“L’uomo ama talmente l’uomo che, quando fugge la città, è ancora per cercare la folla, cioè per rifare la città in campagna.” (Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, 1859-66)
Urbanesimo, associazionismo, cultura, comunità, megalopoli, caos, ma anche interstizi, margini, confini, periferia. La materia viva della vita, quella calpestabile e democraticamente fruibile, è quella della quale da sempre si è occupata la street art. Una bomboletta in mano e una valigetta stracolma di una potenza di visione esplosiva nell’altra, Kayone, uno degli street artist italiani più famosi riesce anche su supporti come la tela a trasporre tutta la forza del caos stradale.
Con un quarto di secolo di esperienza nel writing, osservando i numerosi sketch di preparazione che hanno trovato poi realizzazione su vari muri, si capisce subito la grande passione, la costanza, la ricerca sulla lettera e sulle illustrazioni classiche di ispirazione alla cultura Hip Hop. Schizzi, abbozzi, “con la testa rivolta al futuro e gli occhi rivolti al passato” come de Chirico metafisicamente sosteneva, Kayone si confronta con il linguaggio delle avanguardie, cattura elementi innovativi, li prende, li sequestra e li riversa silenziosamente, ma con il botto, in strada, in quel teatro urbano e a cielo aperto che tutti ma proprio tutti hanno la possibilità di guardarlo e di farlo, noi spett-attori della strada, di questo funambolico spazio che è allo stesso tempo dentro e fuori.
“Era un po' curioso pensare che il cielo era lo stesso per tutti, in Eurasia, in Estasia, e anche lì. E la gente sotto il cielo, anche, era sempre la stessa gente... dovunque, in tutto il mondo, centinaia o migliaia di milioni di individui, tutti uguali, ignari dell'esistenza di altri individui, tenuti separati da mura di odio e di bugie, eppure quasi gli stessi...” (dal libro 1984 di George Orwell).
Mura che forse solo la devastante portata energetica del colore, di un’idea o di una parola potrebbero abbattere. La street ha sempre portato con sé una riflessione, una differente visione oltre la differenza stessa, oltre il confine, oltre le mura. “Transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti istantanei, per attimi di incontro, di cambio, di contaminazione...” le parole importanti che una studiosa, amante della street come Francesca Alinovi, una donna che ha saputo cogliere l’importanza di questa modalità espressiva proprio sullo scoppio, sul nascere del movimento underground newyorkese che avrebbe lasciato nella scia nomi stellari del calibro di Haring Basquiat, Scharf e tanti altri.
Parole che sottolineano l’importanza delle ibridazioni tra generi, ponendo l’accento sull’incontro-scontro di idee, di scelte espressive differenti, con la voglia e la coscienza di sperimentare, provare ed esperire la vita stessa, perché l’utopia novecentista non era solo un sogno, e l’arte si amalgama alla vita, e la vita all’arte stessa... e quale luogo meglio della strada, tra sudori, odori, rumori… in quel gran tutto simultaneo che veniva decantato nel teatro nunique di Birot, non casualmente amico di Apollinaire. Surrealismi che donano alla parola stessa una valenza grafica e plastica, e questo i graffitisti lo sanno bene. “La vita più intensa della forma, la strada più forte dell’accademia”.
L’arte di Kayone è un odore forte che si insinua nel laconico precipizio di uno sguardo, un grande occhio, o piccolo, non importa, nelle tele l’artista lo inserisce, lo nasconde tra le composizioni astratte, tra le botte di colore e gli schizzi total white quasi purificanti da eraser cromofobo anche solo per un istante, un istante di vita intensa, il limite di uno sforzo, la virata di un gesto, una potenza espressiva declinata e che ricorda gli echi dell’espressionismo astratto americano di Pollock o del new dada colante e aggettante di Rauschemberg.
Kayone guarda ai padri e li rimixa, per un tutto caotico, assordante, ma a intermittenze rigorose e geometriche, pensate, lunghe, perché l’arte del writing richiede tempo e precisione e l’artista ne ha la coscienza. Gli occhi che Kayone ci nasconde tra le gettate cromatiche, ricordano i grandi sguardi che anche un altro street artist famoso come JR ha utilizzato per i suoi lavori in strada, occhi di matrice orwelliana, precursore del Grande Fratello, sguardi che ci controllano, guardiamo ma veniamo guardati, sempre, continuamente, costantemente. Occhio come elemento rappresentativo di una visione espansa, occhio saccheggiato fin dai collage dada-surrealisti. “L’arte di avanguardia non solo non è morta, ma vive spiando con grandi occhi spalancati sul centro della periferia...” affermava brillantemente l’Alinovi.
Occhi spalancanti, famelici, sul centro della periferia, ai margini, tra dentro e fuori. Kayone nomina e battezza le proprie visioni trasbordanti, Modulazione rossa, Acquario, Sirio, Rettore Quattro, Natura minacciata, L’origine della rete, Ciclone mediatico, Dominazione, Metallo pesante, CMB, Frontiere violante. Titoli che già di per sé sono esplicativi di una volontà di rappresentare la realtà tangibile di noi tutti, quella dei nuovi media, della rete, di un gigante ipertesto nel quale navighiamo anche inconsciamente, perché ormai siamo investiti da un inquinamento semiotico anestetizzante.
E allora diventa impossibile rimanere impassibili davanti a quel tutto assordante di Kayone, lo sguardo viene disturbato ma nell’accezione piacevole, viene sollecitato, in quella centrifuga accesa, dove la bomboletta spray bianca si mischia all’acrilico contro ogni divisione di genere, generando punti di luce focus, vividi e accecanti, vitali come il latte più celebrato nelle pellicole di Kubrickiana memoria, dove anche lì un singolo occhio truccato diventava frontiera violata... Ma la confusione ritrova anche momenti di logica apparentemente perduta, Kayone usa il lettering alla maniera cubista di Braque, tenendo legati due lembi di un lenzuolo eunuco, figurativo e non figurativo, un astratto distratto?
Forse. Ma noi siamo dentro a una guerra di cromie pop, quello stesso pop di cui la street spesso si nutre. Il calibro e lo sparo visivo di Kayone non va mai ingoiato tutto insieme, va sorseggiato a dosi, e solamente così ci si può rendere conto di un attento bilanciamento, di un soppesarsi equilibrato di differenti cariche espressive, tra l’esplosione e l’implosione.
E la città chiama, il legame al sesso, non maschile, non femminile, ma urbano è sempre presente, si fa materia, l’artista infatti ottiene il nero dal bitume e il bianco dalla vernice per le strisce pedonali, ne sentiamo quasi l’odore dell’asfalto, ne percepiamo l’essenza, lo sentiamo sotto le palpebre e sulle ciglia come un mascara, come una stratificazione di memoria visiva che diventa quasi sensuale, e scivoliamo così… across the universe.