cominciai il mio lavoro molto seriamente” scrive nell’autobiografia.
Il lavoro lo deve in gran parte a una donna, di cui ho già parlato in un precedente articolo, più anziana di lei, Violet Paget, passata alla storia con il nome di Vernon Lee e autrice di Studies of the Eighteenth Century in Italy, Belcaro ed Euphorion per lei icona irraggiungibile della famosa classe agiata che popolava l’ambiente colto trapiantato a Firenze a cavallo tra i due secoli. “La prima donna di talento e di raffinata cultura che avessi mai conosciuto”. Nel testo sui giardini italiani e nel successivo Italian Background (1905) emerge l’essenza dello sguardo della Wharton che spazza via volutamente la moda dell’abbandono a una sentimentale sensibilità estetica diffusa nei testi dell’epoca intrisi di un forte coinvolgimento emotivo.
Si pente di aver letto i testi di Peter, The Renaissance, di Symonds, Schetches in Italy and Greece, Paul Bourget, Sensation d’Italie. Afferma con qualche punta di snobismo di privilegiare quegli itinerari trascurati dalle guide turistiche del tempo perché fuori delle solite mete tradizionali, perché luoghi impervi dove è richiesto uno spirito autentico da viaggiatore più che da turista. Così si inerpica nelle strade sterrate della campagna dalla Lombardia alle Alpi svizzere, dai Sacri Monti di San Vivaldo in Toscana alle tebaidi delle colline umbre. Si lascia trascinare dal suono dei nomi e sicuramente influenzata dallo spirito guida di Bernard Berenson, studioso, collezionista e critico d’arte, suo mentore per gli studi italiani sulla storia dell’arte italiana; è consapevole che se l’esperienza estetica non voleva rimanere fine a se stessa doveva venire ai patti con il rigore scientifico.
Come afferma Harold Acton, scrittore e saggista, nella prefazione all’edizione italiana di Ville italiane e loro Giardini, “In tutta Europa si stava ancora diffondendo, a scapito di un più classico giardino all’italiana, la moda del romantico 'giardino all’inglese'. Il gusto architettonico era ancora sotto il dominio di Ruskin ed il barocco era guardato con sfavore, se non con ripugnanza”.
I punti centrali dello spirito osservante della Wharton potrei così sintetizzarli anche se necessariamente debbo fare in questa sede una semplificazione:
- Un primo sguardo critico e quasi paradossale lo si coglie già nell’incipit del suo lavoro dove afferma “Anche se è esagerato affermare che nei giardini italiani non vi siano fiori, tuttavia per apprezzare l’arte del giardino all’italiana bisogna sempre tener presente che essa non si basa sulla loro coltivazione”.
- La quint’essenza del giardino italiano a suo vedere consiste nell’"ineffabile magia" che trasmette ma di cui il visitatore "è soltanto vagamente consapevole", poiché questa magia è per i sensi più potente, più duratura, più avvincente dei più elaborati e brillanti risultati del moderno giardinaggio – una nota critica! Ma quale è il segreto di questa fascinazione? Tre elementi chiave hanno determinato il successo del giardino italiano tra il cinquecento e la fine del settecento: linee austere e imponenti con effetto di ampio respiro e semplicità, l’armonia tra edifici e paesaggio circostante – colline, pianure e corsi d’acqua – e l’essenzialità e vivibilità del giardino: il frutteto, percorsi ombreggiati, prati esposti al sole, tutti facilmente accessibili da chi li abitava.
- Sarà possibile riprodurre un giardino di tal fatta, cioè in stile italiano sostiene la Wharton, solo se se ne comprendono i principi ispiratori “il fine e gli usi cui il padrone di casa intendeva destinare il suo giardino”. “Il vero valore dell’antica concezione del giardino all’italiana sta nell’incontro tra logica e bellezza come dovrebbe accadere in tutte le buone opere d’architettura”.
Perentorio infine era il monito dell’autrice di Italian villas and their gardens: “gli inglesi […] hanno colonizzato numerosi le pendici dell’Arno, hanno contribuito non poco alla distruzione degli antichi giardini, introducendo […]i tappeti erbosi e gli alberi caduchi”. “Naturalmente questa anglicizzazione del giardino toscano non derivò soltanto da una diretta influenza inglese. Le jardin anglais era di moda in Francia quando Maria Antonietta progettava il Petit Trianon e Tuckermann, nel suo libro sui giardini italiani, ha esposto una teoria secondo la quale la scuola naturalistica del giardino aveva effettivamente le sue origini in Italia, nei giardini Borghese di Roma, che egli riteneva progettati, più o meno nella presente forma, da Giovanni Fontana, addirittura nel primo quarto di secolo XVII.” “Non può sorprendere che nei dintorni di Firenze si trovino soltanto pochi giardini ancora allo stato originale”.
Edith Wharton, vivrà per molti anni a Parigi e in Europa, sarà molto nota come scrittrice di romanzi e racconti, passerà alla storia della letteratura mondiale per aver ricevuto come prima donna il Premio Pulitzer nel 1921 con il romanzo L’età dell’innocenza, ma non tutti la ricordano come competente e fine conoscitrice del paesaggio italiano.
Note:
1. Wharton E., L’usanza del paese, Longanesi, 1985
2. Wharton E., Uno sguardo indietro, Editori Riuniti, 1994
3. Wharton E., Una crociera nel Mediterraneo, Archinto, 2005
4. Wharton E., Italian villas and their gardens. Pictures by Maxfield Parrish. The Century Co.,1904, trad. It. Ville Italiane e loro giardini, Passigli editore, Firenze, 1998